Salvatore Minolfi *
L’epoca del dopo guerra fredda – quella iniziata con le speranze dell’89 – è stata costellata di conflitti. Alle sue origini doveva essere, nella narrativa dominante, un’epoca pacifica, poiché la fine della competizione strategica tra le due superpotenze e il collasso dell’URSS avrebbero rimosso l’ultimo ostacolo all’avvento di un ordine nuovo, garantito dalla supremazia incontrastata degli Stati Uniti che, rimodulando la sovranità nell’universo degli Stati – e ponendo alla sua cuspide un egemone benevolo – li avrebbe privati di quei caratteri hobbesiani che condannavano il mondo ad essere il teatro di una guerra di tutti contro tutti[1].
Dacché quella dottrina fu lanciata molta acqua è passata sotto i ponti e la realtà si è mostrata sensibilmente differente. La nuova epoca si apriva con una guerra, quella combattuta nel Golfo Persico, ed avrebbe continuato a dipanarsi in un serie inesauribile di conflitti – dai Balcani al Medio Oriente alle province più remote dello spazio post-sovietico – in un contesto aggravato da “un processo di rilegittimazione surrettizia dell’uso della forza”, tale da condurre “alla dissoluzione di ogni chiara distinzione tra pace e guerra”[2]. Una ricerca del “Watson Institute for International and Public Affairs” (Brown University) stima che la sola costellazione di conflitti legati al disordine mediorientale abbia mietuto oltre novecentomila vittime.
Non è questo il luogo per dar conto dell’ampia e articolata geografia della guerra degli ultimi trent’anni. Ciò che preme qui sottolineare è che, malgrado quei terribili precedenti, la guerra russo-ucraina ci trasporta in un’altra dimensione. Non si tratta di convalidare un’ambigua ed inaccettabile gerarchia del dolore: seppure a diversi livelli di intensità, tutte le guerre tendono a produrre sofferenze e distruzioni immani, aggravando quasi sempre i problemi che le avevano prodotte. Piuttosto, si tratta di richiamare l’attenzione sui caratteri specifici del conflitto in Ucraina e sulla novità che questo rappresenta nella storia del presente. Non è la prima volta – come invece si è detto e scritto in più occasioni – che si combatte in Europa da quando la guerra fredda è terminata: la rimozione collettiva delle guerre nei Balcani è un problema della coscienza pubblica europea. La novità, invece, è che – dopo una lunga serie di conflitti di rilevanza periferica, per le loro implicazioni di carattere geopolitico e strategico – la guerra russo-ucraina sposta il cuore del confronto militare in una scena centrale e impegna attori rilevanti per gli equilibri complessivi del sistema internazionale. In breve, riapre l’orizzonte – quello sì, impensabile negli ultimi settant’anni – di una major war.
Ragionare sulla guerra, capire il come e il perché si sia giunti a questo punto, non è facile in generale. Lo è ancor meno per gli europei, collocati nel cuore o nell’immediato retroterra del conflitto. Le esigenze stesse della guerra richiedono e sollecitano un certo grado di conformismo intellettuale, la capacità di accettare una rappresentazione semplificata della realtà, la disponibilità ad adattarsi a formule semplici e virtuose e, qualora la verità risulti troppo scomoda o complessa, a sottoscrivere una visione “clearer than the truth” (nella memorabile espressione di Dean Acheson, agli albori della guerra fredda).
Questo conformismo intellettuale non è un effetto collaterale del conflitto. Ne è piuttosto parte attiva, poiché la comprensione degli eventi interagisce con il loro svolgimento, benché non si possa stabilirne la misura, senza cedere alle insidie della retorica o del moralismo a buon mercato.
A rendere le cose ancora più difficili concorre la natura stessa del conflitto, nella cui trama si intrecciano i fili originariamente appartenenti a tessuti differenti: il risultato è che questioni di carattere locale (se non, addirittura, in origine di natura regionale) ora sono inestricabilmente collegati alla dimensione globale.
L’immagine più adatta per descrivere il conflitto in Ucraina potrebbe essere quella di una matrioska (naturalmente, una matrioska dell’orrore), con una bambola madre che contiene al proprio interno tante altre figure, non immediatamente percepibili, a meno che non si decida di aprirle una ad una. La bambola madre, in questo caso, è rappresentata da una guerra interstatale, originatasi dall’invasione russa dell’Ucraina, cioè dall’aggressione militare di una potenza ai danni di un paese sovrano, le cui premesse operative rimandano alle vicende del 2014, anno in cui la Russia si annetté la Crimea ed appoggiò apertamente il movimento secessionista nella regione del Donbas, in conseguenza dei drammatici e torbidi disordini – e del loro controverso epilogo – che investirono la capitale Kyiv.
