Alessandra Ciattini

 

Ognuno di noi sa perfettamente che il principio fondante della società in cui viviamo è la competizione. La competizione tra individui, tra Stati, tra blocchi regionali, militari ed economico-politici, che – come si è visto – inevitabilmente sfocia in scontri armati, che oggi mettono a rischio la stessa sorte dell’umanità per il possibile impiego di armi sempre più distruttive e sofisticate. Ce lo ricorda costantemente la signora Von der Leyen che interpella l’esperto Draghi, il quale propone all’Europa progetti di innovazione tecnologica, soprattutto in campo militare, per competere in un mondo, il cui dominio è sempre più conteso.

Sembra che abbiamo bisogno di armi sempre più crudelmente raffinate, che uccidono e distruggono il più rapidamente possibile, quasi “alcuni” esseri umani fossero un’inutile zavorra di cui liberarsi.

Ovviamente non bisogna credere - come vorrebbero - che la tendenza alla competizione costituisca una sorta di istinto innato, in quanto gli esseri umani hanno sì istinti aggressivi, ma anche istinti collaborativi, giacché è dallo “stare insieme” che dipende la nostra sopravvivenza e riproduzione. E inoltre, in altre forme di società, storicamente esistite, la competizione non era così centrale come nel sistema capitalistico né seguiva la stessa logica.

Come ci spiega David Harvey dal 1820 il capitale è cresciuto mediamente del 3%, ma la sua espansione ciclicamente si arresta. Esso deve essere concepito come un flusso che avanza costantemente cercando di travolgere tutti gli ostacoli che incontra, ma non sempre ci riesce, come dimostrano le diverse crisi attraverso cui è passato, come quella terribile del 1929, che portò alla Seconda guerra mondiale, in cui si garantì l’espansione grazie agli investimenti in armamenti. Si tratta dunque di una macchina infernale concepita per non fermarsi mai, il cui incedere tuttavia non può essere bloccato dalla rinuncia irrealistica alla crescita in un mondo di 8 miliardi di persone, nel quale molti muoiono di fame (circa 800 milioni). La scelta obbligata non può che essere il governo razionale della produzione, ossia la pianificazione democratica, in base alla quale si decide cosa produrre, per chi produrre e dove produrre. Ciò comporta inevitabilmente lo smantellamento del sistema capitalistico, il cui ideale irraggiungibile sarebbe rappresentato dalla crescita composta, la quale mira in primis al rendimento del capitale investito e successivamente al rendimento degli eventuali rendimenti (100 euro fruttano 10 euro, poi investo 110 euro per averne 110 + 11).

Ideale irraggiungibile perché non sempre gli imprenditori riescono a produrre merci che vengono immediatamente consumate, spesso restano invendute (sovrapproduzione); neppure l’investimento speculativo, da cui è scaturita l’enorme massa attuale di capitale finanziario, garantisce l’accumulo continuo. Questi processi sono definiti caduta tendenziale del saggio di profitto, che si cerca sempre di fermare in qualche modo e a cui si trovano espedienti per limitarla.

La cosiddetta società dei consumi, in cui di fatto cresce ogni giorno la povertà, per assicurare il profitto dei detentori dei mezzi di produzione, deve produrre beni effimeri, che divengono rapidamente obsoleti e sostituiti da altri beni che sempre meno individui potranno comprare, tentando di trasformarci tutti in potenziali consumatori compulsivi. Secondo Harvey per mantenere in futuro una crescita al 3% sarebbe necessario investire 5 trilioni di dollari in settori che diano rendita e oggi la rendita proviene in primis dal settore degli armamenti e poi da quello dei videogiochi. Per spiegare questa tendenza irrealistica e autodistruttiva del capitalismo mondiale Harvey impiega una storia, legata all’invenzione degli scacchi.

Un principe indiano si annoiava tutto il giorno e cercava qualcuno che lo aiutasse a divertirsi. Finalmente si presentò a corte un mercante, il quale gli mostrò il gioco degli scacchi e gli insegnò a giocare. Il principe apprezzò molto la novità e domandò al mercante cosa volesse per ricompensa. Allora il mercante chiese un chicco di riso per la prima casella della scacchiera, due chicchi per la seconda, quattro chicchi per la terza, e via a raddoppiare fino all'ultima casella. Gli scribi cominciarono a fare i calcoli, rendendosi conto ben presto che quanto chiedeva il mercante era inesigibile: 18.446.744.073.709.551.615 (2 alla 64-1) 18 miliardi di miliardi di chicchi di riso, equivalenti a 600 miliardi di tonnellate (la produzione attuale è mille volte inferiore). Molto sorpreso e perplesso, resosi conto che le sue ricchezze non potevano soddisfare la richiesta, il principe privo di scrupoli fece giustiziare il mercante (https://luiseverino.wordpress.com/2016/02/25/la-scacchiera-e-il-riso/).

