Mattia Gambilonghi *

 

Ricordare la figura di Lucio Magri a dieci anni dalla sua scomparsa è non solo un atto politico dovuto e obbligato, in quanto volto a preservare e onorare la memoria di un dirigente politico dotato di una profondissima cultura politica e di un’elevatissima capacità analitica e progettuale; ma è, soprattutto, un atto utile e necessario politicamente, per noi tutti e per la più ampia comunità della sinistra italiana: se un futuro e una capacità propositiva ed egemonica per questa disastrata sinistra possono essere immaginati, ciò può avvenire proprio ripartendo da figure dotate della statura di Lucio Magri, raccogliendo la sua eredità intellettuale e tentando di metterla a frutto nell’oggi.

E’ evidente come non sia facile scegliere – vista l’ampiezza delle tematiche affrontate da Lucio e degli spunti di riflessione che nella sua esperienza politica più che cinquantennale ci ha lasciato – da quale nodo e da quale questione partire e muoversi al fine di ragionare sull’oggi e sulle prospettive future della nostra area politica (quella della sinistra). In maniera forse un po’ ardita, cercherò di ragionare sulla macro-tematica che forse le ingloba tutte, e che proprio per questo ha rappresentato la costante, il grande filo rosso della riflessione teorica di Magri e della sua attività di dirigente politico. Mi riferisco al tema e al nodo (insieme teorico, strategico e politico) che nella storia del PdUP per il comunismo ha preso il nome di “terza via”: il tentativo, cioè, di individuare un nuovo paradigma della trasformazione sociale e della transizione al socialismo. Un paradigma che, agli occhi di Magri, per riuscire realmente nel suo tentativo di profonda innovazione e ridefinizione della dottrina e della strategia ad essa conseguente, necessita di poggiare su una nuova e più avanzata sintesi tra i due principali tronconi in cui è venuto articolandosi il movimento operaio (quello comunista e quello socialdemocratico) e tra le due grandi realizzazioni storiche a cui essi hanno dato vita, traducendosi in concrete esperienze statuali e di governo: l’esperienza sovietica e del “socialismo reale” da un lato, e quella socialdemocratica del Welfare State e del compromesso keynesiano dall’altro.

Si badi bene: nella riflessione di Magri, questa nuova sintesi non può in alcun modo ridursi ad una sorta di incontro a metà strada tra le due tradizioni, in una logica di reciproche concessioni. La sintesi a cui pensa Magri non è la traduzione politica del motto latino in medio stat virtus; ma è, al contrario, la più coerente e conseguente applicazione dell’accezione hegeliana del concetto di sintesi, inteso come superamento dialettico, in grado di inglobare, ricomprendere e portare a risoluzione i limiti reciproci della tradizione terzinternazionalista e di quella secondinternazionalista. In questo contesto, l’enzima e il vettore di questo aufhebung è individuato nel nesso e nella saldatura che a suo parere va operata tra quella che definisce la “lezione strategica del ‘68” ed il corpus teorico-politico ereditato dalla storia precedente del movimento operaio.

L’accoglimento e l’incorporazione teorica del nucleo centrale che a livello teorico e rivendicativo ha segnato l’esperienza del ‘68 permetterebbe infatti di portare a compimento il definitivo superamento di quelli che abbiamo definito i limiti della tradizione storica precedente: ossia, di quello statalismo e di quell’economicismo che, con modalità diverse ma speculari, hanno segnato tanto il filone socialdemocratico quanto quello comunista. Se la caratterizzazione statalistica di quelle tradizioni politico-culturali rimanda ad una concezione di tipo giacobino, concezione che ai fini della trasformazione sociale assume come primario ed irrinunciabile il momento statale ed il controllo delle leve amministrative che da esso emanano (nella duplice forma della presa del potere, per il bolscevismo, e dell’accesso per via elettorale al governo, per la socialdemocrazia), riconfermando così la natura separata e delegata dello Stato e del potere politico e rinviando sine die o ad un futuro mitico e lontano il superamento della scissione tra governanti e governati; l’ispirazione economicista, invece, ha a che vedere con un atteggiamento segnato dalla fiducia quasi cieca nello sviluppo delle forze produttive, nel suo presunto carattere “neutrale” e nella sua funzione, ritenuta in ogni caso positiva ai fini della transizione. Da un lato, quindi, «l’idea della rivoluzione imposta dall’alto, attraverso la conquista del potere politico inteso come un guscio vuoto di funzioni semplicemente da riempire ed esercitare», dall’altro la «fiducia acritica e gradualista nel ruolo meccanicamente progressista e liberatore dello sviluppo delle forze produttive, così come il capitalismo le ha storicamente plasmate»[1].