Essendo la Russia – a differenza dell’Unione Sovietica – un paese ampiamente integrato nell’economia internazionale e protagonista attivo nelle reti della finanza globale, non è facile capire le ragioni che hanno spinto Mosca sulla strada della guerra e delle temibili conseguenze che questa decisione avrebbe comportato (peraltro largamente anticipate dal regime sanzionatorio già scattato nel 2014). Non sono di grande aiuto gli approcci riduzionistici (le scelte internazionali come mero riflesso del regime interno e dei suoi problemi), né quelli essenzialistici, intenti a estrapolare un nucleo metastorico di una Russia eterna potenza imperialista. Anche la mera indicazione del nazionalismo russo, come causa fondamentale della guerra, rischia di girare intorno alla questione: in quanto costrutto sociale dalle mutevoli configurazioni storiche, il nazionalismo è al tempo stesso un explicans, ma anche un explicandum e, in quanto tale, esso stesso oggetto di analisi e di interpretazione.
Uno studioso russo ha perspicacemente osservato che “Putin lives in the world that Huntington built”[3]. E –aggiungeremo – si tratta di un mondo nel quale si sarebbe trovato, di volta in volta, in una sempre più affollata compagnia: dall’America trumpiana del “Make America Great Again”, alla Gran Bretagna della Brexit, alle “democrazie illiberali” dell’Europa orientale e, più in generale, all’ondata populista del secondo decennio del secolo[4].
Cosa ha spinto la Russia a liquidare, così violentemente, il suo stesso esperimento della “globalizzazione sovrana”? Cosa l’ha indotta a divaricare la logica dello Stato e della sua razionalità strategica da quella del grande capitale e del mondo degli affari? Quali ostacoli o problemi hanno convinto il regime ad intraprendere un percorso che portava con sé, oltre a rischi potenzialmente fatali, anche una profonda trasformazione del suo blocco dominante? Quali valutazioni hanno condotto ad accettare la prospettiva di una lacerazione dei rapporti intra-europei che minaccia di essere profonda e duratura? Si tratta di domande alle quali, oggi, è possibile fornire risposte solo provvisorie e in via congetturale.
Inoltre, quella della guerra interstatale è solo la prima figura della nostra matrioska della guerra. All’interno di essa troviamo un altro profilo del conflitto: quello che ne fa lo scenario di esercizio di una guerra per procura (una proxy war) tra Stati Uniti e Federazione russa, punto d’approdo di un antagonismo che ha caratterizzato, in forme sempre più palesi, l’ultimo quidicennio delle relazioni russo-americane, per lo meno a partire dalla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza del 2007. Nel primo anno di guerra, il valore complessivo degli aiuti forniti dall’Amministrazione Biden all’Ucraina ha superarato la spesa militare annua della Federazione russa, facendo di quel paese il principale beneficiario degli aiuti esteri americani in Europa dai tempi di Harry Truman[5]. Letteralmente incalcolabile, invece, è il valore del sostegno strategico – tecnologico ed operativo – che la superpotenza americana ha fornito alla conduzione ucraina della guerra, per tacere di quello prestato nei precedenti sette anni, a partire dal 2015. Un tale investimento rende progressivamente impercorribile – poiché ne aumenta esponenzialmente i costi politici – ogni prospettiva negoziale, facendo della vittoria l’unico traguardo realisticamente accettabile. Lo speculare e drammatico investimento russo significa che – a meno di un collasso del regime a Mosca – l’orizzonte di una major war diventa non solo possibile, ma anche più probabile. In uno scenario del genere, il meglio che ci si possa attendere è una soluzione di tipo coreano (ammesso che sia possibile, vista la centralità dell’Europa negli equilibri del potere mondiale).
Un terzo profilo, altrettanto chiaro, è quello che emerge dai caratteri specifici della guerra tra Russia e Ucraina, due paesi strettamente legati dalle vicende storiche, dalla demografia, da un ampio tessuto di relazioni socio-culturali e da una fitta trama di matrimoni misti: una realtà che, nel contesto del conflitto, ha assunto, già dal 2014, i caratteri drammatici di una guerra civile nello spazio post-sovietico. È a questo livello che si determina la dimensione più dolorosa della guerra che, nei sette anni precedenti, aveva già mietuto circa 14000 vittime[6].
