Domenico Moro, Fabio Nobile
Per fare una valutazione del risultato della competizione elettorale per il Parlamento europeo, è necessario precisare quali sono le attribuzioni di questo organismo. Il Parlamento europeo ha tre funzioni principali: a) condivide con il Consiglio dell’Unione la funzione legislativa; b) approva o respinge i candidati a componenti della Commissione europea (il governo della Ue); c) Condivide con il Consiglio dell’Unione il potere di bilancio della Ue e può pertanto modificare le spese dell’Ue.
Il problema, quindi, è che il potere è condiviso con altri organismi, che contano di più, come Il Consiglio europeo, il consiglio dell’Unione europea, e soprattutto la Banca centrale europea, che ha una notevole influenza sui governi nazionali, come prova la lettera inviata da Trichet e da Draghi nel 2011 a Berlusconi, che fu costretto a dare le dimissioni da capo dell’esecutivo. Il Consiglio europeo, composto dai capi di governo e di stato della Ue a 27, ha pure molto potere, potendo nominare il Presidente della Commissione, che deve essere approvato dal Parlamento europeo, e definisce gli orientamenti generali dell’Ue. Il Consiglio dell’Unione europea, composto dai ministri dei 27 Paesi Ue competenti per ciascun settore, detiene parecchie competenze, tra cui quelle sulla legislazione, sul bilancio Ue, sulle politiche economiche generali degli Stati membri, sugli accordi internazionali tra la Ue e altri Stati, ecc. Di fatto il potere del Parlamento europeo è inferiore a quello dei normali parlamenti nazionali anche se non può definirsi totalmente ininfluente.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è il quadro generale della fase storica che vede la Ue in grave difficoltà economica. La crisi è tutt’altro che passata e da molti anni l’economia continentale perde posizioni a livello internazionale, in termini di quota detenuta sul Pil mondiale, e si trova in difficoltà a competere con le altre due più importanti aree economiche mondiali, la Cina e gli Usa. Il modello stesso dello Stato sociale europeo è entrato in crisi, mentre aumenta la povertà, l’immigrazione cresce, creando tensioni tra i settori più bassi della popolazione, e la natalità decresce. La società europea negli ultimi decenni si è polarizzata in due parti, una è composta da quanti hanno trovato giovamento dalla globalizzazione e dall’integrazione europea, e l’altra è composta da milioni di lavoratori e disoccupati che ne sono stati danneggiati. Gli europeisti sono soprattutto tra i primi, mentre gli euroscettici o apatici verso la Ue e le elezioni europee sono tra i secondi.
L’insoddisfazione sociale diffusa e lo scarso appeal delle elezioni del parlamento si riflette su due fenomeni. Uno è l’astensionismo, che a livello europeo raggiunge quasi la metà dell’elettorato. Ha votato a queste elezioni soltanto il 51,01% degli aventi diritto e anzi si tratta di un dato in lieve miglioramento rispetto al 2019 (50,66%) e soprattutto rispetto alle tornate elettorali del 2014 (42,61%) e del 2009 (42,97%). L’analisi del voto denota anche che dove c’è più povertà, come nel Mezzogiorno d’Italia, gli elettori tendono a restare a casa.
L’altro fenomeno è la crescita delle destre estreme, che hanno catalizzato il voto di insoddisfazione diffuso in larghe masse della popolazione. Questo dato appare evidente soprattutto nei Paesi più importanti della Ue, la Francia e la Germania. Qui si è verificato un vero terremoto politico che ha schiacciato i partiti al governo. In Francia, RN, il partito di estrema destra Marine Le Pen, ha preso il 31,4% (ottenendo 12 seggi in più delle ultime elezioni europee), ossia più del doppio del secondo partito, quello di governo e che fa riferimento al presidente Macron, che ha ottenuto appena il 14,6%. In Germania i partiti di governo della coalizione “semaforo”, i socialdemocratici dell’Spd, i verdi e i liberali, hanno subito un vero e proprio crollo. Soprattutto la Spd ha ottenuto il peggiore risultato della sua storia, scivolando al terzo posto con il 13,9% dei voti (2 seggi persi), superata non solo dalla Cdu/Csu con il 30% dei voti, ma soprattutto da Afd, partito di estrema destra, con il 15,9%, che guadagna 6 seggi in più rispetto alle precedenti elezioni. Il peggiore risultato relativo è raggiunto dai verdi che, con l’11,9%, perdono 9 seggi, mentre i liberali si fermano al 5,2%.