Questa favoletta è molto istruttiva, perché ci fa comprendere a fondo la logica di un sistema economico-sociale, il cui obiettivo è salvaguardare la cosiddetta libertà di impresa nelle mani di pochi e la massimizzazione dei profitti a tutti i costi.

Ogni fase storica del capitalismo si basa su diversi mezzi di sfruttamento ed espropriazione per alimentare l'accumulazione a livello nazionale e su scala mondiale. Nella fase iniziale il capitalismo ha separato i lavoratori dai mezzi di produzione (la terra), appropriandosene e costringendoli a vendere la loro forza lavoro. Durante il sedicesimo e diciassettesimo secolo il capitalismo mercantilista ha basato le sue relazioni con le terre scoperte sull’espropriazione, sulla schiavitù e sul lavoro coatto. Come ci racconta J. Bellamy Foster in un saggio da cui trarrò molte riflessioni, nel 1875, Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil, segretario di Stato per l'India britannica, dichiarò: "Dato che l'India deve essere dissanguata, il dissanguamento dovrebbe essere fatto giudiziosamente".  E in effetti il valore attuale del "drenaggio" di surplus dall'India alla Gran Bretagna dal 1765 al 1938 ammonta "su una base fortemente sottostimata" a 9,2 trilioni di sterline, rispetto a un prodotto interno lordo (PIL) di 2,1 trilioni di sterline per il Regno Unito nel 2018.

Come ha spiegato Lenin il capitalismo coloniale del diciannovesimo secolo si è trasformato in imperialismo, fase in cui si è costituito il capitale monopolistico, l’egemonia britannica si è indebolita, mentre sono aumentati i conflitti per la spartizione del mondo intero tra le principali potenze capitaliste. Da questi processi sono scaturite due sanguinose guerre mondiali. Dopo la seconda guerra gli Stati Uniti si sono trasformati in una superpotenza all'interno del mondo capitalista, alimentando la guerra fredda contro il mondo orientato al socialismo e quindi alla proprietà collettiva. Dietro lo schermo del libero scambio e dell’uscita dall’arretratezza, gli Usa hanno dato vita a un sistema di neocolonialismo imposto dalle multinazionali, dall’egemonia del dollaro e più di 800 basi militari su tutto il pianeta, da cui sono stati lanciati numerosi interventi militari e guerre regionali. E ciò per garantire la continua appropriazione di gran parte del surplus economico del Sud del mondo e per mantenere le relazioni di classe in patria.

Secondo molti oggi siamo entrati nella fase del tardo imperialismo, in cui domina il capitale finanziario monopolistico, le mega-multinazionali, alcuni potenti Stati, l’economia tranne che nei paesi emergenti è in stagnazione, l’egemonia statunitense in declino, la conflittualità interimperialistica in aumento, mentre sono sempre più a rischio il sostrato ecologico della civiltà e la vita stessa. Questo lungo processo, sorto con il modo di produzione industriale, come sottolinea Bellamy Foster (ibidem), ci ha condotto a una crisi epocale che si pone nei termini in cui era stata posta profeticamente nel 1848: “rovina o rivoluzione".

Altri aspetti significativi del tardo imperialismo sono la globalizzazione della produzione, basata sulle cosiddette catene del valore (processo che trasforma le materie prime in merce aggiungendo valore ad ogni fase produttiva), nuove forme di estrazione del surplus dalla periferia al centro, conflitti economici e politici sempre più aspri, l’indebitamento degli Stati per subordinarli, problemi ambientali sempre più gravi non facilmente risolvibili.

Dal punto di vista meramente economico, secondo Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, l’odierno imperialismo, i cui protagonisti sono poi gli stessi del tempo di Lenin, può esser così definito: “l’appropriazione del plusvalore a lungo termine da parte degli Stati più avanzati tecnologicamente ai danni di quelli che lo sono meno”. Questa definizione si fonda sul fatto che nel mondo sono presenti due blocchi: il primo costituito dai paesi imperialisti dotati di tecnologia più sviluppata e di un tasso medio di plusvalore più basso, il secondo formato da paesi con una tecnologia meno avanzata e un tasso medio di plusvalore più elevato, perché si basa di più sul lavoro umano. Detto in altre parole e citando dati più precisi: la forza lavoro del Sud del mondo fornisce il 90% della manodopera per alimentare l'economia mondiale, ma ottiene solo il 21% del reddito.

