Alexander Höbel
(da: Problemi della transizione al socialismo in Urss, Napoli, a cura di A. Catone ed E. Susca, La Città del Sole, 2004)
A più di dieci anni dal crollo dell’Unione Sovietica, i tempi per una analisi storica esaustiva di questo evento di enorme portata storica – che ha sconvolto, in peggio, il quadro mondiale – probabilmente non sono ancora maturi. Esistono, tuttavia, molti documentati studi successivi al crollo, oltre all’immensa bibliografia precedente. In questa relazione, si cercherà di fornire una “griglia interpretativa”, incrociando l’esame di vari fattori di crisi con quella di alcune tra le analisi più interessanti. Due elementi si possono dare per acquisiti. Il primo è il fatto che il crollo dell’URSS è un evento storicamente determinato, per cui le letture ideologiche circolate in questi anni – “crollo del comunismo”, “fine dell’idea comunista”, ecc. – sono fuorvianti e strumentali.
Il secondo è proprio la complessità del problema, che rende inadeguata ogni interpretazione unilaterale, che isoli solo un aspetto del problema e lo assolutizzi, considerandolo la “causa vera” del crollo. Al contrario, una lettura che voglia tentare di comprendere questo che è un processo e non solo un evento, deve tener conto di una molteplicità di aspetti, cause, fattori di crisi. Vi sono infatti fattori endogeni, tutti interni all’esperienza storica sovietica, e fattori esogeni, indotti in vario modo dall’esterno; fattori di “lunga durata”, risalenti a processi storici di ampio respiro, anche precedenti la nascita dell’URSS o relativi alla fase storica nel suo complesso, fattori “strutturali”, che hanno caratterizzato la vicenda sovietica in modo più o meno persistente, e infine fattori “contingenti”, come gli eventi degli ultimi anni e mesi di vita dell’URSS.
a) Fattori storici di “lunga durata”
- L’immaturità delle condizioni di partenza; il problema storico dell’arretratezza
Il primo dei problemi storici di lunga durata che l’esperienza sovietica ha scontato è quello dell’immaturità delle condizioni oggettive, riguardo cioè alla possibilità di realizzare un esperimento socialista vincente nella “fase storica della borghesia”, e di farlo nella Russia arretrata e con mezzi di produzione rigidi, arretrati, parcellizzanti e difficilmente “piegabili” ad un processo di liberazione del lavoro. È noto che per Marx il socialismo si fonda sul massimo sviluppo delle forze produttive capitalistiche. Di qui la polemica dei menscevichi contro l’idea di portare “fino in fondo” la rivoluzione nella Russia del 1917. Replicando a Suchanov, nel 1923 Lenin afferma:
Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzitutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?[1].
In sostanza, dunque, il primo compito che Lenin assegna al potere sovietico è quello di avviare la modernizzazione del Paese, ben sapendo che dal socialismo la Russia è separata da un abisso ma pure che occorre “gettare un ponte” su questo abisso, ponendo le basi dello sviluppo economico, culturale e politico, a partire dalla creazione di un nuovo “apparato statale” e di partito che possa dirigere questa immensa trasformazione[2]. Il che fu quanto poi si cercò di fare, pur con le distorsioni e i limiti noti, nei decenni seguenti. Tuttavia, l’arretratezza – non in termini assoluti, ma relativi al confronto coi paesi più avanzati – è rimasta nonostante tutti i progressi una tara che ha pesato su tutta la storia dell’URSS, sia come handicap di partenza, sia appunto come fattore da superarsi a tappe forzate (che racchiudevano l’equivalente di secoli dello sviluppo dei paesi occidentali) per costruire e difendere il socialismo. In questo senso, A.G. Frank parla di una “rincorsa per raggiungere i paesi più avanzati”, aggiungendo che “le cause dell’arretratezza dell’Est” vanno cercate “nelle differenze accumulatesi storicamente”[3].
Anche altri studiosi marxisti si sono soffermati sull’immaturità delle condizioni di partenza. Per Holz, l’URSS nei suoi primi anni “mancava di un’adeguata base economica; di una classe operaia fortemente sviluppata [...]; di masse maturatesi nella lotta per strutture statali democratiche e che fossero, poi, capaci di servirsene [...]; di un movimento culturale incisivo [...] come era stato l’Illuminismo in Occidente”. In queste condizioni il Partito si addossò “quei compiti, sia amministrativi che educativi, che in condizioni ‘organiche’ di transizione [...] avrebbe invece assolto una classe operaia” matura: ne derivò “un apparato burocratico di partito – non come ‘deformazione’, ma come forma determinata che l’organizzazione dei rapporti socialisti di produzione doveva assumere”, data “l’immaturità economica e sociale del paese”. Nel secondo dopoguerra, “lo sviluppo fu orientato ancora una volta alla crescita della produttività sociale”, cosicché “la priorità economica fu riconosciuta agli investimenti nell’industria pesante; e il benessere individuale [...] dovette arrestarsi molto al di sotto dei livelli di una moderna industrializzazione complessiva”. Tuttavia, pensare “che la caduta del socialismo fosse già contenuta nelle contraddizioni che ne caratterizzarono l’inizio”, significherebbe trascurare il ruolo dell’elemento soggettivo nella dialettica storica[4].
Dunque l’esperienza sovietica è stata segnata sia da una arretratezza relativa (rispetto ai paesi occidentali), sia da un modello di sviluppo estensivo (ossia basato sull’uso di grandi quantità di materie prime e forza lavoro, più che sul loro sviluppo qualitativo). All’inizio degli anni ’80, l’URSS costituiva una società industriale di tipo “fordista”, in cui gli operai erano il 61.5% della popolazione attiva, con 12.5% di contadini colcosiani e il rimanente 26% di impiegati, funzionari e intellettuali. Si presentava il problema di ‘una struttura socioprofessionale adeguata ai bisogni di un sistema scientifico-industriale [...] costretta entro un sistema produttivo ancora impantanato in un’età tecnica e tecnologica antiquata’[5]. Al contrario, per i sostenitori della perestrojka, la contraddizione stava nell’inadeguatezza dei “rapporti di produzione” rispetto a “forze produttive” molto più sviluppate e complesse che negli anni ’30[6]. Anche per Hobsbawm, i meccanismi economici e politici stabilizzatisi nel periodo staliniano – alto grado di centralizzazione, sviluppo prioritario dell’industria pesante, compressione dei consumi ecc. – erano serviti a trasformare un paese arretrato in un paese industriale, ma erano inadeguati rispetto alla società più avanzata che essi stessi avevano contribuito a creare[7]. Insomma, il problema stava nell’incapacità di passare da un modello di sviluppo estensivo ad uno intensivo, in cui – andando peraltro esaurendosi i surplus di forza lavoro e materie prime – avessero maggiore peso l’elemento qualitativo, gli investimenti ad alta intensità di capitale, la tecnologia avanzata[8]. Negli anni ’80, quando l’Occidente realizzava la “rivoluzione informatica”, questo mancato adeguamento sarà fatale.
- La dialettica isolamento/integrazione rispetto al “sistema-mondo” capitalistico
La vicenda sovietica, naturalmente, non si è svolta “in laboratorio” o in un contesto separato dalla storia e dal mercato mondiale. Rispetto a quest’ultimo, si verifica un processo di rottura e di progressivo “riassorbimento”. Il rapporto tra URSS e “sistema-mondo” capitalistico – caratterizzato da un permanente “accerchiamento” e dalla dialettica isolamento/integrazione – si è sviluppato su tre direttrici: a) accerchiamento e isolamento sovietico; b) confronto/competizione con l’Occidente; c) graduale integrazione nel “sistema-mondo”.
a) Inizialmente, l’accerchiamento capitalistico si esprime come isolamento dell’URSS e in una politica di aggressione nei suoi confronti. È noto l’intervento di truppe tedesche, britanniche, francesi, americane, ceche, giapponesi ecc. in appoggio alle “armate bianche” controrivoluzionarie nella guerra civile successiva all’Ottobre. Intanto “il governo bolscevico fu posto progressivamente nel più completo isolamento” e “un totale blocco economico si strinse attorno al paese”. Nei primi anni ’20, la Russia sovietica riuscì ad aprirsi qualche spiraglio nel “cordone sanitario” che la circondava, ma presto si ritrovò ancora isolata e accerchiata[9]. Ne seguì la decisione di avviare una massiccia industrializzazione, al fine di garantirsi una piena autonomia economica. Negli anni ’30, all’isolamento economico (e tecnologico) si aggiunge il nazi-fascismo e dunque un pericolo di guerra potenzialmente mortale. Quindi, l’aggressione tedesca e la seconda guerra mondiale, e poi quasi mezzo secolo di “guerra fredda”. Sul piano economico, fino agli anni ’70 l’URSS “costituì un universo separato e largamente autonomo [...]. Le sue relazioni con il resto dell’economia mondiale [...] furono sorprendentemente scarse”[10]. In particolare nella tecnologia avanzata, le importazioni scontavano le “severe limitazioni” imposte dall’Occidente, fino all’embargo di Carter[11]. Anche a livello politico, col riavvicinamento cino-americano in funzione antisovietica, l’URSS scontò un pericoloso isolamento che si aggiunse alla crescente difficoltà nel movimento comunista mondiale.
b) Il confronto/competizione con l’Occidente ha caratterizzato in particolare la fase della “coesistenza pacifica”. L’URSS “partiva da una posizione di relativa inferiorità economica”; divenuta più aperta, la società sovietica era venuta a conoscenza dei livelli di benessere dei paesi a capitalismo avanzato, vivendo un senso di deprivazione relativa dagli effetti destabilizzanti[12]. In tale ottica, “il problema dell’economia sovietica non è l’economia sovietica, ma quella degli altri paesi”, e in particolare di quelli più avanzati[13]. Arrighi parla di “legge ferrea” della gerarchia globale, ossia di “incapacità strutturale delle regioni di bassa e media ricchezza di ‘scalare’ la gerarchia della ricchezza” mondiale[14]. Inoltre, con la coesistenza pacifica, l’URSS iniziava ad aprirsi al mercato mondiale e a concepire la competizione con l’Occidente in termini di tassi di sviluppo e livello di consumi. Smarriva così il senso di un progetto alternativo al capitalismo, ponendosi sul terreno di quest’ultimo e dunque votandosi alla sconfitta[15]. Torniamo così al problema della competizione “tra contendenti diseguali” nel mercato mondiale, all’intreccio tra problema storico dell’arretratezza e confronto col mondo capitalistico: per Hobsbawm, “fu l’interazione dell’economia di tipo sovietico con l’economia mondiale capitalista [...] che rese vulnerabile il socialismo. [...] Ciò che sconfisse e alla fine distrusse l’URSS non fu lo scontro ma la distensione”.
c) La questione cruciale è dunque il processo di integrazione nell’economia mondiale cui l’Unione Sovietica è stata/si è sottoposta negli ultimi decenni. Negli anni ’70-’80 fu chiaro che “l’universo economico separato del ‘campo socialista’ stava integrandosi nella più vasta economia mondiale. [...] Questa integrazione fu l’inizio della fine [...]”[16]. Infatti l’URSS si inseriva in un mercato che, lungi dall’essere “neutro”, era il mercato mondiale capitalistico, con leggi di funzionamento sue proprie, il che determinava vari scompensi per l’economia sovietica[17]. Inoltre si confermava la teoria dello scambio ineguale, per cui “quando economie a diversi livelli di evoluzione commerciano tra loro, il surplus si trasferisce dall’economia meno sviluppata a quella più sviluppata”[18]. Gli scambi sovietico-occidentali seguivano la tipica dinamica di sviluppo del sottosviluppo: l’URSS importava tecnologie, capitali e beni di consumo, in cambio di materie prime, costruendo la propria dipendenza dal mondo capitalistico. Il crollo del prezzo del petrolio costrinse l’URSS all’indebitamento con l’estero per pagare le importazioni[19]. La crisi dell’URSS, dunque, è legata alla sua posizione precaria nell’economia mondiale, ma anche alla crisi di quest’ultima, che ha comportato una più aspra competizione. Per A.G. Frank, i “crolli” dei paesi socialisti sono la
conseguenza della partecipazione di questi paesi a un sistema economico mondiale unico e alla sua attuale crisi [...]. La crisi economica mondiale ha dettato il necrologio delle economie ‘socialiste’ molto più di quanto non l’abbia[...] fatto la loro ‘pianificazione socialista’ [...]. Similmente alle economie da ‘Terzo mondo’ dell’America latina e dell’Africa, le economie da ‘Secondo mondo’ dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale non sono state capaci di tenere il passo accelerato della competizione conseguente a questo periodo di crisi dell’economia mondiale[20].
Negli ultimi anni, ci fu dunque un riassorbimento dell’URSS nel “sistema-mondo” capitalistico, una reintegrazione neocoloniale, preparata dal “riassorbimento” dell’Est europeo, in corso da tempo[21]. Anche l’indebitamento dei paesi est-europei con l’Occidente fu il prezzo del loro tentativo di “ridurre le distanze” importando beni di consumo e tecnologie, ciò a cui seguì l’imposizione di dure politiche di rimborso del debito, che hanno esacerbato la crisi interna, poi sfociata nelle “rivoluzioni” del 1989. Dunque, paradossalmente, il “socialismo reale” è stato sconfitto “anche per la applicazione [...] dei modelli di crescita guidati dalle importazioni/esportazioni e per le politiche di austerità ispirate al modello FMI”[22]. I paesi est-europei furono usati come “anelli deboli per spezzare l’intero sistema [...] del COMECON” e “scardinare” l’URSS. Vi fu cioè una “invasione accelerata dell’economia socialista da parte della ben più dinamica, progredita e dominante economia capitalistica mondiale”[23].
b) Elementi e limiti di fondo dell’esperienza sovietica “in quanto tale”
- Inefficienze e difetti dell’economia sovietica
La crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)[24], i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’60[25]. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi[26].
L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.[27]. In sostanza, i “gruppi di interesse” agivano “contro gli interessi dello stesso piano generale”. Il discorso era analogo passando dai ministeri alle singole imprese: informazioni falsate per avere piani di produzione meno impegnativi, riserve nascoste, forniture extra-piano, costi gonfiati, ecc. Peraltro, “ogni realtà territoriale di una certa rilevanza” esprimeva “inevitabili spinte localistiche”. Ne derivava la “dispersione” e “l’indebolimento dei poteri di direzione”; “veniva ad indebolirsi fortemente lo stesso principio di responsabilità riguardo all’utilizzo economicamente e socialmente valido delle risorse”, e si moltiplicava la “appropriazione particolaristica delle risorse ‘pubbliche’”[28]. Come osserva Boffa, “quella che doveva essere l’economia più pianificata e controllata [...] per una parte considerevole e, comunque, crescente, sfuggiva a qualsiasi controllo [...]”[29].