A riprova che le destre estreme crescono nelle zone più povere è proprio il successo di Afd nella ex Germania est dove è di gran lunga il primo partito con il 27,1%. La debacle della sinistra di governo è dovuta in gran parte al fatto che si è concentrata sui diritti civili e delle minoranze sessuali e non solo, tralasciando la difesa dei diritti sociali, anzi cavalcando e favorendo le trasformazioni economiche della globalizzazione che hanno penalizzato milioni di lavoratori salariati. Molti fra i partiti di sinistra, specie quelli moderati come la Spd, sono sempre più partiti che, oltre a fare gli interessi delle élites capitalistiche, hanno la loro base elettorale tra il ceto medio laureato che vive nelle metropoli, assumendo atteggiamenti spocchiosi verso i più poveri invece di difenderli come facevano una volta. Di fatto non si tratta più di partiti di sinistra ma di partiti liberali, cioè che hanno fatto del liberalismo la propria ideologia e proposta politica. Questa è la critica che in Germania ha rivolto Sahra Wagenknecht alla sinistra, compreso il suo vecchio partito, la Linke. Non è un caso che il partito della Wagenknecht (BSW), nato da appena pochi mesi, sia ora il quinto partito tedesco con il 6,2% e nella ex Germania est sia il terzo partito con il 13,8% dei suffragi. A essere risultata vincente è stata proprio la critica che BSW ha rivolto ai suoi ex compagni della Linke, che è crollata al 2,7%, e alla sinistra tradizionale in genere, che gli ha consentito di recuperare molti voti delle classi inferiori.
Per quanto riguarda la sinistra radicale che mantiene posizioni di rappresentanza delle classi subalterne, oltre al risultato eccezionale di BSW, vanno segnalati il 9,9% della France Insoumise di Melanchon, che aumenta di 4 seggi, il 9,3% del Partito comunista greco, e il 5,6% del Partito del lavoro belga.
Ad ogni modo, il vento di destra che ha sconvolto il panorama di Francia e Germania, considerato nel suo insieme non è così travolgente. I due gruppi di destra e estrema destra, Conservatori-riformisti e Identità e democrazia, sono passati da 118 seggi a 131, un risultato positivo ma non eccezionale. Del resto, anche la maggioranza popolare, socialdemocratica e liberale che sosteneva la von der Leyen, malgrado il crollo dei socialdemocratici in Germania e dei liberali in Francia mantiene un buon 55,6% dei seggi (410 seggi) contro il 59,1% (417 seggi) del 2019. All’interno della coalizione il Partito popolare europeo aumenta di 18 seggi, da 168 a 186, i socialisti perdono due soli seggi, passando da 139 a 137, grazie anche alla tenuta del Psoe spagnolo (30,2%) e al buon risultato del Pd italiano (24,1%). A risultare sconfitta è l’ala liberale e macroniana della maggioranza europea, Renew Europe, che perde oltre 20 deputati scendendo a 79.