Strappando centinaia di milioni di lavoratori e contadini nel Sud del mondo dalla terra e dall’impiego nelle industrie nazionali, ora distrutte o privatizzate, il capitalismo neoliberista ha ampliato a dismisura un bacino di manodopera super-sfruttabile, fornendo alle imprese lavoratori a basso salario, dove sono state delocalizzate le attività produttive, o grazie all’immigrazione consentendogli di sostituire lavoratori meglio pagati con lavoratori con un salario di sussistenza. Fenomeno definito dagli economisti “arbitraggio globale del lavoro”.

I mezzi di comunicazione di massa, da un lato, occultano la gravità della crisi, dall’altro, demonizzano assiduamente i progetti di società alternativi, per convincerci che non c’è via di uscita e che questo è “il migliore dei mondi possibili”. La rabbia e il senso di impotenza che scaturiscono da questa lettura sono incanalati verso ipotesi neofasciste sempre più concrete, dirette a demonizzare gli immigrati, che promettono in maniera illusoria e semplicistica, fuoriuscite dalla crisi e forse alimentano il vagheggiamento di un mondo diverso.

Il tardo imperialismo, dalla natura sempre più aggressiva tanto da assumere atteggiamenti folli, rappresenta un'epoca in cui le contraddizioni inerenti al sistema si fanno sempre più palesi e gli equilibri ecologici sono sconvolti, fatti che mettono in pericolo la perpetuazione dell’intera umanità. Questi eventi stanno dando il via a un conflitto geopolitico, le cui dimensioni sono inimmaginabili, perché il capitalismo statunitense in crisi ha bisogno di distruggere gli altri Stati – come ha fatto con la Jugoslavia, l’Afganistan, e ora con la Siria etc. e come vaticinava Brzezinski- per appropiarsi delle loro risorse, facendo saltare tutti i limiti al suo allargamento fino a ribaltare gli esiti della Seconda guerra mondiale, come di fatto sta avvenendo. Ne consegue anche la dissoluzione del diritto internazionale, già eroso dalle politiche violatrici degli Usa.

Il neoliberismo e la globalizzazione, ad esso inerente, non hanno ridotto le differenze tra paesi ricchi e paesi poveri e, nello stesso, tempo hanno abbassato il tenore di vita dei lavoratori occidentali, che hanno dovuto pagare i costi di queste trasformazioni. Al contempo, con i processi di deindustrializzazione e di delocalizzazione (negli Usa dal 2000 al 2017 sono stati cancellati 5 milioni di posti di lavoro) alla ricerca di manodopera meno cara hanno dato vita a nuovi nemici dell’imperialismo statunitense, quali per esempio la Cina, la cui crescita deve considerarsi un incidente di percorso del progetto neoliberale. In definitiva, né la memoria delle passate due guerre mondiali, né le innovazioni tecnologiche, né l’incremento della produttività hanno favorito l’insorgere di un nuovo scenario mondiale dominato dalla pace e dalla prosperità comune. Anzi tutto ciò ha alimentato le tendenze all’accumulazione spasmodica, alla mercificazione, alla distruzione delle ricchezze naturali (si pensi solamente al fracking). Comportamento simile a quello del Capitano Achab, che almeno era consapevole che nella caccia alla balena bianca i suoi mezzi erano del tutto razionali, ma il suo fine completamente folle.

Un altro richiamo letterario è altrettanto interessante soprattutto perché sottolinea il debito di Marx nei confronti Johann Wolfgang von Goethe e illustra ancora una volta con una metafora la logica imperialistica. Traggo questo brano dal libro Marx en su (Tercer) Mundo del filosofo argentino Nestor Kohan (L’Avana 2003: 198).

Scrive Kohan, che ha approfondito i rapporti tra Marx e l’opera di Goethe e Shakespeare: ‹‹Hoy el capital, como un Mefistófeles inciaciable y repleto de ira, todo lo devora. Subsume tanto el trabajo como el intelectual, crece y se alimenta de ambos. Subsume también a la ciencia, la naturaleza, la imaginación, las fantasías, el tiempo libre, la vida toda. Un monstruo hambriento, demoniaco y cebado de sangre humana, imposible de educar, «civilizar» y convencer. Solo queda un camino para terminar con el y non es precisamente un “pacto” o un “contrato”››.