A tutto ciò si aggiungevano difetti legati alla produzione e alla produttività: il privilegiare la quantità (per realizzare gli obiettivi del piano) a danno della qualità dei prodotti, una manodopera in eccesso e sottoutilizzata (sintomo di una “disoccupazione occulta”), infine una resistenza all’innovazione tecnologica (per non vedere aumentati gli obiettivi del piano)[30]. E sullo sfondo, il “compromesso corporativo regressivo tra direzione di fabbrica e maestranze”, e quindi la scarsa produttività del lavoro. Si tratta di quel “contratto sociale brezneviano” o “compromesso sovietico”, che consisteva in un tacito accordo tra operai da un lato, e direttori d’impresa e ceto politico dall’altro, per cui a scarsi incentivi materiali corrispondeva una produttività del lavoro scarsa[31]. Peraltro, “gli incentivi materiali non sono stati accettati volentieri quando mettevano in questione [...] il modo di lavorare abituale”, che implicava “totale sicurezza dell’impiego”, “bassi ritmi di lavoro” ecc.[32]: aspetti in parte tendenzialmente socialisti, o prematuramente socialisti, rispetto alla necessità di sostenere la competizione col supercompetitivo e capitalistico Occidente.
Notevoli erano anche le rigidità e i limiti tecnici della pianificazione, dalla difficoltà di una efficiente allocazione delle risorse all’inadeguatezza tecnica del “metodo dei bilanci materiali” utilizzato dai ministeri per calcolare le relazioni inputs-outputs, dai limiti di calcolo dei costi di produzione fino al problema del raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta dei beni di consumo, e tra quest’ultima, i prezzi ed i salari. Inoltre, permanendo condizioni di scarsità e difficoltà nella distribuzione, e mancando meccanismi di adeguamento automatico tra domanda e offerta, si verificava spesso uno squilibrio tra massa salariale e offerta di beni di consumo, da cui i fenomeni delle file o degli scaffali vuoti, sintomi di una “inflazione repressa” che sarebbe divenuta “aperta e pericolosa se meccanismi di libero mercato venissero attivati”; come nei fatti è stato. Il problema, in definitiva, legato alla definizione “arbitraria” dei prezzi, consisteva in uno squilibrio tra beni prodotti, prezzi e salari[33]. Infine, tra i “problemi microeconomici”, c’era la mancanza di rigidi vincoli di bilancio per le imprese che, non temendo di fallire in quanto sostenute dallo Stato, non puntavano eccessivamente sulla redditività dei propri investimenti; dal che seguiva sia la resistenza all’innovazione tecnologica, sia lo spreco di risorse e beni[34]. Tutto ciò condusse ad una crisi di redditività degli investimenti dello Stato, che sarà fatale: il sistema cioè evitava crisi cicliche e fallimenti aziendali, ma “al costo di giungere assai più rapidamente e coerentemente alla propria fine”. In questo senso, come scrive Catone, “l’economia sovietica del periodo brezhneviano ha rimosso una razionalità capitalistica senza [...] aver costruito una nuova razionalità socialista”[35].
- Il fallimento dei tentativi di riforma
I problemi economici che abbiamo visto sono stati più volte oggetto di tentativi di riforma. I principali tentativi risalgono a Krusciov e alle riforme di Kosygin degli anni ’60. Le riforme kruscioviane riguardarono l’organizzazione dell’economia: in un quadro di decentramento, furono istituiti i sovnarchozy (centri di pianificazione regionali) e vari ministeri furono aboliti; si intendeva così superare un modello organizzativo verticale, attraverso organi di coordinamento che stimolassero anche le relazioni fra le imprese. Ne derivò però il rafforzarsi delle “tendenze campanilistiche”: il risultato fu quello di “sostituire lo ‘spirito di parrocchia’ dell’amministrazione locale alla ‘lieve tutela’ dei ministeri, e l’esperimento fu abbandonato ovunque”[36]. Secondo A. Nove, l’istituzione dei sovnarchozy produsse il moltiplicarsi di enti da cui dipendevano le forniture di materie prime e semilavorati per l’industria, il che complicava la realizzazione del piano: non c’era più un solo organo responsabile, cosicché alla fine non era responsabile alcuno; nelle repubbliche più grandi, vigeva una “pianificazione a doppio binario”[37].
Il secondo importante tentativo riformistico fu la “riforma dell’impresa” di Kosygin (1965), i cui obiettivi erano il “miglioramento della pianificazione” e il “rafforzamento dello stimolo economico della produzione”: a tali fini, occorreva ridurre il numero degli “indici imperativi” pianificati centralmente, introdurre altri indici di produttività oltre a quelli quantitativi, lasciare parte degli utili all’impresa. Secondo R. di Leo, anche questa riforma ebbe un “esito fallimentare”: ponendo la questione di un “rapporto orizzontale tra le aziende”, ebbe “effetti di rimbalzo sul resto dell’ingranaggio [...] tali che il partito-stato tornò al centralismo verticale [...]”. D’altra parte, la riforma lasciava immutato il resto del sistema, e in particolare il meccanismo di formazione dei prezzi e la pianificazione elaborata “in grandezze fisiche” piuttosto che in termini finanziari. Anche per Catone, la riforma “aggrava i problemi dell’economia sovietica. Le imprese acquisiscono un potere monopolistico che prima non avevano, ma non migliorano la qualità della produzione”. Per Ellman e Kontorovich, le riforme del 1965 “danneggiarono l’organicità del sistema di comando, affrettandone la fine”[38]. In questo senso, il “riformismo comunista” sarebbe fallito non tanto perché “bloccato” ma proprio in quanto avrebbe effettivamente realizzato alcune innovazioni, rivelatesi però incompatibili col funzionamento del sistema.
- La “doppia economia”
Veniamo ora al problema della “doppia economia”, ossia alla convivenza dell’economia ufficiale con l’“economia ombra” o “seconda economia”[39]. Questa, essenzialmente un circuito mercantile a fronte di un’economia pianificata, è stata generata dalle carenze di quest’ultima; ma era anche un’eredità della struttura sociale pre-rivoluzionaria. Giustamente il Manuale di economia politica apparso in URSS negli anni ’50 affermava che “la costruzione del socialismo” non può fondarsi “su due basi differenti” – ad esempio sull’“industria socialista più grande e più unificata” e “un’economia contadina di piccola produzione mercantile dispersa e arretrata” – “per un periodo relativamente lungo”. Mao commentava che in URSS “il periodo di coesistenza” era “durato troppo a lungo”[40]. Il Paese cioè si reggeva su due sistemi di proprietà potenzialmente antagonistici. L’esistenza delle “piccole aziende familiari”, ossia degli appezzamenti privati dei contadini colcosiani, e dei “mercati colcosiani”, provocava scompensi economici notevoli. Infatti, tempo di lavoro e produttività aumentavano nel piccolo appezzamento privato, diminuendo in quello collettivo o statale. Esisteva inoltre una “coesistenza antagonista del piano e del mercato”, per certi versi inevitabile nel periodo di transizione[41]. Scrive nel ’69 Sweezy:
I rapporti mercantili [...] sono inevitabili, per un lungo periodo di tempo, nel socialismo, ma costituiscono un pericolo permanente per il sistema e, se non contenuti e controllati, condurranno alla degenerazione e alla regressione.
[...] La contraddizione mercato-piano non è una contraddizione assoluta nel senso che le due forze non possano esistere affiancate; è una contraddizione nel senso che [...] sono in opposizione l’una all’altra e [...] costrette a una incessante lotta per il predominio. Il problema qui non è tanto quanto estensivamente si ricorra al mercato, ma fino a che punto si ricorre al mercato quale regolatore indipendente[42].
In questo senso, la “rottura” avviene nella fase post-staliniana, con Krusciov e più ancora con Breznev. Si produce allora una crisi della pianificazione centralizzata: i processi di decentramento amministrativo e gestionale vi entrano in contrasto; ma soprattutto essa è ostacolata dai crescenti scambi economici di tipo privatistico tra imprese, ministeri ecc., ossia da un mercato di materie prime e mezzi di produzione, accanto a cui si sviluppa una sempre più ampia dinamica di mercato nel settore dei generi alimentari e di consumo. Emerge così una “economia ombra” che mette in crisi la pianificazione, e innesca una spirale di illegalità diffusa, connivenze e corruzione, che a sua volta fa sorgere “mafie” locali e nazionali[43]. Insomma, fenomeni disgregativi dell’economia pianificata si inseriscono nelle crepe di quest’ultima, contribuendo a tenerla in piedi nel breve periodo, ma in realtà “scavandole la fossa”[44]. A ciò si aggiunga, nelle zone periferiche dell’URSS (Asia centrale ecc.), un’“economia informale su vasta scala non controllata dallo Stato”, fondata su legami familiari ed etnici: “zone franche” in cui si sviluppavano rapporti di mercato, peraltro piuttosto primitivi, “economie familiari contadine” e “pratiche illegali”[45].
Dunque il processo inizia negli anni ’60: è allora che “le aspettative della gente vennero percepite sempre più come legittime, e le iniziative economiche informali che nascevano per soddisfarle apparvero la soluzione di minor rischio”, per cui “le autorità [...] cominciarono a chiudere gli occhi sull’economia-ombra”. Inoltre l’ampio ricorso all’incentivazione materiale aumentò la “monetizzazione dell’economia domestica”, legittimando nuovi valori. La riforma del 1965 segnò “la pubblica accettazione della coesistenza tra l’organizzazione economica di tipo sovietico e l’impresa contadino-familiare, non più considerata compromesso transitorio a latere del socialismo realizzato, ma presenza operante dentro di esso”, mentre la Costituzione del ’77 riammetteva le “attività artigianali e commerciali private”[46]. Le “norme meno rigide sulle piccole attività economiche private [...] crearono nuove opportunità [...] di crearsi un reddito supplementare [...] grazie a un ‘secondo lavoro’ o [...] un’attività privata a tempo pieno”[47]. L’“inserimento di faccende personali nell’orario di lavoro, con l’impiego di valori di proprietà sociale per uso privato” contribuì al consolidarsi di “una seconda economia negli ‘interstizi’ di quella centralizzata”[48].
“A metà degli anni ’70 non si poteva più parlare [...] della pianificazione come qualcosa di realmente funzionante”; gli scambi di semilavorati e materie prime avvenivano “sulla base ora di rapporti di forza fra settore e settore, e azienda e azienda, ora di meccanismi spontanei, e cioè sempre al di fuori di ogni idea di piano”. Le imprese svilupparono “una loro particolare economia parallela”, accumulando più risorse del necessario “per poterle poi scambiare vantaggiosamente”[49]. Del resto, la formazione di un mercato parallelo dei mezzi di produzione era conseguenza “inevitabile” dell’“introduzione del principio di redditività delle singole imprese”, specie in una situazione di “penuria relativa” come quella sovietica[50]. Alcuni lavori, specie nell’edilizia, erano appaltati a “squadre speciali” di lavoratori in sovrannumero, al di fuori del circuito ufficiale; “e dal momento che il materiale usato era sottratto alla sua legittima destinazione, esisteva necessariamente un giro vorticoso di furti [...] e di corruzione [...]”[51]. In generale, “l’economia-ombra era basata sulla corruzione e il ladrocinio o furto su larga scala della proprietà statale”, con “una cooperazione nascosta” tra la nascente ‘mafia’ e settori della nomenklatura, e il formarsi di una nuova “categoria di intermediari”; insomma, fu “un enorme parassitismo” “sul corpo dell’economia di Stato”[52]. Essa contribuì ad aggravarne i difetti dell’economia pianificata e a costituire una proto-borghesia para-criminale, poi tra i protagonisti della disgregazione dell’URSS.
- I problemi della libertà e della democrazia
L’altro campo di problemi dell’esperienza sovietica riguarda il funzionamento del sistema politico, della libertà e della democrazia. In realtà tutta la vicenda del “comunismo storico” è percorsa da una sorta di militarizzazione della politica e della società, che peraltro come fenomeno storico inizia prima dell’Ottobre (almeno con la “grande guerra”)[53]. È chiaro che un movimento che si propone di abbattere il capitalismo, a sua volta un ordine sociale violento in radice, per istituirne uno più avanzato, debba per certi aspetti organizzarsi come un esercito, tanto più dinanzi alle esigenze difensive e all’accerchiamento capitalistico. L’URSS fu sempre in uno stato di guerra, aperta o latente; è fatale allora che la tendenza ad organizzarsi come un esercito prevalga, con tutte le sue conseguenze, tra cui la limitazione della critica e la diffusione di metodi autoritari. La vicenda sovietica va dunque inserita nel suo contesto storico: una situazione di guerra continua, durata finché l’URSS è stata distrutta. La stessa “militarizzazione del lavoro” fu volta a superare l’arretratezza e lo svantaggio iniziale. Ma “si sarebbe potuta costruire un’industria moderna e di difesa sommando le autogestioni del vecchio apparato produttivo? Ideologia e necessità giocano contro i consigli, per il piano e il suo verticismo”[54].
Secondo D. Losurdo, la vicenda del ‘socialismo reale’ si svolse tra “due poli”: l’utopia e lo stato d’eccezione, ognuno dei quali rafforzava l’altro; in questo senso, vi fu un’“incapacità [...] di passare dallo stato d’eccezione alla normalità, avanzando sulla via della democratizzazione”, sia all’interno sia nei rapporti coi ‘paesi fratelli’. Anche per U. Cerroni, l’“alterazione del progetto rivoluzionario”, conseguente alla volontà di affrettare i tempi della transizione, fu alla radice di molti limiti del sistema sovietico[55]. In questo quadro si colloca il problema storico dello “stalinismo”, della fase del Terrore nel processo rivoluzionario sovietico, e dell’ampio uso della repressione nella vita politica e sociale dell’URSS[56]. Per Benvenuti, lo “stalinismo” è proprio la manifestazione della continua tensione che ha caratterizzato la storia sovietica: lotta di classe interna e “presentimento di uno scontro finale” sul piano internazionale; da ciò, “l’istituzionalizzazione delle cosiddette ‘misure straordinarie’”[57]. È nota la lettura trotzkista dello “stalinismo” come espressione della “burocrazia” di Partito e Stato. Al contrario, per M. Lewin, Stalin costruì il suo sistema di potere proprio al fine di “scavalcare il labirinto burocratico” che andava formandosi; e per Hobsbawm, lo “stalinismo” fu un “tentativo di impedire alla burocrazia di prevalere nella sua veste di classe dirigente ossificata”. D’altra parte, osserva Boffa, ciò significò “scavalcare e quindi sminuire il partito stesso”[58]. La questione dello “stalinismo”, comunque, chiama in causa le forze sociali ad esso collegate, la sua “natura sociale”. Di fatto, il periodo staliniano produsse una leva di “uomini nuovi [che] divennero la parte più dinamica di tutti gli apparati sovietici”; di estrazione operaia o contadina, furono essi il principale “sostegno sociale e politico del potere staliniano”[59]. L’industrializzazione e la collettivizzazione accelerate corrisposero ad un’esigenza di “accumulazione originaria” socialista. Secondo A. Nove, “nel 1928 qualsiasi programma bolscevico [...] attuabile sarebbe stato duro e impopolare. Avrebbe potuto essere meno duro e impopolare se si fossero evitate delle scelte che non erano indispensabili”, ma “alcuni elementi dello stalinismo erano sostanzialmente inevitabili”[60]. Il principale errore di Stalin – osserva Mao – appare comunque quello di aver considerato le “contraddizioni in seno al popolo” e al Partito alla stregua delle contraddizioni antagonistiche, affrontandole con la stessa radicalità.