Ancora più all’interno, emerge un quarto profilo, poiché lo sviluppo del conflitto ha decretato il totale azzeramento della politica estera tedesca dell’ultimo ventennio. Originatasi sul terreno della politica energetica, la speciale relazione russo-tedesca è stata percepita a Washington, sin dal principio, come il sintomo di un pericoloso disallineamento tedesco dal compatto strategico euro-atlantico: essa si accompagnava, infatti, all’opposizione tedesca all’invasione dell’Irak (2003), al rifiuto opposto all’ingresso dell’Ucraina nella NATO (2008), all’ostentata estraneità della Germania alla tragica avventura libica dell’Alleanza Atlantica (2011), alle resistenze tedesche alle sanzioni dopo l’annessione russa della Crimea (2014). E, proprio a partire da quest’ultimo episodio, la Repubblica di Berlino è entrata nel mirino delle Amministrazioni americane, che hanno fatto della loro opposizione al progetto Nord Stream l’oggetto di una dura ed esplicita politica sanzionatoria culminata con il CAATSA del 2017 e il PEESA del 2019[7]. Iniziato ben prima del 24 febbraio 2022, il contenzioso politico tra Washington e Berlino si è concluso proprio in virtù della guerra russo-ucraina: se alla fine del 2019, il Ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, poteva ancora protestare contro le “ingerenze straniere” ed affermare che “la politica energetica europea è decisa in Europa, non negli Stati Uniti”, due anni dopo, della politica energetica tedesca non rimaneva più nulla. L’enormità della sconfitta tedesca è l’equivalente funzionale di una disfatta in guerra. E non è finita qui: recisa la coda lunga della Ostpolitik, la Germania ora si trova sotto esame anche per le sue relazioni economiche, straordinariamente redditizie, con la Cina.
La quinta matrioska, strettamente intrecciata alla precedente, riguarda gli equilibri interni all’Unione Europea: la sconfitta politica di Berlino è passata per Varsavia. Apparentemente, il lungo processo di allargamento dell’Unione è andato avanti per addizioni successive. In realtà, l’ingresso dei paesi orientali ne ha mutato nel profondo gli equilibri. L’intera storia del Vecchio Continente, a partire dal secondo dopoguerra, è in procinto di cambiare: e non solo quella del futuro, a giudicare dalla sorprendente propensione delle istituzioni europee ad entrare a gamba tesa sul terreno di competenza della storiografia[8]. A partire dalle avventure mesopotamiche di Donald Rumsfeld, la cosiddetta “Nuova Europa” è stata arruolata dalle Amministrazioni americane in quanto portatrice di una soggettività politica più compatibile con il progetto unipolare. Dalla partecipazione all’invasione dell’Irak (cui contribuì anche un contingente militare ucraino), alla polemica contro la politica energetica tedesca (la denuncia polacca del “Nord Stream” come nuovo “Patto Molotov-Ribbentrop”), alla progettazione della Eastern Partnership (che fornì il detonatore fondamentale della crisi ucraina), al sostegno attivo alle politiche sanzionatorie, i paesi dell’Est Europa – la Polonia, in primo luogo – si sono qualificati come preziosa articolazione continentale delle strategie americane, ogni qualvolta un sussulto di autonomia prorompesse dalla “Vecchia Europa”. Il loro protagonismo, nelle politiche anti-russe elaborate a Washington, ha riportato in auge visioni geopolitiche di inizio Novecento[9], che promettono ora di condizionare la nuova dislocazione delle infrastrutture militari dell’Alleanza Atlantica, spostandone ad Est i centri operativi e relativizzando la storica importanza rivestita in questo campo dal territorio della Germania. Con la guerra russo-ucraina, i paesi dell’Est hanno significativamente potenziato la loro aspirazione a determinare cosa sia l’Europa e quali siano i suoi confini.