Il ‘68, con i suoi valori, i suoi obiettivi e le pratiche di lotta da esso sedimentati, avrebbe fornito per Magri un contributo essenziale per superare questa duplice e speculare deformazione: in quanto espressione di una crisi che avviene nello sviluppo e non a causa di un inceppamento dello sviluppo stesso, una crisi che emana innanzitutto dalla maturazione di bisogni divenuti incompatibili con le strutture politiche e sociali di stampo capitalistico, i movimenti espressione del ‘68 renderebbero possibile, per la prima volta della storia, avviare una rivoluzione che sia sociale prima ancora che politica. In ragione, dunque, della simultanea critica alle concezioni quantitative dello sviluppo, alla delega politica e alla rigida gerarchia dei ruoli sociali, la stagione del ‘68 avrebbe espresso in nuce, seppur in forme confuse, disorganiche e acerbe, il nucleo di una nuova strategia rivoluzionaria, «una rivoluzione di tipo nuovo»[2]. In luogo della rivoluzione dall’alto, che separa rigidamente i tempi e le sfere della trasformazione sociale, i movimenti del ‘68 delineano a suo modo di vedere un «processo sociale di articolazione e diffusione del potere e di autotrasformazione delle masse»[3]. Un processo, quindi, dentro il quale «lotta e potere, protagonismo di massa e direzione politica potevano saldarsi in modo ben più compiuto che in altre esperienze precedenti, dando alla rivoluzione un carattere di rivoluzione totale»[4]. Proprio però per via del carattere ancora embrionale e rozzo di questa nuova concezione, e la natura spontaneistica e volontaristica delle avanguardie espresse da quella stagione di movimenti, Magri e il gruppo del manifesto invocano agli inizi del decennio Settanta un incontro e una sintesi tra le sensibilità e le pratiche emerse con il ‘68 e le organizzazioni storiche del movimento operaio, nel quadro di una sua più generale rifondazione.

È in ragione dei nodi e delle questioni sottese a questo anelito rifondativo (critica dello statalismo, rifiuto dell’economicismo, valorizzazione e messa a frutto dei bisogni potenzialmente anticapitalistici, costruzione costante e tenace dei germi di una società comunista) che la riflessione sulla terza via si trova a coincidere con il tema della rivoluzione in Occidente. Il richiamo a quest’espressione di Gramsci non è casuale: tutta l’elaborazione di Magri intorno al tema della nuova strategia rivoluzionaria che deve trovare spazio nelle società prospere e capitalisticamente avanzate si nutre avidamente della riflessione gramsciana sulle ambivalenze e sulle potenzialità che il processo di americanizzazione delle forme di produzione e di consumo porta con sé, così come delle differenze tra Oriente e Occidente sul piano del rapporto tra Stato e società civile. È proprio la specificità della società civile dei paesi capitalisticamente avanzati, la ricchezza e il dinamismo dei bisogni che da questa società civile emergono a rendere possibile per la prima volta una rivoluzione che sia prima di tutto sociale e solo in seguito tale da investire la dimensione politica e statuale: sta qui la maturità del comunismo per Magri, Rossanda e il gruppo del manifesto, e non – come malevolemente o semplicisticamente qualcuno interpretò all’epoca – nell’idea che l’ora X fosse alle porte. Se già nella critica del frontismo e dell’impianto semplicemente antimonopolistico delle riforme di struttura proposte negli anni Cinquanta dal Pci emergeva in Magri la necessità di delineare politicamente una “positività proletaria” in grado di prefigurare istituzioni, valori e logiche di sviluppo alternative, andando avanti, l’elemento di questa trasformazione carsica e molecolare da sviluppare già dentro il capitalismo e anticipando la conquista del potere politico e statale, attraversa l’intera riflessione politica di Magri, maturando verso forme sempre più elaborate e raffinate.