Un altro elemento essenziale è l’assetto istituzionale. Secondo Benvenuti, il “sistema politico monopartitico” fu “il regime politico corrispondente alle condizioni di una guerra civile permanente”. Per Boffa, fu l’effetto e l’esito della guerra civile, allorché il Partito bolscevico “si affermò [...] come unica effettiva forza politica nel paese. La legittimità gli venne dall’essere lo ‘stato maggiore’ della vittoria” e dall’“aver creato [...] uno Stato nuovo”[61]. Nei primi anni di vita dell’URSS, scrive Holz, il Partito cercò di “creare le condizioni di una democrazia socialista”, ma i suoi sforzi “entrarono in contraddizione con l’asprezza della lotta di classe; furono compromessi dalla centralizzazione del potere statuale in una fase [...] dominata dal rafforzamento delle capacità difensive e di sicurezza; furono infine arrestati dalla guerra”; dopo il 1953, “la cosiddetta ‘destalinizzazione’ non fu portata avanti sul piano politico-istituzionale”, né riforme in tale campo furono avviate da Breznev[62]. Intanto vari problemi si erano accumulati: le “sovrapposizioni di competenze”, frutto della “fusione tra l’apparato del Partito unico e la burocrazia statale”; la carenza di liberi flussi di idee e informazioni, che contribuì all’impoverimento teorico e al ritardo tecnologico; l’assenza di una piena “legalità socialista” e “l’incertezza del diritto”[63]. Insomma, la sovrastruttura politica non riuscì ad adeguarsi alla formazione di una società civile complessa[64].
Centrale è il problema della partecipazione e del controllo popolare. Lenin aveva esaltato la democrazia socialista proprio evidenziandone il contenuto di democrazia diretta e partecipata. Il tentativo, cioè, è quello di superare la politica come professione, restituendola al protagonismo delle masse[65]. Dopo la rivoluzione, alle prese col compito difficilissimo di costruire la democrazia socialista nella Russia arretrata, Lenin torna su questi temi, cogliendo segnali di involuzione e tentando di porvi rimedio[66]; ma le sue proposte sono accantonate. Quello di un carente controllo e potere popolare – pur in un quadro di mobilitazione attiva delle masse – rimarrà un limite di fondo del sistema politico sovietico, da cui deriveranno la spoliticizzazione e l’apatia delle masse stesse. Si consolida così “un potere senza responsabilità”[67]. E ciò contribuisce alla crisi di legittimazione che investe Partito e Stato nella fase finale.
- La nomenklatura; la formazione di una burocrazia come ceto separato, i privilegi sociali
Non sarebbe possibile distruggere di punto in bianco [...] la burocrazia [...] ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per [...] costruirne una nuova che permetta la graduale soppressione di ogni burocrazia, non è utopia [...].
[...] Riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione di semplici esecutori [...] di ‘sorveglianti e di contabili’, modestamente retribuiti, responsabili e revocabili [...]. Questo [...] porta da se stesso alla graduale ‘estinzione’ di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di un ordine [...] in cui le funzioni, sempre più semplificate, di sorveglianza e di contabilità, saranno adempiute a turno, da tutti, diverranno poi un’abitudine e finalmente scompariranno in quanto funzioni speciali di una speciale categoria di persone.
Così scrive Lenin in Stato e rivoluzione[68]. Dopo la presa del potere, egli sottolinea la necessità di “costruire un apparato veramente nuovo che meriti veramente il nome di socialista”, ma sa che “occorrono molti, moltissimi anni”[69]. Durante la fase staliniana, inseriti nella gestione concreta dello Stato e dell’economia, i quadri acquistano un potere notevole, specie a livello locale. La cosa non sfugge a Stalin, che non caso promuove dure “campagne antiburocratiche”[70]. Con Krusciov, gli apparatchiki ottengono maggiore libertà e un campo d’azione più vasto. “Per la prima volta” sono “in grado di porsi apertamente il problema di come difendere ruolo e status”. Intanto, iniziano a perdere la loro identità di portatori di un progetto di trasformazione, per divenire meri amministratori[71]. Tuttavia, gli stessi sconvolgimenti della politica kruscioviana ne rendono incerta la posizione. Solo con Breznev, dunque, gli apparati raggiungono una stabilità che tende a configurarli come uno strato sociale[72]. Si verifica allora la formazione di una burocrazia come ceto separato, con uno stile di vita e prospettive diversi da quelli delle masse popolari[73]. Il cristallizzarsi di una stratificazione sociale e l’emergere di uno “status” privilegiato hanno un notevole effetto negativo, in una società legata all’egualitarismo e in condizioni di relativa “scarsità”[74]. Peraltro, con la “stagnazione”, va in crisi “la straordinaria mobilità sociale” dei decenni precedenti; le differenze sociali si stabilizzano. La “nomenklatura” è sempre più identificabile[75].
Si assiste intanto a una sclerotizzazione del PCUS, con dirigenti inamovibili, incapaci di imprimere svolte o accelerazioni al sistema. Il Partito diviene “il garante dell’immobilismo statuale”, la sua “burocratizzazione” porta “alla rimozione di ogni attività critica e di discussione”, si diffondono “l’opportunismo e l’indifferenza”[76]. Lo stesso meccanismo di formazione della nomenklatura, basato perlopiù sulla cooptazione, favorisce una sorta di “selezione negativa” dei dirigenti, premiati più per la loro fedeltà che per le loro capacità[77]. L’età media del gruppo dirigente è così alta da far parlare di “gerontocrazia”. Lo stesso Breznev, colpito da infarto nel ’76, rimane in carica fino alla morte, per cui “per ben sei anni l’URSS ebbe alla sua testa una persona menomata”[78]. Dunque gli apparati, che in passato avevano svolto una funzione decisiva, diventano forza di conservazione e ostacolo allo sviluppo: “l’interesse privato dei burocrati [...] entra sempre più in contrasto con gli imperativi di uno sviluppo rapido [...] dell’economia”, poiché essi puntano a obiettivi minimi, sminuendo le potenzialità dell’apparato produttivo. Per certi versi si crea il contrasto marxiano tra rapporti sociali e sviluppo delle forze produttive, dove i primi diventano elemento di freno del secondo, il che provoca crisi strutturali e trasformazioni dei rapporti sociali stessi[79].
Peraltro la nomenklatura non era un corpo unico, omogeneo. Lo stesso PCUS si era ridotto a “mero ‘contenitore’ di burocrazie parallele che non sempre rispondevano a una logica unitaria”[80]. In queste contrapposizioni interne alla nomenklatura alcuni autori hanno visto l’esistenza di “gruppi di pressione” e “gruppi d’interesse”, in competizione tra loro per l’assegnazione delle risorse: l’apparato di Partito, i militari, i managers, l’intelligencija[81]. Il contrasto di fondo è quello tra “nomenklatura politica” (che governa il Partito) e “nomenklatura economica” (che gestisce l’apparato produttivo, dalle aziende ai ministeri). Esso emerge negli anni ’60, e con Breznev viene sancita la “separazione tra la sfera politica e le questioni [...] dell’economia e dell’amministrazione statale”, con la “nomenklatura economica” che guadagna terreno a danno del Partito[82]. Lo scontro viene allo scoperto con la perestrojka, che segna la vittoria della nomenklatura economica[83].
Peraltro, da anni procedeva una graduale sottrazione di poteri al centro, con l’emergere di particolarismi e localismi. Sotto Breznev si consolidò il ruolo delle relazioni personali, delle reti informali e spesso illegali intessute dalla nomenklatura. I “dirigenti delle grandi organizzazioni territoriali del Partito” divennero “veri e propri ‘feudatari’”, basandosi sulle realtà locali “per contrattare meglio col centro”[84]. In particolare nelle repubbliche asiatiche, dove il Partito aveva promosso la nascita di élites politiche locali, erano sorti “meccanismi di patronato”, di clan e clientelari. Ne era derivato un “compromesso instabile” tra centro e periferia, che salta durante la perestrojka, quando le risorse cominciano a scarseggiare e lo Stato a indebolirsi[85]. La nomenklatura economica locale rimane allora l’unica ad avere poteri reali. Disgregatosi il potere centrale, quello vero è “suddiviso tra le migliaia di direttori delle fabbriche, delle aziende agricole, delle miniere [...]”; essi ormai mirano ad ottenere la proprietà dei mezzi di produzione, dopo averne acquisito il possesso de facto con l’autonomia sancita dalla riforme gorbacioviane[86]. Avviene così il “passaggio di campo” di parte della nomenklatura[87]. Si completa quella sorta di ‘fusione’ con gli “organizzatori della ‘seconda economia’”, iniziata con Breznev. La nomenklatura decide di “sfruttare a proprio vantaggio il processo di privatizzazione”, creando “imprese private e joint ventures con partner stranieri”, vendendo all’Occidente “informazioni, servizi e licenze” ma anche “materie prime, petrolio e manufatti”[88]. Impianti ed edifici statali sono ‘privatizzati’ tramite “acquisti fittizi a prezzi irrisori”, il che contribuisce al “precipitare delle finanze sovietiche”[89].
- La guerra fredda e la corsa agli armamenti
Abbiamo già accennato allo stato di “guerra permanente” in cui è sempre stata l’Unione Sovietica. Esso forse tocca il culmine nel secondo dopoguerra, con 45 anni di “guerra fredda”. Del resto, già l’atomica su Hiroshima e Nagasaki era stata un chiaro messaggio all’URSS. Dunque, prima ancora che il conflitto mondiale sia finito, la “guerra fredda” è già iniziata[90]. Nel 1946-47 Churchill e Truman avviano la “crociata” anticomunista. Gli USA sanno di poter “aumentare enormemente le tensioni che condizionano la politica sovietica”, e “incoraggiare in questo modo tendenze che possano trovare [...] lo sbocco o nel dissolvimento o nel graduale ammorbidimento del potere sovietico”[91]. Come nota S. Amin, le potenze occidentali “non hanno mai rinunciato, dal 1917, al tentativo di abbattere l’Urss [...]. L’iniziativa della guerra fredda è stata presa da Washington [...]. L’Urss si limitava rigorosamente alla suddivisione di Yalta [...][92]. Scrive A. Zinov’ev:
La guerra fredda coinvolse tutto il pianeta e ogni sfera di vita dell’umanità [...]. Si fece ricorso a ogni mezzo: radio, televisione, servizi segreti, congressi, scambi culturali, corruzione [...]. In breve, si trattò forse di un nuovo tipo di guerra nella storia dell’umanità, globale e onnicomprensiva [...]. Lo scopo divenne presto la completa distruzione dell’Unione Sovietica e dell’intero blocco di paesi comunisti[93].
In questo quadro, una grande importanza spetta alle alleanze costruite attorno ai due contendenti. Il ruolo della Cina – e del suo riaccostamento agli USA in chiave antisovietica – appare determinante. Quanto agli alleati dell’Unione Sovietica, essi “non riuscirono mai a camminare sulle proprie gambe”, gravando “sul bilancio annuale dell’URSS per decine di miliardi di dollari”[94]. La questione degli “aiuti” peraltro si lega all’impegno eccessivo dell’Unione Sovietica sullo scacchiere internazionale delineatosi dagli anni ’60, ossia al suo “espansionismo difensivo”[95]. In sostanza, i suoi interventi “non esprimevano una volontà aggressiva ‘di esportare la rivoluzione’ e di imporre in tal modo il suo predominio”, ma “una strategia difensiva a partire da una posizione di relativa debolezza [...]”; tuttavia ciò porrà l’URSS “in gravi difficoltà sul piano economico, proprio per la crescente importanza attribuita alla dimensione militare”, “a tutto danno dello sviluppo delle società socialiste”[96]. Esemplare il caso dell’invasione dell’Afghanistan, il cosiddetto “Vietnam sovietico”[97]. Qui gli USA adottarono “una politica di intervento diretto”, prima incentivando la guerriglia contro il governo filosovietico e poi costituendo una coalizione segreta con Pakistan, Cina, Arabia Saudita, Egitto e Gran Bretagna. In questo modo, la guerra afghana si trasformò “in uno scontro diretto tra il complesso militare-industriale sovietico e quello occidentale”, in cui emerse “l’inferiorità della tecnologia militare sovietica”. Lo scopo, come dirà il Segretario di Stato Shultz, era “‘dissanguare’ ancor più l’Unione Sovietica”[98].
Il punto centrale è dunque la corsa agli armamenti. Negli anni ’70 l’URSS spende in armamenti il 12% del suo PNL; dal ’75, le spese militari aumentano del 5% l’anno, un tasso superiore alla crescita del PNL[99]. Per Zinov’ev, “la corsa agli armamenti e una politica condotta sempre al limite della guerra ‘calda’ non erano che una lotta dell’Occidente per sfiancare l’avversario. L’Unione Sovietica e i suoi alleati si videro costretti a spese superiori alle loro forze”. Scrive Holz:
Il capitalismo si armò ed anche i paesi socialisti dovettero armarsi [...]. C’è, però, una differenza. All’interno del capitalismo, l’armamento è funzionale al sistema, perché ne favorisce il processo d’accumulazione. All’interno del socialismo, invece, [...] è dannoso al sistema, perché dissipa ricchezza sociale e, dunque, indebolisce il socialismo[100].
Analoga è la tesi di Sweezy[101]. Alla fine degli anni ’70, gli USA rilanciano la corsa agli armamenti; nel 1981, Reagan avvia “il più massiccio riarmo della storia degli Stati Uniti in tempo di pace”, che sfocia nel progetto SDI (lo “scudo spaziale”), e negli “euromissili”. Dunque l’URSS è spinta ad una rincorsa sul terreno della tecnologia avanzata, che richiede enormi risorse. Per Davies, “uno degli obiettivi delle guerre stellari di Reagan era appunto quello di tagliare le gambe all’economia sovietica, e in questo certo ha avuto successo”[102]. Gorbaciov tenterà di rispondere con una nuova versione della “coesistenza pacifica”, ormai priva di qualsiasi tono competitivo. Fin dall’inizio è lui “a fare le maggiori concessioni senza ottenere in cambio [...] la fine della corsa agli armamenti”, ma una costante “asimmetria delle riduzioni” delle forze in campo. Con le ultime, unilaterali, concessioni sovietiche, si pone fine alla guerra fredda, ma con la sconfitta dell’URSS[103].