Infine, ma non per importanza, compare in fondo a tutte un’ultima matrioska, quella che collega la guerra in Europa agli equilibri globali e alla complessa problematica delle transizioni egemoniche: nello specchio dell’Ucraina si riflette la sagoma di Taiwan. L’intensa (ancorché indiretta) partecipazione degli Stati Uniti alla guerra in Ucraina deriva dalla convinzione americana che quel conflitto si inscriva all’interno di una rinnovata stagione di competizione tra grandi potenze, ovvero di quello scenario che proprio la condizione unipolare avrebbe dovuto consegnare alle memorie del passato[10]. La Cina, secondo Washington, è “l'unico concorrente potenzialmente in grado di combinare il suo potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per lanciare una sfida duratura a un sistema internazionale stabile e aperto”[11]. E negli Stati Uniti si dibatte ormai da anni sulla strategia da adottare nel confronto globale con Pechino. Contro l’opinione di quanti consideravano essenziale poter contare in prospettiva sulla neutralità russa (nel mondo della politologia americana, Mearsheimer e buona parte del filone realista americano), è prevalsa l’opzione radicale di affrontare prima Mosca, infliggendole una drammatica lezione, per poi ingaggiare, da posizioni rafforzate, la capofila dei contestatori della supremazia americana. Lo strisciante conflitto con Pechino – lanciato in grande stile dall’Amministrazione Trump – ha varcato una nuova soglia nel bel mezzo della guerra in Ucraina, allorché il presidente Biden ha allargato e potenziato i controlli degli apparati della sicurezza nazionale sul mercato mondiale dei circuiti integrati, dalla progettazione alla commercializzazione[12]. Il protezionismo americano assume, in questo caso, le tinte di un’economia di guerra e spinge ancor più in avanti la crescente diffidenza strategica della classe dirigente verso quella globalizzazione liberale da essa stessa promossa e sostenuta.
La convivenza di così tanti e differenti profili, tre direttamente coinvolti nel conflitto in Ucraina – la guerra interstatale, la proxy war, la guerra civile – e tre indirettamente presenti (ma tutti, a differenti gradi, efficacemente operativi), chiarisce quanto risulti problematico un corretto ed efficace inquadramento della guerra, se non altro perché – escludendo la tentazione della reductio ad unum – pone lo storico dinanzi al compito di elaborare una convincente catena causale in grado di connettere le diverse dimensioni della guerra. Ci si muove, qui, consapevolmente, sul piano delle preliminari congetture. Ma allo stato delle attuali conoscenze, non è possibile andare oltre.
Per cominciare: è stato il conflitto interstatale a dare la stura alla guerra civile e al successivo coinvolgimento indiretto degli Stati Uniti? Oppure è toccato proprio alla guerra civile – i cui violenti prodromi sono apparsi negli svolgimenti dell’inverno 2013-2014 – di porre le premesse del conflitto interstatale e della sua successiva internazionalizzazione? E se, invece, si riconoscesse alla competizione russo-americana il ruolo di fattore scatenante di un processo che ha condotto prima all’esasperazione le relazioni civili all’interno di un paese, singolarmente composito, e poi alla guerra con la Russia?
E cosa pensare degli altri tre livelli? È stata l’esplosione della guerra in Ucraina a radicalizzare l’approccio americano alle politiche tedesche? O è stata, piuttosto, la prioritaria necessità di riportare nei ranghi la Germania ad esasperare il sostegno americano al nazionalismo galiziano, rendendo irraggiungibile un qualsivoglia compromesso tra le diverse componenti della società ucraina e favorendo, in tal modo, la prospettiva del confronto armato che, una volta scoppiato, avrebbe reso insostenibile la politica tedesca? Come spiegare altrimenti il completo capovolgimento della posizione americana sul nazionalismo ucraino nell’intervallo che va da Bush senior a Bush junior?
E cosa dire del ruolo della Polonia e della complessa architettura della Eastern Partnership – cui la Germania acconsentì solo a malincuore – che fornì l’innesco per la crisi del 2014? Da quali spinte aveva tratto alimento e vigore, in assenza di un consenso condiviso in ambito europeo? Di quale strategia più ampia faceva parte la decisione di porre l’Ucraina dinanzi a scelte alternative e incompatibili, pur sapendo che una tale forzatura avrebbe messo a dura prova la tenuta del paese e, nel caso estremo, anche il suo futuro? Mentre sono chiari i vantaggi derivanti dalla prospettiva di una vittoria ucraina nella guerra, cosa si aspetta la Polonia da un risultato avverso? Cosa spera di ottenere (o recuperare) da una disintegrazione della statualità ucraina? E nella dinamica che informa la speciale relazione polacco-americana – che a tratti sembra puntare, inverosimilmente, a sostituire quella tedesco-americana – è il cane a muovere la coda o la coda a muovere il cane? Oppure ci troviamo dinanzi al disordinato sovrapporsi di entrambe le modalità, in ragione del fatale allineamento di percorsi motivati però da obiettivi finali differenti?