Ne è un esempio uno dei suoi ultimi scritti, il commento con cui recensisce il Gramsci storico di Alberto Burgio, quando parla esplicitamente della “risorsa Gramsci”. In quest’occasione, a mio modo di vedere, il segretario del PdUP esemplifica e sintetizza al meglio il nocciolo teorico dell’idea di “terza via” e il suo rapporto col pensiero gramsciano: l’elaborazione di Gramsci, a parere di Magri, farebbe infatti venire meno l’antica e oramai usurata alternativa tra riforme e insurrezione delineatasi in seno alla Seconda Internazionale fra le diverse anime di quest’ultima, rendendo semmai attuale quella tra una via al socialismo che si adagia sulla prospettiva dello sviluppo delle forze produttive e dell’azione redistributiva da operare, a valle, sui suoi “frutti”; e una via al socialismo che, al contrario, «già prima della piena conquista del potere, elabora e costruisce una critica radicale al modo di produzione e alla permanenza del muro tra governanti e governati, cosicché la conquista dello Stato possa dal primo momento avviare una deperimento dello Stato stesso».

Concepire in questo modo il processo di transizione e trasformazione sociale diviene per Magri tanto più necessario quanto più si aggrava la crisi e l’incapacità di autoriforma dei paesi del socialismo reale: come affermerà a più riprese di fronte alla crisi polacca dell’81, l’esaurimento di quella spinta propulsiva metterebbe radicalmente in crisi l’ipotesi togliattiana di una via italiana al socialismo che si struttura e dipana a partire dal policentrismo che ha oramai assunto il movimento comunista internazionale. Un’ipotesi che, pur prevedendo una specifica dinamica nazionale ed endogena, aveva al contempo uno dei suoi pilastri principali nella spinta e nel supporto esterno esercitati da un “socialismo in marcia”, inteso quale grande processo storico progressivo. Proprio per questa ragione, venendo meno quella spinta propulsiva esogena, diveniva quantomai urgente ed esiziale fondare su una dimensione più profonda, articolata e molecolare il processo di transizione.