Va dunque considerato il ruolo degli USA (e del Vaticano) nella crisi finale del “socialismo reale”. Secondo l’inchiesta di C. Bernstein, “il Papa e Reagan strinsero segretamente una ‘santa Alleanza’ per tenere in vita Solidarnosc, rovesciare i regimi comunisti dell’Europa orientale e [...] mettere economicamente ko il Cremino”, realizzando “un golpe bianco senza precedenti nella storia”. All’“operazione fine del comunismo” non furono estranei Banco Ambrosiano e Vaticano, e “l’ambasciata americana a Varsavia diventò il principale centro della Cia nel mondo comunista”. Il tutto si giovò della colpevole passività di Gorbaciov, di un personaggio ambiguo come Shevarnadze, e infine di Eltsin, aiutato a vincere le elezioni presidenziali russe da cui inizierà la disgregazione dell’URSS[104]. Riflessioni analoghe sono fatte da L. Canfora, e anche per Brzezinski, “senza il papa [...] molte delle cose che si sono compiute [...] non avrebbero mai cominciato ad accadere”[105]. Vi fu cioè una coincidenza di interessi tra USA, Vaticano e gruppo dirigente della perestrojka per un ridimensionamento della presenza sovietica in Europa orientale. I gorbacioviani vi vedevano un modo per liberarsi degli oneri della guerra fredda, il papa l’apertura di nuovi spazi alla propria presenza, e gli Stati Uniti, lucidamente, la vittoria della guerra fredda stessa.
- La mancata ristrutturazione tecnologica e la crisi degli anni ’70-80: la “stagnazione”
Abbiamo già accennato alla cosiddetta “stagnazione”, ossia a quella fase di stasi o addirittura di declino nella crescita della produttività e nello sviluppo della società sovietica, che ebbe luogo nell’epoca brezneviana. Il calo del tasso di crescita della produzione industriale fu di circa l’1% nel 1960-74, per balzare a più del 6% nel 1974-87; dagli anni ’70 in poi, si ravvisa cioè una “stagnazione assoluta o assenza completa di [...] crescita economica”. In particolare nel 1979-82 si ha una “diminuzione in cifra assoluta e in termini fisici della produzione industriale [...] e cerealicola”[106]. “In quegli anni la società sovietica non restò affatto immobile: conobbe anzi [...] cambiamenti ‘fondamentali’”; d’altra parte, l’economia “termina la sua fase ascendente e comincia la discesa che via via precipita nel declino”[107]. Davies sostiene che il calo del tasso di crescita negli anni ’70 riguardò anche i paesi capitalistici, per cui parlare di “stagnazione” è “un pochino esagerato”. Di fatto, nel 1975-85 il tasso di crescita sovietico fu del 2.1%, ma quello degli USA (2.9%) non fu molto migliore. Per A. Zinov’ev, la ‘stagnazione’ è solo “un cliché ideologico nato nella lingua dei riformisti e dei loro precettori occidentali”[108]. Tuttavia esistono diversi indicatori della crisi. La sua origine sta nella “più lenta crescita (e infine declino) della produttività”, legata ad una “riduzione della pressione dall’alto” e ad un ‘rilassamento della disciplina’ nei luoghi di lavoro; ma la “stagnazione macroeconomica” è legata anche alle crescenti spese per gli armamenti, al declino del progresso tecnologico, al “deterioramento della ricerca”, all’“immobilismo e la corruzione” crescenti, all’esaurimento delle risorse necessarie alla crescita estensiva fino ad allora praticata[109].
Secondo Catone, nel periodo brezneviano, il ‘compromesso sovietico’, ossia l’“equilibrio raggiunto tra operai e sistema” finalizzato al “mantenimento della pace sociale”, finisce per costituire lo scopo stesso della produzione; da questo punto di vista, che disciplina del lavoro e rispetto dei piani siano ampiamente disattesi, è perfettamente spiegabile. D’altra parte, tale equilibrio diventa precario allorché i ritmi di crescita iniziano a calare: tutto il meccanismo, allora, non è più sostenibile[110]. Nella seconda metà degli anni ’70, “il livello di vita” della popolazione cessa di crescere, il che si ripercuote “sul comportamento degli operai”, provocando “aumento dell’assenteismo, rotazione rapida della manodopera, spreco di materiali” e una “insoddisfazione” generalizzata[111]. Si ha così un “deficit di cooperazione tra lavoratori e stato”, ossia la rottura del ‘compromesso sovietico’[112]. Inoltre, al dinamismo sociale dei decenni precedenti subentra un “immobilismo strutturale”. Emerge allora una “crisi di legittimità”, a sua volta conseguenza di un ‘sovraccarico’ di richieste e aspettative cui il potere politico non può fare fronte[113]. Poiché “il partito si identificava con la gestione e il meccanismo di direzione girava a vuoto”, la crisi economica divenne subito “crisi politica”, manifestandosi “come caduta della capacità di direzione e di controllo da parte del centro”, all’interno ma anche verso i paesi alleati[114]. Un altro fattore di difficoltà stava proprio nei limiti soggettivi della classe dirigente. Secondo Ligaciov, “la stagnazione non era il risultato della passività dei lavoratori bensì dipendeva dal nucleo politico che dirigeva il paese”, incapace di far progredire l’URSS. “Il risultato fu che il paese non ce la fece ad entrare in una nuova fase della rivoluzione tecnico-scientifica pur standone sulla soglia [...]. Questo errore fu decisivo [...]”[115].
Il cuore del problema è dunque la ristrutturazione tecnologica mancata negli anni ’70-80, quando l’Occidente compiva la “rivoluzione informatica”, mentre l’URSS (pur con punte di eccellenza) completava la sua fase “fordista”. Natoli collega il “mancato rinnovamento degli impianti ormai obsoleti” alla volontà di conservare la “piena occupazione”, che era poi “disoccupazione occulta” di forza-lavoro sottoutilizzata[116]. Hobsbawm parte dalla crisi energetica del 1973: questa colpì i paesi occidentali, indotti così a innovare, mentre all’URSS (esportatrice di petrolio) portò ingenti quantità di valuta straniera, “allontanando così la necessità di una riforma economica” e inducendola ad aumentare le importazioni dai paesi più avanzati, il che ritardò ulteriormente il progresso tecnologico interno. Inoltre, cessati i benefici della crisi, si innescò la spirale del debito estero[117]. Anche il fatto che “le scoperte più importanti [...] avvenivano di preferenza nel settore prioritario della difesa” e che, essendo circondate dalla segretezza, “la loro utilizzazione nel settore civile era ridotta al minimo”, costituisce “una delle cause strutturali più profonde della mancata rivoluzione tecnico-scientifica”, che “aveva uno dei suoi pilastri proprio nella rapida diffusione delle informazioni”[118]. Peraltro, nel 1980 gli USA avevano drasticamente ridotto l’esportazione verso l’URSS di alta tecnologia, ciò a cui seguirà il “blocco occidentale” della vendita di PC[119]. Il problema, comunque, non fu tanto la mancata ristrutturazione tecnologica in sé, quanto il perdere terreno rispetto all’Occidente in misura fatale.
- Deideologizzazione, spoliticizzazione e crisi dei valori fondanti della società sovietica
Anche il piano culturale e teorico ha una notevole rilevanza. Secondo Losurdo, il “collasso” del socialismo reale fu “ideologico ben più che economico”: l’ideologia cioè, ridotta a mera ritualità, costituì un elemento di freno rispetto ad una presa d’atto del reale, che smentiva l’idea di un capitalismo in crisi irreversibile e richiedeva una “razionalizzazione del processo produttivo” e del sistema[120]. Si ebbe quindi uno slittamento dalla teoria all’ideologia, che agì marxianamente come un “velo di Maja” che copre la realtà. Ne derivò una grave carenza di analisi scientifiche, per cui “la società sovietica conosceva sempre meno se stessa”[121]. Scriveva Bettelheim:
La perdita del potere da parte del proletariato non necessariamente è il risultato di una violenta lotta materiale [...]. L’indebolimento del ruolo dell’ideologia proletaria e gli errori che questo indebolimento induce possono creare delle condizioni che consentano a forze sociali borghesi di svilupparsi, di consolidarsi [...] e, alla fine, di impadronirsi della direzione del partito e dello Stato, quindi di riprendersi il potere[122].
Di fatto, la società sovietica ha vissuto uno dei più eclatanti processi di de-ideologizzazione della storia contemporanea, prima con una schematizzazione anti-dialettica del marxismo; poi, col suo graduale abbandono. A ciò si aggiunga la prevalenza dell’amministrativismo, denunciato già nel 1952 da Malenkov, secondo cui le organizzazioni di partito, “prese dalle questioni economiche, dimenticano i problemi ideologici”. Con Krusciov, l’ideologia è messa ulteriormente nell’angolo, rispetto a una ricerca del consenso più affidata alla crescita economica[123]. Nell’era brezneviana il processo di de-ideologizzazione subisce un’altra accelerazione, e prevale “un approccio di tipo pragmatico”, ma il passaggio definitivo avviene con Gorbaciov, allorché “il discredito dell’ideologia viene stimolato dall’alto”[124].
Accanto a ciò, negli anni ’70, si produce una demotivazione e spoliticizzazione di massa, e una de-responsabilizzazione verso quello che non è più percepito come interesse collettivo[125]. Secondo il Rapporto siberiano (1983), il lavoratore sovietico era “sostanzialmente passivo”, “estraneo ai valori socialisti”, caratterizzato da “indifferenza verso il lavoro, inerzia sociale e marcati orientamenti consumistici”[126]. Rossanda lega la spoliticizzazione a un deficit di partecipazione e democrazia. Ne segue una “graduale sostituzione di obiettivi e valori privati a quelli ufficiali”, con una fiducia verso le possibilità meramente individuali che aumenta mentre diminuisce quella nel sistema[127]. Si crea allora un circolo vizioso tra crisi economica ed etica, per cui alla “disillusione verso il sistema” si accompagnano il “deterioramento morale della vita economica” e il dilagare della corruzione[128].
Naturalmente, allorché un sistema di valori entra in crisi, subentrano valori alternativi, che hanno “covato sotto la cenere” o in qualche misura sono stati incoraggiati. Di fatto, nella stessa ideologia sovietica, si era affermata una prevalenza dell’elemento nazional-patriottico, che da complementare era diventato sostitutivo[129]. Secondo Guerra, “il nazionalismo grande russo” era divenuto, con Breznev, “parte integrante della ‘dottrina’ ufficiale”. Parallelamente, aumentò la “etnicizzazione del discorso politico, culturale ed economico” delle altre nazionalità, spesso in chiave antisovietica[130]. Questa duplice tendenza avrà pesanti conseguenze, tanto che l’“ideologia nazionalista” è stata definita “il più importante fattore disgregante” l’URSS[131]. Dagli anni ’60, inoltre, si ha una diffusione dei valori occidentali, che va di pari passo con le riforme di Krusciov e di Kosygin: nel momento in cui ci si affida “sempre più al mercato”, ciò significa “fare del profitto il motore principale del processo economico e dire agli operai di [...] lavorare duro affinché possano consumare di più”, ossia ricreare le basi del “feticismo delle merci” e quindi della “restaurazione del capitalismo”[132]. In questo senso, Holz parla di un “appiattimento sui modelli del consumismo capitalistico”, per cui “il socialismo [...] si tolse la possibilità d’orientare in modo nuovo le coscienze”, mettendo anzi l’Occidente “in condizione di far penetrare fra le più povere popolazioni dei paesi socialisti attese e richieste” che non potevano essere soddisfatte.
Economicamente più deboli delle metropoli capitalistiche, i Paesi socialisti dovettero, nello sforzo d’emulazione, perdere sempre più forze, stretti tra il raggiungimento di conquiste sociali e culturali da un lato, e l’arrancare dietro modelli produttivi consumistici dall’altro. Il prezzo [...] era la rinuncia a costruire un’alternativa orientata dalla loro visione del mondo [...]. Le popolazioni reagirono con l’indifferenza e con illusorie aspettative rivolte al capitalismo [...]. In questo modo, fu persa nei Paesi socialisti la battaglia per l’egemonia [...]”[133].
Anche in questo caso, il salto qualitativo avvenne con Gorbaciov, allorché fu imposta “una vera e propria ‘occidentofilia’”. Alla “ritirata ideologica”, cioè, seguì il predominio dell’ideologia capitalistica. Per Catone, “nel discorso gorbacioviano” c’è “una forte ambiguità che tende a far slittare [...] la giusta critica dell’amministrativismo in condanna dell’amministrazione, intesa come controllo sociale [...] sull’attività economica”, con “una subalternità al linguaggio [...] del thatcherismo”, che diviene “adesione ideologica” nei suoi “più stretti collaboratori economici”[134]. Dal 1988-89 Gorbaciov iniziò a dire che il capitalismo “ce l’aveva fatta”, e l’URSS no[135]. Prevalse allora l’illusione sulle “virtù taumaturgiche del mercato”, e si diffuse un “complesso di inferiorità” verso l’Occidente che preparò il terreno per la “svendita” del 1991[136]. L’ultimo elemento di questa operazione fu la distruzione della memoria e dell’immagine dell’URSS, realizzata in modo sistematico nel 1988-91. L’Ottobre e il leninismo furono “processati davanti a tutto il paese”; quindi si mise sotto accusa tutta la storia dell’URSS; in questo modo il popolo sovietico veniva “privato del proprio passato”, e alla comprensione della sua storia si sostituiva un continuo processo che ne metteva in luce solo gli aspetti peggiori[137]. Il PCUS fu messo sul banco degli accusati, e con esso il comunismo. D’altra parte, “l’ideologia ufficiale sovietica si scoprì totalmente incapace di difendere i risultati positivi raggiunti dal proprio ordinamento sociale e di criticare le aporie di quello occidentale [...]”. Ne derivò “un vero e proprio panico ideologico”[138].
c) La crisi finale
- Il ruolo di Gorbaciov e della perestrojka
Abbiamo parlato dei fattori di crisi di lunga durata e di quelli “strutturali” dell’esperienza sovietica. Ma “le forze e le spinte che dovevano [...] portare alla fine dell’Urss sono [...] venute alla luce con la perestrojka”[139]. Danilov definisce “la distruzione dell’Unione Sovietica come risultato della nuova ‘rivoluzione dall’alto’”, aggiungendo che la “distruzione del potenziale socialista” esistente in URSS “non era inevitabile”. “Nessun sistema è irriformabile a patto che [...] la trasformazione venga gestita”[140]. La prima caratteristica della perestrojka è proprio la mancanza di organicità. “Contrariamente all’approccio comunista tradizionale non c’era un ‘progetto-programma’ da cui derivavano le decisioni [...]”. Gorbaciov attuò riforme “del tutto prive di una efficace capacità di previsione”, procedendo a “zigzag”[141]. Questo eclettismo, sotto la veste della retorica antidogmatica, nascondeva un preoccupante vuoto politico e teorico. Altra peculiarità è la prevalenza della pars destruens sulla pars costruens: “l’URSS sembrava estremamente necessitata a ridurre il peso degli armamenti” e “ottenere [...] ampi crediti dall’Occidente”, ma questi erano vincolati “allo smantellamento del tipo di Stato” e di economia sovietici[142]. In sostanza, la perestrojka implicava il sostegno occidentale, e l’Occidente richiese pesanti contropartite. I due percorsi si incontrarono nella crescente mondializzazione dell’economia, rispetto a cui l’URSS non voleva essere estraniata e i paesi imperialistici miravano a integrarne lo spazio economico.