Alla fine degli anni 70 è stata lanciata la globalizzazione neoliberista, sostenuta dai governi reazionari di Reagan e della Thatcher, che ha abbandonato il compromesso neokeynesiano in patria, distruggendo il cosiddetto Stato sociale, e sottomettendo gli Stati extra-occidentali alle nuove regole, sempre più indulgenti verso gli interessi delle multinazionali. In questo nuovo contesto si sono realizzati la concentrazione dei capitali, la loro centralizzazione, con il formarsi di monopoli che hanno riassorbito imprese perdenti, l’inarrestabile ascesa del capitale finanziario, la veloce circolazione di capitali e una nuova spartizione del mondo dopo il crollo dell’Urss. Come si diceva, questi processi hanno ingigantito le differenze tra i vari paesi e tra le classi all’interno di uno stesso paese, secondo il principio dello sviluppo disuguale e combinato, che si ripresenta nella teoria latino-americana della dipendenza, secondo cui nella relazione tra il centro capitalistico e la periferia l’arricchimento del primo è strettamente correlato all’impoverimento della seconda, accrescendo la polarizzazione delle differenze. In sostanza, il tardo imperialismo ha accentuato la subordinazione degli Stati subalterni, non più in condizione di controllare la propria economia ed ha impoverito la sua stessa popolazione, favorendo la proletarizzazione dei ceti medi. Fenomeno previsto da Z. Brzezinski, che ipotizzata la riduzione dello Stato/Nazione ad un ruolo puramente simbolico.

La fase economica attuale è caratterizzata dalla stagnazione economica di molti paesi capitalistici (v. Germania crescita 0), dalla finanziarizzazione e da gravissimi problemi ecologici; tutti fenomeni strettamente legati al sistema di accumulazione monopolista-capitalista in precedenza descritto e agli ultimi eventi da esso prodotti (la guerra). La delocalizzazione della produzione nel Sud del mondo e i bassi salari erogati ai lavoratori hanno determinato straordinari profitti per le grandi corporazioni. Si pensi, per esempio, che nel 2009 il prezzo di un iPhone, assemblato in Cina, era 64 volte il suo costo di produzione.

L’aumento della differenza tra paesi imperialisti e cosiddetto Sud globale si realizza anche grazie ai profitti generati dagli investimenti negli Stati subordinati, tra i quali spicca il debito pubblico. Si aggiunga a ciò la fuga dei capitali che vanno a rifugiarsi nei paradisi fiscali, anche perché non trovano redditive forme di investimento. In generale, a causa del covid e della guerra, notevoli aumenti dei profitti si sono registrati nei settori delle risorse energetiche, in quello dei trasporti, digitale e militare, tutti settori che contribuiscono in maniera straordinaria all’esacerbamento dei problemi ecologici (https://sbilanciamoci.info/lanno-dei-superprofitti-e-del-capitali-in-fuga/ ).

Molto spesso le grandi corporazioni si trovano ad agire in regime di monopolio, soprattutto quelle che si sono accaparrate le utilities (servizi), ma non solo, hanno aumentato i prezzi, dando luogo alla crescita della povertà, alla sottoccupazione, creando così capitale in eccesso non investito nella produzione, che influisce sulla stagnazione e sulla crescita lenta.

Nell’attuale situazione mondiale, in cui si stanno costituendo altri blocchi politico-economici, che nella loro invitabile espansione finiscono con il confliggere con l’imperialismo, a sua volta costituito dalla triade Usa/Canada, UE, Giappone, in cui questi ultimi due funzionano come sub-imperialismi, lo scontro per l’accaparramento delle risorse strategiche è di importanza esistenziale. Si tenga anche presente che secondo molti economisti Russia e Cina non sono ancora paesi imperialisti, “perché non ricevono grandi e persistenti afflussi di plusvalore da altri paesi attraverso il commercio e gli investimenti” (Carchedi e Roberts, op. cit.), e pertanto la lotta è volta ad impedire che questi diventino tali per evitare che possano sottrarre una parte cospicua al bottino imperialistico. Le illegittime sanzioni, incrudelite dal redivivo Trump, servono anche a questo.

Tale controllo può essere attuato solo manu militari, per questo le grandi multinazionali hanno bisogno degli Stati e dei loro apparati. Come ricorda Bellamy Foster l’esercito statunitense spende circa il 16% del suo bilancio per vigilare le forniture mondiali di petrolio, appropriandosene direttamente dove è possibile, come in Siria. Ragione per la quale l’idea che il capitale transnazionale comporti il dissolvimento degli Stati è completamente sbagliata; piuttosto esso comporta la disgregazione di quelli più deboli a vantaggio di quelli più forti, come sosteneva Fidel Castro, il quale distingueva tra Stati sottosviluppati e Stati sotto-sviluppanti. E ciò in contrasto con quanto ha affermato William I. Robinson nel suo A Theory of Global Capitalism (2004), in cui si afferma che "la globalizzazione implica la sostituzione dello Stato nazionale come principio organizzativo della vita sociale sotto il capitalismo", e che in questa fase si forma una classe dirigente transnazionale; la quale si è certamente costituita, ma come oligarchia locale legata e mescolata con le altre oligarchie.