Quindi, a livello europeo non dovrebbe cambiare moltissimo, anche se è possibile che il risultato elettorale, e soprattutto l’affermazione della destra estrema e il crollo dei verdi, determini all’interno della stessa maggioranza una diversa attenzione ai temi della sua agenda. In particolare, probabilmente sarà posto meno l’accento sulla transizione ecologica, giudicata troppo stretta nella sua tempistica da molti partiti in molti Paesi, e verrà posto un maggiore accento sulla questione della sicurezza e dell’immigrazione. C’è, inoltre, da vedere anche che tipo di attenzione verrà posta alla questione della guerra e, in particolare, non tanto alla costituzione di un esercito europeo (molto improbabile date le divisioni tra Stati nazionali), quanto all’aumento della spesa europea per le armi e all’integrazione dell’industria bellica continentale. Di questo ce ne renderemo conto probabilmente quando verrà costituita la nuova Commissione europea. Soprattutto l’emergere di una destra estrema e di una sinistra radicali forti e caratterizzate da un euroscetticismo marcato nei due Paesi più importanti dell’Ue potrebbe portare anche a un rallentamento dei processi di integrazione europea, soprattutto quella bancaria e finanziaria.
Anche per questo, dopo il risultato elettorale, le borse europee sono crollate, lo spread è risalito e soprattutto il rendimento sui titoli di stato francesi è cresciuto (anche per la decisione pericolosa di Macron di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, che potrebbero vedere la vittoria della Le Pen). A causa dell’incertezza sulla stabilità della Ue e, in particolare, di uno stato importante come la Francia, si è anche registrato il crollo della capitalizzazione delle banche francesi, italiane, spagnole, olandesi e tedesche, che hanno nei loro bilanci molti titoli di stato dei rispettivi Paesi. Le prime 12 banche europee hanno bruciato 50 miliardi di capitalizzazione nell’ultima settimana. Tutti segni, questi, dell’inquietudine delle élites capitalistiche e finanziarie per il risultato elettorale europeo non pienamente soddisfacente per loro e per i timori legati al diffondersi di orientamenti euroscettici.
Passiamo ora all’analisi del voto in Italia. Qui il voto alle elezioni europee raggiunge un nuovo record di astensionismo (ha votato solo il 49,49% degli aventi diritto rispetto al 54,5% del 2019).
Questo dato nei commenti ufficiali, sia dei media che delle forze politiche, viene ancora molto sottovalutato. Non gli si dà il giusto peso né nella stima reale delle percentuali delle singole forze politiche né nella rappresentatività che hanno nella società. C’è da dire quanto l’astensionismo non sia un grande problema per le élites dominanti, anzi. La netta separazione tra società civile e società politica, entro un determinato limite, favorisce la passività delle masse e aumenta la capacità delle classi dominanti di gestire a proprio vantaggio la dialettica politica.
Veniamo ai risultati delle forze politiche.
Le uniche forze che hanno aumentato i voti assoluti sono il Pd, che aumenta di 300mila voti rispetto al 2022, e la lista AVS, che aumenta di circa 600mila voti rispetto al 2022. Tutte le altre perdono in voti assoluti. Da FdI (ha perso 600mila voti assoluti rispetto al 2022) alla Lega, fino a Movimento cinque stelle che subisce un vero e proprio crollo (un calo di circa due milioni di voti rispetto alle politiche 2022). Per non parlare dei centristi di Calenda e Renzi che si schiantano tra le loro beghe di potere. Nessun confronto con il passato si può fare con la lista Pace, Terra e Libertà che non va oltre il 2,2% (mezzo milione di voti) chiarendo, però, che anche in Italia esiste uno spazio potenziale di una forza di rottura a sinistra, ma non espresso a causa delle dinamiche interne che riducono a marginale tale potenziale.
Il Pd ha certamente ha aumentato i suoi consensi perché Elly Schlein ha impresso una linea più spinta sul terreno sociale (dalla sanità al salario minimo) collegandola con un elemento identitario dato dall’antifascismo. Per questo è stata premiata. Un risultato che nasce in primo luogo dalla contesa egemonica vinta con il Movimento Cinque Stelle.
AVS, che è un’alleanza tra Verdi e Sinistra italiana, ha avuto un vero e proprio exploit.