Giungiamo, infine, alla Cina, epicentro nascosto della matrioska della crisi, innanzitutto perché la Russia non avrebbe mai osato sfidare il potere americano e accettare una deriva dall’Europa, se non si fosse convinta del fatto che il processo di emersione di un nuovo ed autonomo centro irradiatore del potere e della ricchezza mondiali era giunto ad un sufficiente livello di maturazione, più significativo di quanto la stessa classe dirigente di Pechino sia disposta ad ammettere. I processi mondiali di diffusione del potere – innescatisi all’interno dell’ordine globale liberale – hanno premiato smisuratamente il capitalismo politico cinese, convincendo gli Stati Uniti – la grande potenza debitrice – dell’impossibilità di replicare con Pechino il progetto di integrazione subalterna sperimentato con successo, dopo la seconda guerra mondiale, con la Germania e con il Giappone, attraverso la loro desovranizzazione e la loro trasformazione in protettorati americani. L’impossibilità di spezzare il nesso cinese di ricchezza e potere – accumulazione di surplus e autonomia strategica – sta spingendo gli Stati Uniti a riaffermare la centralità della razionalità strategica e ad affondare, pertanto, quell’ordine globale liberale che sembrava, ai suoi albori, la concreta incarnazione della fine della storia.
Ma il calcolo non torna e la razionalità strategica non può essere stirata fino al punto del delirio (o, almeno, è quanto appare legittimo augurarsi). Se la Cina (in compagnia degli altri paesi in surplus) si è avvantaggiata a dismisura nel sistema degli squilibri globali, lo si deve al fatto che quel sistema stesso è cresciuto inesorabilmente sulla primazia del dollaro, un sistema che, nel mentre alimenta gli squilibri, consente agli Stati Uniti di sopportare un deficit inconcepibile per qualsiasi altra economia del mondo. E, ben oltre il deficit, anche la posizione netta sull’estero appare gravemente compromessa: l’intera epoca dell’american primacy dall’immediato dopo guerra fredda alla vigilia del conflitto in Ucraina, ha visto la “Net International Investment Position” degli Stati Uniti passare dal -2% al -65% del PIL americano[13]. Non volendo rinunciare a quella signoria – e a trasformarsi in un normal country – alla potenza americana non resta che la strada del confronto (per ora con la Russia, l’anello debole della catena dei paesi in surplus) e di rimandare di altri dieci o quindici anni i conti ineludibili con il principio di realtà. Nel frattempo, la guerra, le sanzioni e il congelamento delle riserve russe – tecnicamente, il più grande esproprio dai tempi di Enrico VIII di Inghilterra[14] – fanno riemergere alla luce del sole la natura gerarchica e asimmetrica della globalizzazione[15] e pongono con nuova urgenza il problema dell’emancipazione dal potere strutturale della moneta americana[16].
Nell’attesa che la matrioska della guerra si riveli più distintamente e consenta un esame più accurato dell’interrelazione tra le sue molteplici figure, è parso più appropriato “mettere le cime in chiaro” (secondo l’espressione marinara) e sbrogliare il groviglio delle linee di sviluppo che, nell’arco di un trentennio, hanno condotto alla guerra in Ucraina.
La semplice ricostruzione della storia – nei limiti in cui oggi è possibile e in ragione delle fonti disponibili – mostrerà, in modo sorprendente, quanto consapevolmente e lucidamente i molteplici protagonisti in gioco si siano mossi lungo un percorso di cui non ignoravano né le conseguenze più terribili, né le rispettive misure di probabilità. Ma quella consapevolezza non li ha tenuti a freno, né li ha distolti dal proposito di andare fino in fondo, poiché la conoscenza delle cose e dei loro più probabili sviluppi non si accompagnava ad una chiara coscienza di sé. Nella peculiare temperie di questo XXI secolo – in un’epoca che si voleva orgogliosamente post-ideologica e sostanzialmente emancipata dalle grandi narrazioni – la politica di potenza, gli intramontabili giochi di potere, gli interessi geopolitici avevano vissuto un lungo processo di rielaborazione e di trasmutazione, dal quale erano venuti fuori travestiti di radicalismo etico, ossessioni normative, pregiudizi ideologici e indefettibili convinzioni che – in un amalgama indigesto ed altamente instabile – hanno reso qualsiasi opzione realisticamente concepita non solo impraticabile, ma bersaglio di uno stigma, quale segno distintivo di una malattia morale incompatibile con i luminosi progetti della tarda modernità.