Vari autori hanno parlato di due fasi della perestrojka, diverse per contenuti e finalità. Catone vede all’interno del gorbaciovismo una tendenza “liberal-borghese” e una “democratico-comunista”, di cui prevarrà la prima: fino al 1987 “la perestrojka viene presentata come prosecuzione del processo rivoluzionario”, ma poi diventa “un’operazione di smantellamento di tutto il sistema”. Nella prima fase, “non si parla affatto di ‘economia di mercato’ [...] ma di piena applicazione della legge del valore, [...] di estensione dei rapporti mercantil-monetari nel socialismo”; la perestrojka è “accelerazione”, passaggio “da un modello di sviluppo intensivo a uno intensivo”. La seconda fase vede un “passaggio di campo teorico” i cui contenuti sono la “destatizzazione” dell’economia, l’avvio di un mercato “regolato”, le privatizzazioni[143]. Secondo R. di Leo, da un certo momento in poi, Gorbaciov ha “scientemente distrutto un sistema nel quale non si riconosceva più”: egli “nel ’90 non era più comunista [...]. Era contro il Partito comunista e [...] lo stato sovietico. [...] intendeva ‘fare’ un altro stato, un altro sistema politico, un altro sistema economico”; perciò “ha distrutto consapevolmente i due baluardi del sistema sovietico, ossia il piano e il partito”[144]. Lo stesso Gorbaciov lo conferma[145]. Altri autori invece parlano di fallimento della perestrojka, evidenziandone limiti involontari e inadeguatezza strutturale, oltre all’inadeguatezza soggettiva del gruppo dirigente[146]. Scrivono Ellman e Kontorovich:
Il sistema sovietico è stato abbattuto in misura considerevole dagli atti dei suoi massimi dirigenti [...]. Il collasso economico è stato in parte un involontario sottoprodotto dei cambiamenti politici introdotti da Gorbaciov [...]. Di fatto egli rimosse la forza che aveva spinto in avanti l’economia sovietica nei decenni precedenti (ossia la pressione dall’alto), senza sostituirla adeguatamente[147].
Tra i limiti della perestrojka, c’è pure l’esiguità della sua base sociale. Allorché Gorbaciov provoca la rottura del “contratto sociale brezneviano”, si crea una vera e propria “frattura tra classe operaia e partito”[148]. A ciò si aggiunse il mancato sostegno dell’intelligencija, che si diresse sempre più verso i “radicali”, e usò “le sue nuove posizioni nei media per lanciare violenti attacchi contro il sistema”. In generale, la glasnost’ fu “la cassa di risonanza del fallimento della perestrojka”[149].
Il punto centrale resta comunque quello degli effetti delle riforme economiche, più volte analizzato da A. Catone: dalla legge sull’impresa statale, che ne aumenta l’autonomia anche per la formazione dei prezzi, provocando inflazione e “una situazione di anarchia”; all’abolizione del monopolio statale del commercio estero, per cui le aziende possono “negoziare direttamente con imprese straniere”, il che accentua le speculazioni; all’“autofinanziamento delle repubbliche”, che implica l’emissione di diverse valute, e dunque il caos finanziario, e lo stravolgimento del “piano quinquennale centrale”. Intanto, la disgregazione del blocco orientale produce la “rottura dei rapporti economici del COMECON”. Il gruppo dirigente gorbacioviano decide allora l’aumento delle importazioni di beni di consumo e un “ampio ricorso al credito estero”, che aggrava il deficit finanziario. Il paese è sempre più “ostaggio dei crediti stranieri”, mentre nelle joint-ventures il capitale straniero può detenere la proprietà. Nel ’90, la legge sulla proprietà avvia la privatizzazione del patrimonio produttivo, e compare la disoccupazione. Intanto è autorizzata la nascita di banche private, che incidono “negativamente sull’economia sovietica”. Infine i prezzi continuano ad aumentare, e si diffonde il dollaro “come moneta corrente”: ne derivano la ‘dollarizzazione’ dell’economia e una “spirale iperinflazionistica”. Di fronte a tutto ciò, osserva Catone, occorre parlare non solo di “fallimento” delle riforme, ma anche dei loro “effetti perversi”. Si è trattato di una “rottura ingovernata del precedente meccanismo di pianificazione”, per cui, pur essendo l’economia sovietica già in difficoltà, la crisi che ha messo in ginocchio l’URSS è la diretta conseguenza della perestrojka. “È così che si fa strada l’idea di ‘passare al mercato’”[150]. Scrive Daniels:
In economia, Gorbacëv ha cercato di riformare troppo e troppo in fretta, mettendo fine al controllo centralizzato invece di fare in modo che operasse in modo più razionale [...]. È stato molto irrealistico prendere a modello il mercato capitalistico ed è stato anche anacronistico cercare di abolire il meccanismo di centralizzazione, che riflette invece lo spirito di fondo dell’economia moderna [...][151].
L’altro elemento decisivo del fallimento della perestrojka sta nelle riforme politiche e istituzionali, e dunque nella disgregazione del PCUS e dello Stato sovietico. Anche la riforma politica ha avuto due fasi: la prima (1986-88) ha l’obiettivo di “democratizzare il Partito” e lo Stato, mentre la seconda (1988-91) mira a una “riforma complessiva delle istituzioni”, col “passaggio di consegne dal Partito allo Stato”. La società sovietica viene mobilitata “contro il Partito”: si incoraggiano “associazioni informali” e ‘fronti popolari di appoggio alla perestrojka’. Alla XIX Conferenza, Gorbaciov propone il “trasferimento dell’attività legislativa dal Partito allo Stato”. I Dipartimenti del CC, sua struttura portante, sono dimezzati, mentre Segreteria e Politburo vengono riuniti sempre più di rado; tutto ciò indebolisce il Partito, che giunge alle elezioni per il Congresso dei deputati del popolo in difficoltà, subendo gravi insuccessi. “Il trionfo del parlamentarismo e la contemporanea crisi del Partito sconvolgono l’intera struttura d’autorità del potere sovietico”; “viene a mancare al centro un organo capace di prendere decisioni [...] nei momenti di crisi”, i quali non mancano. Gorbaciov allora propone l’abrogazione dell’art. 6 della Costituzione, ossia l’abbandono del monopartitismo[152]. R. di Leo ha parlato di battaglia ‘anti-partito’ e “iniziative ‘suicide’”: Gorbaciov “riconobbe che il partito era il sistema. Se voleva cambiare il sistema [...] lo doveva spogliare delle sue prerogative [...]”. Con l’abolizione dei Dipartimenti, “il partito fu messo [...] fuori dalle stanze del potere”. Venne così a cadere anche l’altro pilastro (oltre al piano) che reggeva il sistema. Nei mesi successivi, la maggior parte dei dirigenti economici “non obbediva più a nessuno”: alla perdita di potere del Partito infatti non era corrisposto un rafforzamento delle strutture statali, ma al contrario la totale perdita di autorità e credibilità di queste ultime. Ne derivò uno “stato di ingovernabilità e di degrado dell’economia”[153]. “Liquidare il monopolio di potere del PCUS” era stato come “eliminare il monopolio dell’encefalo nel sistema nervoso”. I destini del PCUS e dell’URSS erano intrecciati, e “il crollo dell’uno è diventato inevitabilmente il crollo dell’altro”[154].
La terza conseguenza della perestrojka fu lo sgretolamento del “blocco” sovietico. Il crescente disimpegno sovietico nell’est europeo produsse una forte instabilità politica, a partire dai paesi dove più decisi erano stati i passi verso il mercato. Si innescò così un “effetto-linkage”, che dall’“anello debole” (la Polonia) si propagò agli altri Stati, e infine all’URSS. Gorbaciov e Shevarnadze favorirono lo smantellamento del blocco socialista senza chiedere “un analogo provvedimento da parte della NATO”, anzi accettando che la Germania unita facesse parte dell’Alleanza atlantica[155]. Fu insomma “una ritirata unilaterale”, che peraltro “incoraggiò” le repubbliche baltiche separatiste, per cui c’è una relazione diretta tra crollo del Muro di Berlino e crollo dell’Unione Sovietica[156]. Si evidenziò inoltre una subalternità all’Occidente: per Brzezinski, nell’unificazione della Germania, Gorbaciov fu “manipolato” da Bush e Kohl[157]. Nel campo degli armamenti, accettò l’“opzione zero” proposta da Reagan, “una posizione negoziale talmente favorevole agli Stati Uniti da essere considerata [...] propagandistica”[158]. Ma la subalternità si avvertì pure in politica interna, e in particolare nella richiesta di quei crediti occidentali che condizionarono fortemente il processo di riforma. In questo senso, politica estera e interna della perestrojka sono due facce della stessa medaglia, accomunate dall’accantonamento di una visione antagonistica della situazione mondiale in favore dell’illusione dell’“interdipendenza” e degli “aiuti” occidentali[159]. Anche sul piano ideologico e politico, gli USA divennero un “punto di riferimento”. Avvenne cioè non una “convergenza”, ma la “conversione di un sistema nell’altro”[160].
Nel 1990-91, si delineò infine una subalternità a Eltsin e ai “democratici”, con cui Gorbaciov iniziò a collaborare per ‘accelerare la transizione’ al mercato[161]. Inoltre, negli incontri per il nuovo Trattato dell’Unione, Gorbaciov “accolse la richiesta di Eltsin” di includervi l’“ingresso diretto degli introiti tributari nel bilancio delle repubbliche”, accettando anche “di mettere sotto la giurisdizione della Russia tutte le imprese [...] sul suo territorio”. “Si tratta in sostanza del trasferimento del potere economico” dall’URSS alla Russia[162]. Così Gorbaciov ricostruisce il dialogo con Major poco prima dello scioglimento dell’Unione Sovietica: “Diamo appoggio a Eltsin, [...] dato che la cosa ci riguarda tutti [...]. Eltsin punta con determinazione sull’economia mista, sull’iniziativa e la creazione del mercato [...]. ‘Per me è chiarissimo’ rispose Major”[163]. L’esito della perestrojka è stato dunque il riassorbimento dell’URSS nel sistema capitalistico. Secondo Catone, tutta la sua seconda fase va verso la cancellazione dell’“anomalia” sovietica e l’“integrazione nel mercato capitalistico mondiale” in posizione subalterna[164]. In tal senso, il gorbaciovismo ha contribuito a segnare la fine di una fase storica, lasciando libero il campo a mondializzazione capitalistica e “Pensiero unico”.
- Il problema delle nazionalità e l’esplosione dei nazionalismi
Altro elemento determinante nel crollo dell’URSS è l’esplosione delle nazionalità, che ha reso il processo di disgregazione capillare e incontrollabile. Anche il problema delle nazionalità è figlio di una realizzazione, ossia della loro costruzione durante il periodo sovietico. Già nei primi anni post-rivoluzionari, furono codificate almeno 70 lingue, cosicché a vari popoli fu dato un idioma scritto che non avevano[165]. Inoltre si garantì “tutta l’autonomia locale che le nazioni stesse erano in grado di sostenere”, mentre “una politica economica diretta all’industrializzazione di zone sempre più vaste andava preparando le condizioni d’una più concreta uguaglianza futura”. Si ebbe così “l’edificazione nazionale, e [...] la formazione di un’identità etnica” per molti popoli, ed emersero “in ogni repubblica le precondizioni per un’esistenza indipendente”[166].
L’URSS era “uno dei Paesi più multinazionali e polietnici del mondo”[167]. Le varie “unità territoriali” prendevano il nome dal popolo ivi presente in misura più numerosa (la nazionalità “titolare”). Su circa 120 nazionalità, però, solo 46 erano “titolari” di qualche territorio; inoltre, gli appartenenti alle varie etnie non vivevano tutti nel “proprio” territorio, per cui circa il 25% della popolazione era nella condizione di nazionalità non titolare[168]. C’era una differenza di diritti tra nazionalità titolari e non titolari: le prime avevano un trattamento privilegiato nell’uso della lingua materna, e nell’“accesso all’istruzione superiore, alle professioni e alle posizioni manageriali e amministrative”, regolamentato da un sistema di “quote”, il che suscitava il malcontento di minoranze e “popoli senza territorio”[169]. Un altro problema stava nelle differenze di livelli di sviluppo tra le varie repubbliche. I notevoli risultati conseguiti dal potere sovietico le attenuarono fortemente, ma non le eliminarono[170]. Si attuò una modernizzazione su vasta scala, trainata dalle nazionalità più avanzate, e innanzitutto dai russi; ma questo aprì la questione della “russificazione” delle nazionalità. In realtà, occorrerebbe parlare di status privilegiato dei russi nell’economia e nella politica, oltre che nell’uso della lingua. Quanto ai rapporti economici tra le repubbliche, vari autori parlano di un “colonialismo interno”; ma di fatto “le repubbliche non russe [...] beneficiavano di risorse economiche [...], investimenti, prodotti industriali”, operai specializzati russi: si trattava cioè di uno “strano impero”, in cui le risorse andavano “dal centro alla periferia”[171].