Certamente hanno pesato le scelte sulle candidature Salis (ha raggiunto circa 176mila preferenze) e altre candidature come quella di Mimmo Lucano o dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Nello stesso tempo l’esigenza di radicalità inespressa ha trovato in questa forza un’attrattiva forte, soprattutto tra i giovani. Per Avs, in relazione alle elezioni europee, la divisione in due gruppi parlamentari di riferimento a Strasburgo delle due forze principali (Gue per SI e Verdi Europei per la compagine di Bonelli) non è un dettaglio, viste le posizioni divergenti su questioni cruciali, a partire dal sostegno già annunciato dai Verdi Europei al secondo mandato di Ursula von der Leyen.
Non può passare inosservato il crollo dei Cinque stelle. Il restare in mezzo al guado tra adesione al centrosinistra e smarcamento su alcune questioni come la guerra ha disorientato il suo elettorato principalmente concentrato nel Sud dove l’astensionismo è stato più forte. Il suo elettorato è stato spinto da una parte a votare il nuovo corso del PD e dall’altra a rifluire di nuovo nell’astensione.
A destra tra Salvini che scalcia con Vannacci e Fi che si assesta quale seconda forza della coalizione, la Meloni è quella che ne esce politicamente meglio potendosi vantare di essere l’unica leader europea al governo a non uscire ammaccata dalla tornata elettorale.
Questo il quadro sintetico dei risultati. Sul piano politico è evidente un dato rispetto a quanto descritto sui Paesi europei: in Italia non esiste una forza significativa né a destra né a sinistra che sia di rottura rispetto al quadro europeo e alle politiche di guerra dominate dalla Nato. È come se le forze potenzialmente di rottura siano state o rese marginali oppure assorbite dentro una dialettica tutta nazionale (ad esempio su fascismo e antifascismo, diritti civili e sul terreno delle politiche interne) e allo stesso tempo allineate, poco distanti o tentennanti sui nodi strategici principali e sulla politica estera.
L’astensione ci dice, tra l’altro, che invece quello spazio esiste anche in Italia. Si sente l’assenza di una forza che produca mobilitazione, spazi di elaborazione e capacità di ridare continuità alla questione della rappresentanza dentro cui riprenda cittadinanza la questione dell’alternativa all’esistente.
Lo stesso voto alla Lista di Santoro (nata in tre mesi come al solito) dimostra le potenzialità e i limiti. Ma sono potenzialità che vanno coltivate, spinte generosamente davanti agli occhi di milioni di persone sfibrate dalla crisi ma demotivate ad ogni desiderio di cambiamento. Dare una risposta a quell’esigenza significa contribuire a costruire un campo ampio di opposizione al sostegno italiano alla guerra, all’aumento delle spese militari, all’integrazione dell’industria bellica europea e agli effetti delle politiche di Bruxelles, facendo lievitare un dibattito ed uno spazio politico duraturo che non si sciolga al primo starnuto. La sinistra radicale, composta da comunisti, anticapitalisti, eco-socialisti, ecc. ha lì la sua ragione di esistenza. Senza surreali strette organizzative questa sinistra avrebbe bisogno di continuità per essere identificata oltre il piccolo circuito militante.
Un campo autonomo con contenuti chiari, ma allo stesso tempo in grado di fare politica senza farsi chiudere in un recinto di marginalità residuale. In questo senso non basta dire, ad esempio, ad AVS o al Movimento cinque stelle che sono funzionali alla riproduzione del vecchio schema bipolare o subalterni al PD, ma bisogna chiamarli nell’opposizione, visto il consenso conquistato, alle loro responsabilità sulle questioni dirimenti. Nella sostanza, siamo tutti antifascisti, contro riforme come autonomia differenziata e premierato, ma anche consapevoli che Nato, guerra, atlantismo, Ue e le sue politiche non sono compatibili con una prospettiva di pace e cambiamento né in Italia, né in Europa né nel mondo. La realtà è lì ogni giorno a ricordarlo.