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Andrea Vento*
L'annuale rapporto dell'organizzazione Oxfam sulla disuguaglianza globale viene regolarmente emesso in concomitanza del Word Economic Forum di Davos in Svizzera, allo scopo di indurre la leadership planetaria a riflettere sui nefasti effetti sociali e ambientali prodotti delle loro politiche, le quali continuano a portare esclusivo vantaggio ad una ristretta elite a discapito della maggioranza della popolazione mondiale.
Quest'anno, i 2.700 leader mondiali fra politici, amministratori delegati delle principali multinazionali e big della finanza presenti alla consueta passerella mondiale, ormai giunta alla 53esima edizione, hanno visto aleggiare sul loro summit l'immancabile ombra delle critiche dei movimenti e del rapporto Oxfam che non casualmente in italiano è stato tradotto in "La disuguaglianza non conosce crisi".
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Come preannunciato da alcuni giorni, il 16 dicembre il Consiglio Europeo, evidentemente non appagato dagli effetti delle tranche precedenti, ha approvato il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia introdotte a partire dal 23 febbraio scorso, due giorni dopo il riconoscimento da parte di Mosca delle Repubbliche Popolari del Donbass e uno prima dell’inizio dell’invasione via terra1.
Nonostante tali misure restrittive, da un lato, non stiano incidendo sulle sorti del conflitto, nel cui contesto l’esercito russo continua a sparare giornalmente dai 30.000 ai 50.000 colpi di artiglieria mentre le forze ucraine non sembrano nemmeno in grado di mantenere il ritmo dei 7.000, dall’altro, stanno avendo pesanti ripercussioni sul ciclo economico e sui flussi commerciali degli Stati che le hanno comminate2. In particolare per quanto riguarda il nostro Paese il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) nel suo ultimo Outlook dell’11 ottobre prevede per l’Italia, a seguito degli effetti dell’inasprimento delle sanzioni, una variazione negativa del Pil per il 2023 del -0,2% (rispetto a +0,7% di luglio). Il nostro risulterebbe l’unico Paese in recessione dell’eurozona insieme alla Germania (-0,3%), non causalmente i due Stati maggiormente dipendenti fino allo scorso anno dalle forniture russe, quantificate intorno al 40% del fabbisogno nazionale di entrambi.
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Benjamin Norton *
L'ambasciatore degli Stati Uniti in Perù, Lisa Kenna, è un veterano agente della CIA. Ha incontrato il ministro della difesa del paese appena un giorno prima che il presidente di sinistra democraticamente eletto, Pedro Castillo, venisse estromesso con un colpo di stato e incarcerato senza processo.
Il ministro della difesa, un generale di brigata in pensione dell'esercito peruviano, ha ordinato ai militari di rivoltarsi contro Castillo.
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Diana Johnstone *
Le guerre imperialiste si combattono per conquistare paesi, popoli, territori. Le guerre di gangster si combattono per sbarazzarsi dei concorrenti. Nelle guerre di gangster si lancia un avvertimento oscuro, poi si spaccano le finestre o si brucia tutto.
La guerra di gangster è quella che combatti se sei già il boss e non vuoi lasciare che nessun altro mostri i muscoli nel tuo territorio. Per i "don" di Washington il loro territorio può essere quasi dovunque, ma il suo cuore è l’Europa occupata.
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Dalla fine del Bipolarismo a quella della Guerra Fredda.
La trasformazione della struttura politica degli stati del Socialismo reale e il mutamento dell’assetto geopolitico europeo e mondiale fra il 1989 e il 1991
La fine della Guerra Fredda, la “riunificazione tedesca” e la promessa occidentale
A seguito dell’inasprirsi del confronto bipolare causato dell’irrigidimento delle politiche Usa verso l’Urss impresse nel 1945 dal nuovo presidente Harry Truman e della conseguente corsa al riarmo, al nuovo assetto geopolitico bipolare uscito dalla Conferenza di Yalta1, si affiancò la cosiddetta Guerra Fredda. Termine coniato dallo scrittore inglese, George Orwell, nel suo libro del 1947 “The cold war” per indicare la situazione delle relazione internazionali delineatesi dopo la Seconda Guerra mondiale caratterizzata da una forte conflittualità e da un perenne stato di tensione fra Stati Unti e Unione Sovietica.
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Alexander Höbel
Non è possibile delineare “a caldo”, all’indomani della sua scomparsa, una riflessione adeguata su una figura tanto complessa e contraddittoria come quella di Michail S. Gorbačëv; l’«enigma Gorbaciov», come lo definirono sia il suo antagonista Egor Ligaciov, sia il giornalista tedesco Gerd Ruge, corrispondente da Mosca dal 1987 al 1993[1].
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Floriano Pigni
Il vile attentato e la tragica morte di Darya Dugina hanno suscitato ovunque commenti e valutazioni sul pensiero “dughiniano” e sui riflessi politici che il brutale attentato potrebbe avere. Un atteggiamento ricorrente da parte di corrispondenti esteri di giornali europei a Mosca (cito El Pais ma non è l’unico caso) è quello di assegnare la qualifica di “fascista” ad Alexander Dugin. Non difetta, peraltro, l’estensione della qualifica di “fascista”, da parte di varie forze politiche e stampa italiane, a diversi personaggi del variegato mondo della destra conservatrice e reazionaria.
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Leonardo Pegoraro
I crimini contro gli indigeni per i quali Papa Francesco ha recentemente e coraggiosamente chiesto perdono nel corso del suo pellegrinaggio penitenziale in Canada si sono verificati attraverso e all’interno di una rete di ‘scuole residenziali indiane’. Ossia istituti ‘educativi’ - campi di concentramento e sterminio, secondo le vittime - che, ispirati al motto assimilazionista: ‘uccidi l’indiano, salva l’uomo’, miravano a eliminare le culture indigene, bollate come 'subumane', e rimpiazzarle coercitivamente con quella ‘superiore’ dei coloni bianchi. Creati e finanziati dal governo canadese e operativi a partire dalla fine dell’Ottocento fino alla fine del secolo scorso, queste scuole vengono date in gestione a chiese cristiane di diversa denominazione: in gran parte alla chiesa cattolica ma anche a chiese protestanti come quella anglicana.