Altro aspetto della questione delle nazionalità fu lo sviluppo dei localismi e dei particolarismi, connessi a loro volta al “mutamento dei rapporti di forza fra centro e periferia intervenuto [...] negli anni di Breznev”, per cui l’URSS aveva cominciato a dividersi in “mille e mille ‘feudi’” ciascuno dei quali “sottoposto alle sue autorità locali” più che al potere centrale. Il consolidamento delle élites locali, legate al potere politico e all’economia parallela, fu un fattore “non trascurabile” della ripresa nazionalistica[172]. Storicamente queste élites si formarono a partire dai membri della nazionalità titolare che conoscevano il russo e fungevano da elemento di mediazione. Ne derivò un “nazionalismo [...] della ‘élite’ burocratica locale, in alleanza con i caporioni dell’‘economia sommersa’”, che usava la difesa degli interessi locali “per esercitare una pressione sul centro al fine di ricevere risorse” e “privilegi”[173]. Si ebbe così uno sviluppo di etnocentrismi e nazionalismi di varia specie. I leaders delle repubbliche non russe puntarono sulla “valorizzazione del sentimento, della storia, [...] dei costumi” dell’etnia titolare, per allargare la propria base di consenso. D’altra parte, rinasceva un nazionalismo russo, slavofilo o occidentalista[174]. Alla fine degli anni ’60 compaiono le prime agitazioni nazionalistiche in Uzbekistan, Tagikistan, Estonia, ecc.[175].
Dunque vari problemi erano già presenti prima di Gorbaciov, ma non si erano manifestati in quella esplosione dei nazionalismi che invece caratterizzò la perestrojka, allorché la “tensione generale” “polarizz[ò] il sentimento popolare lungo linee etniche”. Fattore scatenante fu la sopraggiunta crisi economica, e la conseguente riduzione delle risorse disponibili[176]. In particolare nelle repubbliche più arretrate, si aprì una “competizione tra i diversi gruppi nazionali destinata a degenerare in esplosiva rivalità”[177]. D’altra parte, la lotta per il controllo delle risorse si svolse anche tra centro e repubbliche, attraverso la maggiore autonomia che queste reclamavano – e ottenevano – in campo fiscale ecc. La recriminazione per la quota di reddito nazionale “sottratta” dallo Stato divenne un luogo comune dei nazionalismi, a partire dal “nazionalismo russo antisovietico”[178]. Nel caso delle repubbliche più ricche – quelle baltiche in primis –, le istanze separatistiche furono dunque frutto di spinte egoistiche più che di una “oppressione” da parte dello Stato centrale. Il nazionalismo era funzionale ad una transizione all’economia di mercato ritenuta possibile solo per le zone più avanzate. In questo senso, “il separatismo e la transizione al mercato sono strettamente legati”[179]. L’autofinanziamento delle repubbliche, poi, fu dirompente, spingendole “al particolarismo” e all’isolamento, e contribuendo alla disarticolazione del sistema economico[180]. Nel ’90 arrivano le dichiarazioni di sovranità di repubbliche baltiche e Georgia, cui segue la Russia, e poi altre nove repubbliche. Per mesi si combatte una ‘guerra di leggi’ tra governo sovietico e repubbliche (che insistono sul controllo di tasse e risorse), che logora ulteriormente il potere centrale[181]. I mancati versamenti fiscali provocano un enorme deficit del bilancio, e le banche di Stato sono “sull’orlo della paralisi per la perdita di controllo sulle filiali”[182]. Tuttavia a marzo un referendum che chiede di tenere in vita un’Unione riformata, pur col rifiuto a parteciparvi di repubbliche baltiche, Georgia e Moldavia, registra un grande successo del sì (76.4%), che permette di avviare i negoziati per un nuovo Trattato dell’Unione[183]. Ma Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazachstan stanno già lavorando alla creazione della Confederazione di Stati indipendenti.
- Il ruolo di Eltsin e dei “democratici”
Veniamo infine al ruolo dei radicali e al “fattore Eltsin”. Eltsin “fu il solo nell’élite al potere a concepire l’idea radicale di staccare la Russia dall’Unione Sovietica”; “fu il primo a rendersi conto che le regole del gioco erano cambiate” a seguito dell’indebolimento del potere centrale, e “ad agire di conseguenza, provocando una rottura [...] irreversibile nell’equilibrio politico del paese”. Conquistatasi popolarità a buon mercato da segretario regionale con le denunce dei privilegi della nomenklatura cui apparteneva, Eltsin era stato chiamato a Mosca da Gorbaciov come segretario cittadino del PCUS[184]. Entrato in conflitto col Politburo, si dimise con uno scontro pubblico con Gorbaciov, che fu “il primo duro attacco al segretario”: pur presentandosi come il ‘kamikaze della perestrojka’, “quella che El’cin aveva abbozzato era già una piattaforma politica contrapposta” a quella gorbacioviana[185]. Eletto deputato dell’URSS ancora grazie a un approccio “apertamente populista”, e morto Sacharov, Eltsin rimase il leader dell’opposizione; nel ’90 fu eletto nel Parlamento russo e poi presidente del Soviet supremo russo. Fu l’inizio di un vero e proprio dualismo di poteri[186]. Dimessosi dal PCUS, cominciò la “guerra dei decreti” con lo Stato centrale, privandolo della giurisdizione sulla sua repubblica più importante. Eletto presidente della Repubblica russa, il “dualismo di poteri” compì un salto di qualità; la RSFSR prese ad agire come uno ‘Stato ombra’, “una sorta di azionista che controllava la quota di maggioranza dell’Unione” e la usava contro quest’ultima[187].
L’alleanza strategica con separatisti e nazionalisti fu l’arma vincente dei radicali russi, che strinsero “un’alleanza con le altre repubbliche per costringere il ‘centro’ a cedere”[188]. Il nesso tra separatismo e passaggio all’economia di mercato è il nucleo di tutta la loro azione. Come riconosce Zaslavsky, “Eltsin cerca[va] una strategia per sincronizzare la dissoluzione dell’Unione Sovietica con l’introduzione delle riforme di mercato nella Repubblica Russa”. Non a caso, fa votare la Dichiarazione sulla sovranità statale della RSFSR, collegandosi al movimento separatista baltico e stimolando dichiarazioni analoghe in altre repubbliche. In questo modo, la RSFSR veniva separata dal centro; per Hobsbawm, “nel trasformare la Russia in una repubblica come le altre, Eltsin favorì di fatto la disintegrazione dell’Unione [...]”[189]. All’inizio del ’91, Russia democratica e vari fronti nazionalisti costituiscono il blocco “Congresso democratico”, finalizzato allo ‘smantellamento’ dell’URSS, da sostituirsi con una nuova “Comunità di Stati”[190]. Eltsin aggiudica alla Russia anche il monopolio del commercio estero, privando lo Stato centrale di un altro strumento decisivo. Mentre partecipa ai negoziati per il Trattato dell’Unione, continua a promuovere accordi separati tra le repubbliche[191].
Si giunse così al cosiddetto “golpe” dell’agosto 1991, che provoca il “definitivo sfaldamento” dell’Unione Sovietica[192]. Da esso infatti Eltsin e i suoi traggono un ottimo pretesto per portare fino in fondo la distruzione del PCUS e dell’URSS[193]. Tutto ciò a due giorni dalla prevista firma del nuovo Trattato dell’Unione. Il mantenimento di un “centro” autorevole aveva allarmato i radicali. “A quel punto – scrive il “democratico” Popov – il ‘processo’ richiedeva un intervento chirurgico radicale”; “i conservatori [...] cercarono di arrivare prima di noi”. Il che significa – osserva Chiesa – che “se i golpisti non avessero preso l’iniziativa ad agosto, i ‘democratici’ avrebbero fatto il loro golpe in autunno”[194]. Ciò che accadde in quei giorni è ancora poco chiaro. In sostanza, alcune tra le più alte cariche dello Stato intimano a Gorbaciov di proclamare lo stato d’emergenza, costituendosi in “Comitato per lo stato d’emergenza”[195]. Come evidenzia Catone, il Comitato insiste soprattutto sulla “salvaguardia dell’integrità territoriale [...] e dell’indipendenza economica dell’URSS”; cerca di “subordinare le repubbliche al centro mettendo fine alla ‘guerra delle leggi’”[196]. Quanto alla presunta reazione popolare, in realtà la risposta delle masse fu di “assoluta indifferenza”. La “difesa della Casa Bianca” fu “un’attività compiuta per pura forma”, in un’atmosfera tranquilla; “il popolo, almeno a Mosca, non c’era affatto”. C’erano invece i “nuovi ricchi”, “operatori di borsa, grossisti, agenti di cambio”: “i rappresentanti di quella criminale economia da tempo in azione”, che era il principale referente sociale dei radicali[197]. Il tentativo fallì. La passività delle masse e degli stessi apparati, l’indebolimento e la disarticolazione dello Stato favorirono i radicali. Secondo Romano, i membri del Comitato fallirono “proprio perché non fecero un ‘colpo di Stato’ [...]”. Avvenne invece il “colpo di Stato di Eltsin”, “che portò alla disgregazione dell’Unione Sovietica”[198]. “La fine del colpo segnò la fine del PCUS e dell’URSS. [...] Il governo russo prese de facto il controllo”. Il primo ministro russo Silaev assunse il comando dell’Unione e “ne seguì la tendenza ad abbinare le cariche ministeriali della Russia e dell’Urss”, sovrapponendo le prime alle seconde[199]. La distruzione del PCUS fu il primo effetto dei fatti di agosto. L’ultimo atto sarà infine realizzato nel dicembre del 1991, allorché con un altro colpo di mano si provvide allo scioglimento illegale dello Stato sovietico. Tutto ciò con il sostegno attivo e fra gli applausi dell’Occidente.
[1] V.I. Lenin, Sulla nostra rivoluzione. A proposito delle note di N. Sukhanov, in Id., Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress 1979, p. 588 (corsivi miei).
[2] Getzler, Ottobre 1917: il dibattito marxista sulla rivoluzione in Russia, in Storia del marxismo, Einaudi 1978-82, vol. 3*, pp. 46-47.
[3] Nel XVI secolo “l’Europa occidentale esportava già manufatti, mentre quella orientale esportava prodotti agricoli e materie prime”; a ciò va aggiunto l’oro americano che l’Europa occidentale usò “per pagare le proprie importazioni dall’Est e per colonizzarlo economicamente” (A.G. Frank, Il socialismo reale: cosa non ha funzionato, “Alternative”, 1995, n. 2, pp. 15-16).
[4] H.H. Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, Vangelista 1994, pp. 116-118, 128.
[5] M. Lewin, La Russia in una nuova era, Boringhieri 1988, pp. 39-40, 48-49, 56, 127 (corsivi miei).
[6] A. Catone, La parabola di un’idea: 1985-1990, in AA.VV., Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell’utopia, Dedalo 1994, p. 156.
[7] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli 1995, p. 577.
[8] Cfr. Class Societies: the Soviet Union and the United States. Two Interviews with P. Sweezy, “Monthly Review”, 1991-92, n. 7.
[9] Carr, La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi 1980, pp. 15-16, 19-20 e segg.; G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, l’Unità 1990, vol. 1, pp. 132-135, 225-230, 242-243.
[10] Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 438.
[11] G. Boffa, Dall’URSS alla Russia. Storia di una crisi non finita (1964-1994), Laterza 1995, pp. 79, 164.
[12] Janos, Social Science, Communism, and the Dynamics of political Change, “World Politics”, oct. 1991; V. Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, NIS 1995, p. 193; R. di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici. Chi comanda davvero nell’ex URSS?, Il Mulino 1992, pp. 19-20.
[13] È un giudizio di J. Berliner, citato in Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, cit., p. 204.
[14] G. Arrighi, World Income Inequalities and the Future of Socialism, “New Left Review”, 1991, n. 189.
[15] Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, cit., pp. 119-120.
[16] Hobsbawm, op. cit., p. 439 (corsivo mio).
[17] Cfr. S. Malle, Sistemi economici comparati, Giappichelli 1989, pp. 200-206.
[18] Janos, Social Science, Communism, and the Dynamics of political Change, cit. Cfr. A. Emmanuel, Lo scambio ineguale, Einaudi 1972.
[19] Cfr. Boffa, Dall’URSS alla Russia…, cit., pp. 78, 140; A. Peregalli, La parabola della Perestrojka, in P. Giussani, A. Peregalli, Il declino dell’URSS. Saggi sul collasso economico sovietico, Graphos 1991, p. 61.
[20] Frank, Il socialismo reale: cosa non ha funzionato, cit., pp. 20-21 (corsivi miei). Cfr. Hobsbawm, op. cit., pp. 490, 550.
[21] Nella creazione di joint-ventures con capitali occidentali, cominciò la Jugoslavia (1968), seguita da Romania, Ungheria, Polonia e infine URSS (1987); ma pure qui la penetrazione capitalistica durava da anni: nel ’75 a Mosca c’erano 17 rappresentanze finanziarie occidentali e varie società finanziarie “miste” (A. Aganbegjan, Il futuro dell’economia sovietica, Rizzoli 1989, p. 230; Peregalli, La parabola della Perestrojka, cit., pp. 65-66).
[22] Cfr. Frank, art. cit., pp. 17, 21-24.
[23] A. Catone, La transizione bloccata. Il “modo di produzione sovietico” e la dissoluzione dell’URSS, Laboratorio politico 1998, p. 212; Hobsbawm, op. cit., p. 296 (corsivo mio).
[24] Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, cit., vol. 1, p. 209.
[25] Cfr. M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, Editori Riuniti 1976; A. Nove, Storia economica dell’Unione Sovietica, Utet 1970.
[26] E. Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, “Alternative”, 1996, n. 5-6, pp. 39-41.
[27] Malle, Sistemi economici comparati, cit., pp. 136-139.
[28] M. Ruzzene, Governo e pianificazione della produzione sociale, “Alternative”, 1996, n. 5-6, pp. 105-111.
[29] Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., p. 86.
[30] Ch. Bettelheim, La specificità del capitalismo in URSS, “Alternative”, 1996 n. 5-6, in Ch. Bettelheim, P.M. Sweezy, Il socialismo irrealizzato, Editori Riuniti 1992, p. 108; Malle, op. cit., pp. 146-149.
[31] Cfr. L.J. Cook, The Soviet Social Contract and Why It Failed. Welfare Policy and Workers’ Politics from Brezhnev to Yeltsin, Harvard University Press 1993; AA.VV., Il compromesso sovietico, Feltrinelli 1977.
[32] W. Brus, citato in A. Natoli, Le radici di un’alienazione totale, “il bimestrale”, suppl. a “il manifesto”, 29 marzo 1989, p. 59.
[33] Malle, op. cit., pp. 166-167, 172-178, 186; R. di Leo, Il modello di Stalin. Il rapporto politica-economia nel socialismo realizzato, Feltrinelli 1977, p. 63.
[34] Malle, op. cit., pp. 193-195; Aganbegjan, Il futuro dell’economia sovietica, cit., pp. 36-38, 49-50.
[35] Giussani, La crisi dell’economia sovietica e le sue prospettive, in Giussani-Peregalli, Il declino dell’URSS…, cit., pp. 26-27; Catone, La transizione bloccata…, cit., p. 231.
[36] N. Ruzavaeva, La politica economica dagli anni Sessanta alla prima metà degli anni Ottanta: contraddizioni e difficoltà dello sviluppo, in AA.VV., Problemi di storia russa e sovietica, Edizioni Progress 1991, pp. 204-205; M. Lavigne, The Economics of Transition. From Socialist Economy to Market Economy, Macmillan 1995, p. 6.