Ma, praticamente, in che modo trovano traduzione nella vicenda del manifesto e del PdUP l’idea di terza via e il suo rigetto contestuale di economicismo e statalismo? In quali obiettivi intermedi e in quali pratiche di lotta prende forma questa ambiziosa parola d’ordine? Innanzitutto, nella centralità assegnata strategicamente ai consigli di fabbrica e a tutti gli organismi espressione di una partecipazione politica diffusa e di massa: questi ultimi vengono infatti visti come elementi di auto-educazione e auto-formazione politica, in grado non solo di favorire processi di ricomposizione politica del corpo sociale che riqualifichino la rappresentanza parlamentare, ma tali anche da porre nella pratica e fuori da astrazioni libresche il tema del superamento della natura separata e delegata dello Stato. Secondariamente, negli obiettivi di politica economica che, nei suoi scritti, pone a partire dal 1973 e dalla fine della “breve vita felice di Lord Keynes”. Obiettivi che hanno alla loro base una profonda critica della natura meramente quantitativa del tipo di crescita perseguita dalle politiche anticicliche del “keynesismo realizzato”, obiettivi che accomunano la riflessione di Magri a quella di uno dei più originali interpreti di Keynes, Hyman Minsky, proprio per questa sua estrema attenzione alla composizione qualitativa della spesa pubblica, ai bisogni sociali a cui essa intende rispondere, ai valori d’uso che intende produrre, ai livelli occupazionali che intende salvaguardare. O ancora: l’idea di “terza via” implica anche un preciso approccio al tema della pianificazione e alle modalità secondo cui concepire un governo dell’economia. Un approccio, quello fatto proprio da Magri, che rifugge tanto la logica autoritaria, amministrativa e alla lunga sclerotizzata che ha connotato la pianificazione centralizzata e l’economia di comando affermatasi in URSS, quanto la prassi socialdemocratica invalsa nel compromesso keynesiano e nei regimi di Welfare State, in cui l’intervento dello Stato si realizza perlopiù ex post, agendo a valle dei processi economici reali e risultando proprio per questo di natura essenzialmente compensativa rispetto alle dinamiche di mercato e, di conseguenza, funzionale e subordinato ad esse sul piano delle finalità e degli obiettivi perseguiti. Il modello di programmazione economica che dovrebbe sostanziare la “terza via” immaginata e proposta dal PdUP mira, al contrario, ad istituire un intervento regolatore che sia tale da imporre una logica propria e autonoma rispetto agli imperativi espressi dai grandi gruppi economici, pur tenendo ferma, al tempo stesso, l’esigenza di una forte e vivace dialettica fra Stato e mercato, fra piano e imprese, nel quadro di un forte e accentuato “policentrismo”: il raggiungimento delle scelte strategiche e delle direttrici di sviluppo individuate dal potere statale non va cioè imposto amministrativamente e burocraticamente, ma delineando un diverso e alternativo sistema di convenienze.

Un’ispirazione di fondo, quella sintetizzata ed esposta sin qui, che non ha caratterizzato solo la fase del manifesto e del PdUP, ma che ha segnato la riflessione e la proposta politica articolate da Magri negli ultimi anni di vita del Pci, specie nel frangente della battaglia volta a contrastare la svolta della Bolognina. Si pensi, ad esempio, alla relazione che apre il seminario di Arco: in quell’occasione, il rinnovamento dell’identità comunista invocato da Magri in quell’occasione non solo non si pone più, come nella tradizione comunista italiana giunta fino a Berlinguer, in una totale “continuità” col proprio passato, richiedendo al contrario una radicale cesura nei confronti di taluni degli elementi caratterizzanti questa tradizione e l’identità che ne deriva. Inoltre, il rinnovamento prospettato non assume la forma del mero volontarismo, di un’operazione astratta e confinata nel cielo delle idee. Al contrario, come dimostrano la raffinatissima e puntigliosa analisi dei diversi processi di trasformazione che tra anni Settanta e inizio Novanta hanno cambiato radicalmente la faccia delle società occidentali e della loro “costituzione materiale”, esso assume una dimensione profondamente “materialistica”, in quanto rispondente ai fenomeni e ai processi reali. «Il problema di una trasformazione dell’identità», afferma a questo proposito, assume la forma della ricerca di un equilibrio «delicatissimo e cruciale», in cui entrano in relazione elementi come «storia, ideologia radicata nel senso comune, sforzo rifondativo»[5]. Mancando una sola di queste componenti, o essendo una di loro sovradimensionate rispetto alle altre, il rischio concreto è quello di scivolare o nella conservazione dogmatica, o nell’eclettismo nuovista imputato alla gestione occhettiana. Un eclettismo che, precisa (e prevede) Magri, anche se animato da intenzioni nobili, può fatalmente condurre – in quanto «ventre molle» – ad una totale penetrazione della «cultura corrente» e della «egemonia degli apparati dominanti» nei bastioni organizzati del movimento dei lavoratori.