* Introduzione a S. Minolfi, Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici press, 2023.
[1] Per un’aggiornata ricognizione, storiografica e politologica, della svolta del 1989 e del rapporto tra continuità e rottura, cfr. Nuno P. Monteiro, Fritz Bartel (eds), Before and After the Fall. World Politics and the End of the Cold War, Cambridge, Cambridge University Press, 2021.
[2] Alessandro Colombo, La guerra in Ucraina e il trionfo contemporaneo della guerra giusta, «La Fionda», n. 2, 2022, pp. 28-40.
[3] Ilya Budraitskis, Dissidents among Dissidents. Ideology, Politics and the Left in Post-Soviet Russia, Verso, London-New York, 2022. Il riferimento è a Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon and Schuster, 1996 (tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997).
[4] Sulla crisi del progetto globalizzatore, cfr. Ian Bremmer, Us vs. Them. The Failure of Globalism, New York, Portfolio/Penguin, 2018. Sulla rinazionalizzazione dell’Europa, soprattutto in relazione alle politiche sull’immigrazione, cfr. Charles A. Kupchan, No One’s World. The West, The Rising Rest, and The Coming Global Turn, New York, Oxford University Press, 2012, pp. 152-159.
[5] Jonathan Masters and Will Merrow, How Much Aid Has the U.S. Sent Ukraine? Here Are Six Charts, Council on Foreign Relations, December 16, 2022, https://www.cfr.org/article/how-much-aid-has-us-sent-ukraine-here-are-six-charts.
[6] Nicolai N. Petro, The Tragedy of Ukraine. Hard Lessons to Learn from the Classics, «Russia in Global Affairs», Vol. 16, n. 4, October-December 2018, pp. 52-71.
[7] Acronimi per Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act of 2017 (Public Law 115–44) e Protecting Europe’s Energy Security Act of 2019 (Public Law 116–92).
[8] Valga come esempio la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa, P9_TA(2019)0021, che suggella l’adozione istituzionale di una controversa tesi storiografica sulle origini della seconda guerra mondiale, https://www.europarl.europa.eu/ doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html.
[9] Cfr. Ryszard Zięba, Poland’s Foreign and Security Policy. Problems of Compatibility with the Changing International Order, Cham (Switzerland), Springer, 2020 (in particolare, il capitolo 7, “Make Poland Great Again”: The Meanders of the Three Seas Initiative, pp. 201-215).
[10] Rebecca Lissner, Mira Rapp-Hooper, Don Casler, and Laura Resnick Samotin, After Primacy. Exploring the Contours of Twenty-First-Century Great Power Rivalry, in Nuno P. Monteiro, Fritz Bartel (eds), Before and After the Fall. World Politics and the End of the Cold War, cit., pp. 319-337.
[11] President Joseph R. Biden Jr., Interim National Security Strategy Guidance, The White House, Washington D.C., March 2021, p. 8.
[12] Department Of Commerce, Bureau of Industry and Security, Implementation of Additional Export Controls: Certain Advanced Computing and Semiconductor Manufacturing Items; Supercomputer and Semiconductor End Use; Entity List Modification (2022-21658), «Federal Register», October 13, 2022. Sulla più generale problematica, cfr. Chris Miller, Chip War. The Fight for the World’s Most Critical Technology, New York, Simon & Schuster Inc., 2022.
[13] Cfr. Andrew Atkeson, Jonathan Heathcote, Fabrizio Perri, The End of Privilege: A Reexamination of The Foreign Asset Position of The United States, National Bureau od Economic Research, Working Paper 29771, Cambridge, MA, February 2022.
[14] Branko Milanovic, The end of the end of history. What have we learned so far?, March 3, 2022, https://branko2f7.substack.com/p/the-end-of-the-end-of-history.
[15] Henry Farrell, Abraham L. Newman, Weaponized Interdependence: How Global Economic Networks Shape State Coercion, «International Security», vol. 44, n. 1, Summer 2019, pp. 42-79.
[16] Sul tema della crisi e del conflitto intercapitalistico tra paesi in surplus e paesi in deficit, si rimanda alla preziosa e promettente linea di ricerca inaugurata, in Italia, da Emiliano Brancaccio e da un agguerrito gruppo di studiosi. Cfr., in particolare, il recente lavoro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Milano, Mimesis, 2022.