[37] A. Nove, Stalinismo e antistalinismo nell’economia sovietica, Einaudi 1968, pp. 111-115, 120-122.
[38] R. di Leo, L’economia sovietica tra crisi e riforme (1965-1982), Liguori 1983, pp. 17, 31-39, 50-51; Catone, op. cit., p. 165; G.M. Ellman, V. Kontorovich, Overview, in AA.VV., in AA.VV., The disintegration of the Soviet economic system, Routledge 1992, p. 14.
[39] Cfr. G. Grossman, The second Economy of the USSR, “Problems of Communism”, sept.-oct. 1977.
[40] Cfr. Mao Tse-tung, Note di lettura sul “Manuale di economia politica dell’Unione Sovietica”, cit., pp. 53-54.
[41] Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, cit., pp. 38-39 (corsivo mio).
[42] P.M. Sweezy, Risposta a Charles Bettelheim [1969], in Sweezy-Bettelheim, Il socialismo irrealizzato, cit., pp. 29-30.
[43] Cfr. di Leo, Il modello di Stalin…, cit., cap. 5 e Conclusioni; Boffa, Storia…, cit., vol. 4, pp. 373-374.
[44] Bettelheim, La specificità del capitalismo in URSS, cit., p. 119.
[45] M. Buttino, General Introduction, in AA.VV., In a Collapsing Empire. Underdevelopement, Ethnic Conflicts and Nationalisms in the Soviet Union (a cura di M. Buttino), Annali Feltrinelli 1992, pp. XVII-XVIII.
[46] di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici…, cit., pp. 49, 56-60; Il modello di Stalin…, cit., pp. 92, 137.
[47] I. Szelenyi, Verso un capitalismo manageriale?, “Lettera internazionale”, 1996, n. 48, p. 22.
[48] Cfr. A. Natoli, La fine del modello staliniano, “Marx 101”, febbraio 1991, p. 66; Le radici di un’alienazione totale, cit., p. 59.
[49] A. Guerra, Il crollo dell’impero sovietico, Editori Riuniti 1996, pp. 177-179; Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., p. 86.
[50] Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, cit., p. 43.
[51] K.S. Karol, Un conflitto occulto, in AA.VV., Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri 1995, p. 269.
[52] Lavigne, The Economics of Transition, cit., pp. 9-10; Peregalli, La parabola…, cit., pp. 73-76. Corsivi miei.
[53] Cfr. L. Canfora, Una tragedia consumata all’ombra della violenza, “il manifesto”, 3 marzo 1998; D. Losurdo, Una rivoluzione nell’angolo, ibidem; A. Burgio, Tutti sull’attenti, “Liberazione”, 3 marzo 1998.
[54] R. Rossanda, Un secolo al rogo, “il manifesto”, 25 febbraio 1998.
[55] D. Losurdo, Utopia e stato d’eccezione, Laboratorio politico 1996, pp. 5-7, 75-76; U. Cerroni, L’alterazione del progetto rivoluzionario: marxismo, leninismo, stalinismo, in AA.VV., Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell’utopia, cit., pp. 87-90.
[56] Cfr. G. Boffa, Il fenomeno Stalin nella storia del XX secolo, Laterza 1982; M. Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi 1988; AA.VV., L’età dello stalinismo (a cura di A. Natoli e S. Pons), Editori Riuniti 1991.
[57] F. Benvenuti, Rivoluzione e comunismo sovietico nella prospettiva storica della fine: 1991-1917, in AA.VV., Crollo del comunismo sovietico…, cit., pp. 33-34.
[58] M. Lewin, Bureaucracy and the Stalinist State, in AA.VV., Germany and Russia in the 20th Century in Comparative Perspective, Philadelphia 1991; Hobsbawm, op. cit., p. 449; Boffa, Storia…, cit., vol. 2, p. 196.
[59] Boffa, Storia…, cit., vol. 2, p. 111.
[60] Nove, Stalinismo e antistalinismo nell’economia sovietica, cit., p. 37. Cfr. anche Hobsbawm, op. cit., pp. 445-447.
[61] Benvenuti, Rivoluzione e comunismo…, cit., p. 33; Boffa, Storia…, cit., vol. 1, pp. 165-171, 200. Cfr. G. Procacci, Il partito nell’Unione Sovietica, 1917-1945, Bari 1974.
[62] Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, cit., pp. 124-125.
[63] M. Massari, La grande svolta. La riforma politica in Urss (1986-1990), Guida 1990, pp. 31, 39; Lewin, La Russia in una nuova era, cit., pp. 63, 116; di Leo, Il modello…, cit., pp. 132-133; Boffa, Dall’URSS…, cit., p. 135.
[64] Cfr. Losurdo, Utopia e stato d’eccezione, cit., pp. 35-36; Lewin, La Russia in una nuova era, cit., pp. 115-116, 127.
[65] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Feltrinelli 1968, pp. 84-94, 150-151. Cfr. L. Cortesi, Il comunismo inedito. Lenin e il problema dello Stato, Edizioni Punto Rosso 1996, pp. 57-59.
[66] Cfr. V.I. Lenin, Lettera al congresso e ultimi scritti, Editori Riuniti 1974.
[67] Natoli, Le radici…, cit., pp. 58-60; A. Catone, Stato e democrazia al crepuscolo dell’URSS, “Alternative”, 1996 n. 5-6 , pp. 66-68.
[68] Lenin, Stato e rivoluzione, cit., pp. 92-93, 150-151.
[69] V.I. Lenin, Meglio meno, ma meglio, in Sulla rivoluzione socialista, cit., pp. 596-597, 604.
[70] Cfr. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, cit., vol. 2, pp. 111, 158-159, 251-257.
[71] Cfr. di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici, cit., pp. 46, 50.
[72] Nel 1980 esce il libro di M. Voslensky sulla Nomenklatura (Bompiani, 1984), definita “la classe dirigente della società sovietica”, non identificabile con gli apparati tout court, ma con la loro parte dirigente.
[73] Cfr. L’occhio sociologico dell’irrispettosa Zaslavskaja sulle classi sociali nell’Urss, “il bimestrale”, 1989, n. 2, p. 56.
[74] Da questo punto di vista, esce confermata la concezione marxiana secondo cui una società egualitaria può nascere solo sulla base dell’abbondanza, ossia del massimo sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
[75] Cfr. Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 92-93.
[76] C. Pinzani, Da Roosevelt a Gorbaciov, Ponte alle Grazie 1992, p. 539; Holz, op. cit., p. 125.
[77] Cfr. Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, cit., pp. 205-206.
[78] Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 138-139. Nel 1980 l’età media del Politbjuro superava i 70 anni.
[79] L. Maitan, La crisi attuale, in AA.VV., Crollo del comunismo sovietico…, cit., p. 257; Mandel, La natura sociale…, cit., p. 41.
[80] L. Maitan, Dall’Urss alla Russia. 1917-1995, la transizione rovesciata, Datanews 1996, pp. 30-31; M. Flores, Senza il socialismo in un paese solo, “Il Mulino”, 1991 n. 4, p. 573.
[81] S. Fagiolo, I gruppi di pressione in Urss, Laterza 1977. Cfr. AA.VV., Interest Groups in Soviet Politics, Princeton 1971.
[82] Cfr. di Leo, Il modello di Stalin, cit., pp. 86, 119-121; Id., Vecchi quadri e nuovi politici, cit., pp. 57-59.
[83] Cfr. R. di Leo, Il Pcus dal potere all’ostracismo, in AA.VV., Come cambiano i partiti, cit., pp. 86-93; Id., La seconda NEP, in AA.VV., Riformismo o comunismo: il caso dell’URSS, a cura di R. di Leo, Liguori 1993, pp. 249-252.
[84] Cfr. Guerra, Il crollo dell’impero sovietico, cit., pp. 138, 198-199.
[85] Cfr. Buttino, General Introduction, cit., pp. XIX, XXII-XXVII; M. Buttino, Introduction, ivi, p. 253.
[86] di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici, cit., pp. 50-54; Id., Rex destruens, in AA.VV., Riformismo o comunismo…, cit., pp. 25-26.
[87] Catone, op. cit., p. 268.
[88] Zaslavsky, Storia del sistema…, cit., pp. 265, 269; Id., Per decifrare l’enigma russo, “Lettera Internazionale”, 1996, n. 48, p. 16.
[89] Moscato, Il fallimento dei tentativi di autoriforma, in AA.VV., Crollo del comunismo sovietico…, cit., p. 238 n.
[90] Cfr. G. Alperovitz, Un asso nella manica. La diplomazia americana: Postdam e Hiroshima, Einaudi 1966; Id., The Decision to Use the Atomic Bomb and the Architecture of an American Myth, Knopf 1995; L. Cortesi, La guerra e il destino dell’uomo: la svolta del 1945, in Id., Le armi della critica. Guerra e rivoluzione pacifista, CUEN 1991; R. Fieschi, Hiroshima, in 1945 anno zero - 2. La guerra, “Giano”, 1995, n. 19.
[91] X [G.F. Kennan], The Sources of Soviet Conduct, “Foreign Affairs”, luglio 1947.
[92] S. Amin, Il sistema mondiale del secondo novecento. Un itinerario intellettuale, Punto Rosso 1997, pp. 202-204.
[93] A. Zinov’ev, La caduta dell'"impero del male": saggio sulla tragedia della Russia, Bollati Boringhieri 1994, pp. 66-67.
[94] Hobsbawm, op. cit., pp. 290, 296.
[95] Cfr. A. Guerra, Le mosse di una “fortezza assediata”, in AA.VV., Se vince Gorbaciov, l’Unità 1987, pp. 35-37.
[96] Amin, Il sistema mondiale del secondo novecento…, cit., p. 205; Pinzani, Da Roosevelt a Gorbaciov, cit., pp. 306-308, 327.
[97] Cfr. Hobsbawm, op. cit., p. 557; Boffa, Storia…, cit., vol. 4, p. 380; Id., Dall’URSS alla Russia, cit., p. 156.
[98] Cfr. Brzezinski, The Cold War and Its Aftermath, “Foreign Affairs”, 1992 n. 4; Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, cit., p. 232; G.P. Shultz, Turmoil and Triumph. My Years as Secretary of State, New York 1993, p. 1093.
[99] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti 1989, pp. 20, 674-675; Bettelheim, La specificità…, cit., p. 113.
[100] A. Zinov’ev, op. cit., p. 67; Holz, op. cit., p. 47.
[101] Per Sweezy (Socialism: Legacy and Renewal, “Monthly Review”, 1992-93, n. 8), la guerra fredda fu basata sulla “produzione di spreco”, su “quale campo potesse continuare a produrre spreco più a lungo dell’altro”, e su questo “non ci fu mai alcun dubbio su chi avrebbe vinto”, poiché l’Occidente controllava “una parte molto maggiore delle risorse mondiali”; inoltre, nel capitalismo “la produzione di spreco finanziata pubblicamente sotto forma di armi di distruzione fa funzionare il sistema in modo più efficiente”, mentre per una società che mira al socialismo “la necessità di impegnarsi in una corsa agli armamenti produttrice di spreco è totalmente negativa e alla fine disastrosa”.
[102] Pinzani, op. cit., pp. 256, 382, 397-398, 441, 475-476, 528, 536; R.W. Davies, Il collasso del sistema economico sovietico, “Il Passaggio”, 1992, n. 3, pp. 6-7.
[103] Cfr. Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 48, 77, 91, 150-153, 173, 184-185, 195-196, 201-202, 240, 260.
[104] Cfr. Losurdo, op. cit., pp. 66-70, 75.
[105] Cfr. L. Canfora, Pensare la rivoluzione russa, Teti 1995, pp. 50-54; A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca, Laterza 1993, pp. 350-353, 365-370; F. Colombo, Senza Wojtyla, niente perestrojka, “Europeo”, 13-31 marzo 1990, p. 146.
[106] Giussani, La crisi dell’economia sovietica e le sue prospettive, cit., pp. 22-27, 32; Catone, Le ‘teorie critiche’ al vaglio degli eventi sovietici, “Questioni del socialismo”, 1992, n. 2, p. 43.
[107] Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 75-76.
[108] Davies, Il collasso del sistema economico sovietico, cit., p. 6; Losurdo, op. cit., p. 73; Zinov’ev, op. cit., pp. 54-57.
[109] Cfr. Ellman-Kontorovich, Overview, cit., pp. 8-10, 14; V. Kontorovich, Technological progress and research and development, ivi, pp. 217-218; G. Khanin, Economic growth in the 1980s, ivi, p. 77; J. Levada, Social and moral aspects of the crisis, ivi, p. 60.
[110] Catone, op. cit., pp. 232, 261-262. Cfr. Cook, The Soviet Social Contract and Why It Failed…, cit.
[111] Bettelheim, La specificità del capitalismo…, cit., pp. 116-118.
[112] B. Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti 1995, p. 232.
[113] Maitan, Dall’Urss alla Russia, cit., p. 40; Lewin, La Russia in una nuova era, cit., p. 102.
[114] Guerra, Il crollo dell’impero sovietico, cit., p. 181 (corsivi miei).
[115] E. Ligaciov, L’enigma Gorbaciov, Napoleone 1993, p. 18.
[116] Natoli, La fine del modello staliniano, cit., pp. 65-67.
[117] Hobsbawm, op. cit., pp. 550-552.
[118] Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., p. 96.
[119] Bongiovanni, La caduta dei comunismi, cit., p. 38; A. Moscato, Gorbaciov. Le ambiguità della perestrojka, Erre Elle 1990, p. 75.
[120] Losurdo, op. cit., pp. 77-78. Cfr. Holz, op. cit., pp. 89-92, 126-129.
[121] Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 93-94.
[122] Ch. Bettelheim, Risposta a Paul Sweezy, in Bettelheim-Sweezy, op. cit., pp. 66, 70, 77, 80.
[123] Cfr. di Leo, Il modello di Stalin, cit., pp. 65, 72; Id., Vecchi quadri e nuovi politici, cit., pp. 58, 60.
[124] Guerra, op. cit., p. 145; Zinov’ev, op. cit., p. 76.
[125] Cfr. Natoli, Le radici di un’alienazione totale, cit., pp. 59-60; Id., La fine del modello staliniano, cit., pp. 66-67.
[126] Cfr. Zaslavsky, Storia del sistema sovietico, cit., p. 182.
[127] Rossanda, È finita un’epoca, la storia continua, cit., p. 42; Ellman-Kontorovich, Overview, cit., p. 11 (corsivo mio).
[128] Davies, Il collasso del sistema economico sovietico, cit., p. 8.