La “rifondazione comunista” immaginata da Magri non poteva dunque in alcun modo connotarsi come un mero rifiuto o come semplice reazione alla modernizzazione neoliberista che in quegli anni veniva assumendo i suoi tratti più compiuti, dovendo piuttosto – dialetticamente – individuare la propria ragion d’essere nelle nuove e più sottili contraddizioni che quella modernizzazione generava e portava con sé. Da qui il titolo della sua relazione: “In nome delle cose”. Un titolo che richiamava sì l’ormai celebre documentario di Nanni Moretti, ma che intendeva mettere apertamente in luce – proprio attraverso il richiamo ai “fatti” e alle “cose” – la fondatezza e il pragmatismo di una moderna opzione comunista. Quest’ultima può infatti per Magri assumere due diverse connotazioni. La prima, legata ad un’accezione che il dirigente comunista ritiene ormai logora e non più in grado di affrontare la battaglia per l’egemonia, è quella che, rigidamente e schematicamente, identifica l’identità comunista con la delimitazione leniniana del primo dopoguerra, con un approccio giacobino e avanguardistico del governo sociale e con una concezione centralizzata e iperstatalista del problema della pianificazione e della proprietà sociale. La seconda, a partire dalla quale è invece possibile per Magri declinare positivamente un’identità comunista per il XXI° secolo, è quella che prende le mosse dalla nozione di comunismo come “movimento reale” che si propone il superamento e la risoluzione delle contraddizioni della società in essere, assumendo quindi come criteri e parametri di un agire non statico, ma dinamico, dei capisaldi teorici come la «critica dell’accumulazione e della crescita quantitativa come unico parametro del progresso; critica del profitto e del mercato come meccanismi assolutamente prevalenti dell’economia e del primato dell’economico su ogni altra dimensione sociale […] critica dell’individualismo come condizione per affermare un vero dispiegamento della soggettività individuale, critica dello stato come macchina separata, della divisione tra governanti e governati, tra “borghese” e “cittadino”»[6].

L’attenzione a questi nodi – centrali per una critica comunista dell’esistente – piuttosto che a formule storicamente delimitate, ha rappresentato come abbiamo l’autentico fil rouge dell’indagine e della riflessione condotta da Magri lungo la sua attività di militante e dirigente politico. In tal senso, credo sia possibile considerare Magri uno degli esponenti maggiormente rappresentativi di quella tensione “tragica” che ha contraddistinto il comunismo italiano per una lunghissima fase: quella tragicità che faceva convivere il mantenimento della tensione verso una società altra e alternativa con la consapevolezza del fatto che il processo di transizione verso quest’ultima non poteva che essere graduale – tale cioè da interessare una lunga fase storica, entro cui si sarebbero alternate guerra di movimento e guerra di posizione – e profondamente attento alle dinamiche consensuali, alle garanzie dell’individuo, alle sue libertà.

 

* Il presente testo è un estratto del volume Attualità di Lucio Magri (a cura di M. Gambilonghi e S. Oggionni), edito da Bordeaux. Il volume – arricchito in appendice da alcuni scritti magriani inediti – raccoglie gli atti dell’assemblea tenutasi a Rimini nel novembre del 2021, a dieci anni dalla scomparsa di Lucio Magri. La versione in pdf e l’indice del volume sono scaricabili a questo link: http://bit.ly/3EXFWZ0.

[1]Crisi e terza via. Tesi per il congresso straordinario di unificazione Pdup-Mls, “Compagne e compagni”, 1981, p. 33.

[2]L. Magri, Ampia sintesi delle conclusioni. Seminario nazionale su “Ristrutturazione della sinistra e ruolo del Pdup-Mls”, cit., “Compagne e compagni”, 8 novembre 1980, n. 23, p. 23.

[3]Crisi e terza via. Tesi per il congresso, cit., p. 33.

[4]L. Magri, Ampia sintesi delle conclusioni. Seminario nazionale su “Ristrutturazione della sinistra, cit., p. 23.

[5]L. Magri, In nome delle cose, in L. Castellina et al. (a cura di), La fine della cosa. Pci-Pds, seminario delle mozioni del No, Arco di Trento 28-30 settembre 1990, Manifestolibri, Roma, 2021, p. 17.

[6]Ivi, p. 22.

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