[129] Cfr. Boffa, Storia…, cit., vol. 2, pp. 61, 289; vol. 3, pp. 56, 291; Id., Componente nazionale e componente socialista nella rivoluzione russa e nella esperienza sovietica, in AA.VV., Momenti e problemi della storia dell’URSS, cit.
[130] Guerra, op. cit., p. 151; Dragadze, Economics and Nationalism in the Gorbachev Years, in AA.VV., In a Collapsing Empire…, cit., p. 78.
[131] Ch. Urjewicz, Introduction, in AA.VV., In a Collapsing Empire, cit., p. 6.
[132] P.M. Sweezy, Dittatura del proletariato, classi sociali e ideologia, in Bettelheim-Sweezy, op. cit, p. 57.
[133] Holz, op. cit., pp. 46-47, 95.
[134] Cfr. Zinov’ev, op. cit., pp. 72-73; Catone, La parabola di un’idea…, cit., pp. 165-169.
[135] Cfr. di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici, cit., p. 90.
[136] Moscato, Gorbaciov, cit., p. 156; M. Pivetti, Qualche idea in più sulla crisi del sistema sovietico, “Il Passaggio”, 1991, n. 1, p. 43.
[137] R.W. Davies, Storia e politica nella “perestrojka”: l’attacco a Lenin e alla rivoluzione d’Ottobre, “Studi storici”, 1991, n. 2, pp. 258, 273. Nonostante ciò, alla fine del 1990 un sondaggio rivelava che, di fronte ad una nuova rivoluzione d’Ottobre, il 43% degli intervistati avrebbe sostenuto i bolscevichi e solo il 6% si sarebbe loro opposto; in un altro sondaggio, il 59% dava una valutazione “completamente positiva” di Lenin e il 76% si diceva a favore delle sue azioni (S. White, Gorbachev and after, Cambridge University Press 1991, p. 240).
[138] A. Catone, Fine del Pcus, fine del comunismo?, “A sinistra”, 1991, n. 5, p. 58; Zinov’ev, op. cit., p. 73, 76.
[139] Zinov’ev, op. cit., p. 194.
[140] P.V. Danilov, Genesi e dissoluzione del sistema sovietico, “Il Passaggio”, 1992, n. 3, pp. 14, 19 (corsivo mio); Id., Intervento al convegno “Unione Sovietica, era riformabile il sistema?”, ivi, 1992, n. 4-5, p. 61.
[141] di Leo, Rex destruens, cit., p. 19; R. Medvevev, Politics after the Coup, “New Left Review”, 1991, n. 189.
[142] Catone, Le ‘teorie critiche’ al vaglio degli eventi…, cit., p. 55. Cfr. di Leo, Rex destruens, p. 10.
[143] Cfr. Catone, La parabola di un’idea: 1985-1990, cit., pp. 194, 155-164; op. cit., pp. 232-237; 1985-1991. Come si distrugge del tutto il socialismo: le basi borghesi della perestroika gorbacioviana, in AA.VV., '89, la lente di Marx, [Roma 1991], pp. 14-19.
[144] R. di Leo, La svolta socialdemocratica di Gorbaciov, “A sinistra”, 1992, n. 5, pp. 27-28; Vecchi quadri e nuovi politici, cit., p. 100.
[145] “Nel 1985 ero ancora sicuro che questo sistema potesse essere migliorato, ma poi [...] mi sono finalmente convinto che [...] le riforme non sarebbero potute partire se non si smantellava [...] tutto il sistema” (M.S. Gorbaciov, Dicembre 1991. la fine dell’URSS vista dal suo presidente, Ponte alle Grazie 1992, p. 150).
[146] Su questa posizione è sicuramente Boffa (Dall’URSS alla Russia, cit., p. 176 e passim).
[147] Ellman-Kontorovich, Overview, cit., p. 7.
[148] Catone, Fine del Pcus, fine del comunismo?, cit., p. 56. Cfr. E. Teague, I lavoratori sovietici di fronte alle riforme, in AA.VV., Riformismo o comunismo…, p. 109; L.J. Cook, Brezhnev’s “Social Contract” and Gorbachev’s Reforms, “Soviet Studies”, 1992, n. 1.
[149] M. Lewin, Gorbacëv e l’essenza della perestrojka, “Il Passaggio”, 1991 n. 4-5, p. 10; Medvevev, Politics after the Coup, cit.; Bongiovanni, op. cit., pp. 164-167.
[150] Catone, 1985-1991. Come si distrugge del tutto il socialismo…, cit., pp. 9-16; La crisi dell’economia sovietica, “Marx 101”, febbraio 1991, pp. 68-72 (corsivi miei); op. cit., pp. 234-237, 194.
[151] R.V. Daniels, “Federalismo o barbarie”. Conversazione sulla dissoluzione dell’Unione Sovietica, “Il Passaggio”, 1992, n. 4-5, p. 62.
[152] Massari, La grande svolta, cit., pp. 24-25, 73-75, 81-83, 92-102, 114, 117, 123-128.
[153] Cfr. di Leo, La seconda NEP, cit., p. 250; Vecchi quadri e nuovi politici, cit., pp. 82-83, 100, 132-135; Il Pcus dal potere all’ostracismo, pp. 84-86; La svolta socialdemocratica di Gorbaciov, pp. 27-28.
[154] Zinov’ev, op. cit., p. 35; Guerra, op. cit., p. 202; Id., Intervento al convegno “Unione Sovietica, era riformabile il sistema?”, “Il Passaggio”, 1992, n. 4-5, p. 51.
[155] Lavigne, op. cit., pp. 96 e sgg.; F. Argentieri, Postscriptum, in AA.VV., La fine del blocco sovietico, Ponte alle Grazie 1991, pp. 226-233.
[156] L. Cortesi, Le ragioni del comunismo, Teti 1991, p. 140; T.G. Ash, Le rovine dell’impero. Europa centrale 1980-1990, Mondadori 1992, pp. 232, 374, 409.
[157] Cfr. Boffa, Dall’URSS…, cit., p. 252; Brzezinski, The Cold War and Its Aftermath, cit.
[158] Pinzani, op. cit., pp. 445-446. L’opzione zero prevedeva la rinuncia americana ai Pershing 2 e lo smantellamento dei missili sovietici SS20, SS4, SS5, e dunque il mantenimento di una forte superiorità degli armamenti USA.
[159] Cfr. Massari, op. cit., p. 164; Janos, Social Science, Communism, and the Dynamics of political Change, cit.; F. Bettanin, La disgregazione dell’Unione Sovietica, in AA.VV., Riformismo o comunismo…, cit., p. 213.
[160] P. Anderson, L’agosto di Mosca, “Le Nuvole”, 1992, n. 2, p. 20; Brzezinski, The cold war…, cit.
[161] Hill, Il dominio del partito in Unione Sovietica, in AA.VV., Come cambiano i partiti, Il Mulino 1992, p. 74; Massari, op. cit., p. 162.
[162] A.I. Lukianov, Il golpe immaginario. Da Gorbaciov a Eltsin: la congiura, Napoleone 1994, pp. 59-60; Catone, op. cit., p. 354.
[163] Gorbaciov, Dicembre 1991…, cit., p. 114 (corsivi miei).
[164] Cfr. Catone, Stato e democrazia…, p. 67; 1985-1991. Come si distrugge…, cit., pp. 17-19.
[165] J. Bromlej, I problemi nazionali in URSS, Edizioni Progress 1991, pp. 15-16; S. Salvi, La disUnione Sovietica. Guida alle nazioni della non Russia, Ponte alle Grazie 1990, p. 19.
[166] E.J. Carr, La rivoluzione bolscevica (1917-1923), Einaudi 1964, pp. 366-367; V. Zaslavsky, L’eredità della politica etnica sovietica, “Il Mulino”, 1991, n. 2, p. 272.
[167] Essa comprendeva più di 100 etnie, con “più di 130 lingue” diverse; il popolo più numeroso erano i Russi (137 milioni su 287). Dal punto di vista politico, esistevano 53 “unità territoriali nazionali”, divise in 4 livelli di sovranità: 15 repubbliche federate; al loro interno 20 repubbliche autonome, 8 regioni autonome, e 10 distretti nazionali.
[168] A.M. Salmin, Political Self-Determination of Nations and Nationalities in the USSR: from 1922 to Perestrojka, in AA.VV., In a Collapsing Empire, cit., pp. 46, 48; Bromlej, I problemi nazionali in URSS, cit., p. 22.
[169] A.B. Zubov, Distinctive Features of the Multinational Nature of the USSR and the Problem of the Political Representation of Nationalities, in In a Collapsing Empire, cit., pp. 58-59; Zaslavsky, L’eredità…, cit., p. 268-271; Id., Dopo l’Unione Sovietica. La perestrojka e il problema delle nazionalità, Il Mulino 1991, pp. 19-20, 27-28; La Russia senza soviet, Ideazione 1996, pp. 124, 127.
[170] Cfr. Bromlej, op. cit., pp. 129 e segg.; A. McAuley, The Central Asian economy in comparative perspective, in AA.VV., The disintegration of the Soviet system, cit., pp. 144-145; G. Bensi, Nazionalità in URSS. Le radici del conflitto, Xenia 1991, pp. 109-111.
[171] Cfr. Buttino, Introduction, cit., p. 252; Bensi, Nazionalità in URSS…, cit., pp. 111-112; R.G. Suny, Incomplete Revolution: National Movements and the Collapse of the Soviet Empire, “New Left Review”, 1991, n. 189
[172] Guerra, Il crollo…, cit., pp. 198-199 (corsivo mio); di Leo, Vecchi quadri…, cit., p. 52; Boffa, Dall’URSS…, cit., p. 129.
[173] Buttino, General Introduction, cit., pp. XXV-XXVII; Introduction, cit., pp. 252-253; Bromlej, op. cit., p. 96, 138.
[174] Cfr. Boffa, Dall’URSS…, cit., pp. 107-108, 124-125; M. Geller, A. Nekric, Storia dell'URSS dal 1917 a Eltsin, Bompiani 1984, pp. 764-765; Zaslavsky, Dopo l’Unione Sovietica, cit., pp. 84-85.
[175] Salvi, La disUnione Sovietica…, cit., pp. 174, 181-182, 192-193, 203, 216; Geller-Nekric, Storia dell’URSS, cit., pp. 764-765.
[176] Cfr. Salmin, Political Self-Determination…, cit., p. 48; Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 235, 288.
[177] M. Buttino, Dall’Unione Sovietica alla Comunità di stati indipendenti, “I viaggi di Erodono”, 1991, quaderno 4, pp. 114-115. Vedi il conflitto tra armeni e azeri per il Nagornyi Karabach.
[178] Peregalli, La parabola…, cit., p. 82; Boffa, Dall’URSS…, cit., pp. 235-236; Catone, op. cit., pp. 243-248, 350-356.
[179] Cfr. Zaslavsky, Dopo l’Unione Sovietica, cit., pp. 111-113 (corsivo mio). Non a caso, i programmi dei “Fronti popolari” baltici legavano prevedevano come basi del sistema economico la proprietà privata e il mercato, con la trasformazione di tutte le aziende statali e collettive in società per azioni (Bensi, op. cit., pp. 181, 185).
[180] Catone, op. cit., p. 242; La crisi dell’economia sovietica, cit., p. 73.
[181] Cfr. Salvi, op. cit., pp. 204; Suny, art. cit.; R. Pipes, The Soviet Union Adrift, “Foreign Affairs”, 1991, n. 1.
[182] Cfr. M. Mandelbaum, Coup del grace: the end of the Soviet Union, “Foreign Affairs”, 1992, n. 1.
[183] Cfr. Boffa, Dall’URSS…, cit., p. 295; Zaslavsky, Dopo l’Unione Sovietica, cit., pp. 123-127; A. Salmin, Tra vecchio e nuovo federalismo, in AA.VV., Riformismo o comunismo…, cit., pp. 202-204.
[184] V. Solovyov, E. Klepikova, Corvo bianco, Biografia di Boris Eltsin, Baldini&Castaldi 1992, pp. 32-33, 40.
[185] Ivi, pp. 70-73 e segg.; Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., pp. 211-214; Pinzani, op. cit., p. 543.
[186] Solovyov-Klepikova, Corvo bianco…, cit., pp. 103, 118-125, 130-133, 141-146, 205-208, 235-236; G. Popov, La svolta. Oltre la perestrojka, Ponte alle Grazie 1991, p. 12.
[187] Solovyov-Klepikova, op. cit., pp. 266, 280, 301-305; di Leo, Vecchi quadri…, cit., pp. 120-121; E. Melchionda, La chance del presidenzialismo, in AA.VV., Riformismo o comunismo…, cit., pp. 279-280; Salmin, Tra vecchio e nuovo federalismo, cit., pp. 199-200.
[188] G. Popov, Agosto 1991, Introduzione a G. Chiesa, Da Mosca. Cronaca di un colpo di Stato annunciato, Laterza 1993, p. 7.
[189] Zaslavsky, Dopo l’Unione Sovietica, cit., pp. 115-116; Hobsbawm, op. cit., p. 564.
[190] E. Melchionda, Il cammino della rappresentanza, in di Leo (a cura di), Vecchi quadri e nuovi politici, pp. 201-202; Lukianov, Il golpe immaginario…, cit., p. 52.
[191] Melchionda, La chance…, cit., p. 281; Zaslavsky, Dopo l’Unione…, cit., pp. 123, 126-127; Lukianov, op. cit., p. 52.
[192] M.L. Salvadori, La parabola del comunismo, Laterza 1995, p. 58; Ligaciov, L’enigma Gorbaciov, cit., p. 5.
[193] A. Catone, Radiografia del golpe, in AA.VV., ’89, la lente…, cit., p. 19; Il colpo c’è stato, “La contraddizione”, 1991, n. 26, p. 20.
[194] Popov, Agosto 1991, cit., pp. 8-9; G. Chiesa, Da Mosca. Cronaca di un colpo di Stato annunciato, cit., p. 90. Corsivi miei.
[195] Boffa, Dall’URSS…, cit., pp. 309-310; M.S. Gorbaciov, Il golpe di agosto. Che cosa è successo, che cosa ho imparato, Milano 1992, pp. 19-21; Lukianov, op. cit., pp. 21-22.
[196] Cfr. Catone, Radiografia del golpe, cit., pp. 21, 24-26; Il colpo c’è stato, cit., pp. 10, 13-15.
[197] F. Pellizzi, Tre giorni ad agosto. Cronaca di un golpe, “Il Mulino”, 1991, n. 5, pp. 791-798; Lukianov, op. cit., pp. 99-100.
[198] S. Romano, Riflessioni scettiche sulla quarta rivoluzione russa, “Il Mulino”, 1991, n. 5, pp. 803-804; Lukianov, op. cit., p. 5.
[199] Cfr. The End of an Empire, “Strategic Survey”, 1991-92; Popov, Agosto 1991, cit., p. 20.