Ne consegue, pertanto, che le multinazionali sono intimamente connesse al potere finanziario e politico-militare degli Stati in cui sono sorte, senza i quali non potrebbero perpetuarsi e dal cui supporto dipende la loro capacità di competere con i loro rivali internazionali. Per questa ragione giustamente Harvey definisce il partito repubblicano e quello democratico negli Usa, in quanto articolazioni dell’oligarchia dominante lo Stato e il governo, il partito unico di Wall Street. Attualmente le prime cento società non finanziarie operanti sono stanziate in sei paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone e Svizzera. In generale vengono distinte per capitalizzazione di mercato (tecnologie informatiche, ma anche energia) e fatturato globale (commercio, finanza e servizi sanitari) e tra queste ultime compaiono anche società cinesi. Ci sono poi le società di investimento, come BlackRock, che gestisce il 40% del patrimonio delle grandi corporazioni. La loro potenza è strettamente correlata alla capacità del loro rispettivo Stato di supportarle nell’espansione, nella misura in cui quest’ultimo è in grado di farsi valere nei conflitti internazionali, come è sempre più evidente se guardiamo alla natura delle guerre odierne, che stanno rimettendo in discussione il precedente ordine mondiale, senza nessuna cura per il cosiddetto diritto internazionale. In questo scenario cinquecento corporazioni controllano il 40% della produzione, subordinando e integrando la gran parte delle restanti imprese nel sistema economico e commerciale con il ruolo di fornitori e di produttori secondari.

Questa nuova fase dell'imperialismo, emersa alla fine del XX e all'inizio del XXI secolo deve essere intesa come un sistema di capitale finanziario monopolistico globale o un capitalismo di "monopoli generalizzati", che si basa sul controllo maggioritario della produzione, sullo spaventoso aumento dell’espropriazione del lavoro dal sud del mondo e dello sfruttamento dei lavoratori locali, sul controllo della finanza e delle comunicazioni globali, sulla capillare sorveglianza della popolazione, che ha spogliato di ogni contenuto la democrazia formale dominata da consorterie mafiose ormai prive di ogni credibilità.

La produzione e la circolazione delle merci si dispiegano nella forma di catene globali, nelle quali si palesa il ruolo diverso giocato dai paesi centrali e da quelli periferici. Le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni consentono un esteso e pervasivo controllo del sistema finanziario e di quello delle comunicazioni, del resto complementare alla forma acquisita dal sistema produttivo e alla necessità della sorveglianza in un mondo sempre più disuguale. Queste caratteristiche del tardo imperialismo sono riassunte nello schema proposto da Kees Van Der Pijil (States of Emergency. Keeping The Global Population in Check, Clarity Press, Atlanta 2023: 85), che descrive la ristrutturazione della classe dirigente dopo il 2008 con l’immagine di un triangolo. I vertici di questo indicano i tre settori in cui si concentra il potere della nuova classe dirigente: Intelligence, IT Concerns (le nuove tecnologie informatiche), i media. Occorre sottolineare, inoltre, che tutti questi settori sono legati a doppio filo sia a quello militare, da cui sono scaturiti, e sono proprietari dei sistemi di comunicazione più importanti ed egemoni. Gli esponenti di questi settori non hanno partecipato al volgare festino messo in scena dal signor Trump?

Da un lato, questo sistema è fortemente integrato (si pensi alle grandi aziende tedesche che si stanno trasferendo negli Usa), dall’altro non è alieno da stridenti contraddizioni, come palesano le politiche protezionistiche degli ultimi anni, che vedono come protagonista l’America First di Donald Trump, disposto a colpire amici e nemici, ma che potranno avere effetti negativi sulla stessa economia statunitense.

L’innegabile declino degli Usa ha reso ancora più aggressivo l’imperialismo, che sta impiegando la sua formidabile potenza militare e finanziaria per mantenere inalterato il suo ruolo, non più accettato e riconosciuto da nemici che lo sfidano sia sul piano militare (Russia, Cina e anche Iran), sia su quello finanziario, portando avanti un processo se non di dedollarizzazione, di ridimensionamento del dollaro, moneta il cui status privilegiato ha garantito per decenni l’egemonia statunitense. Per il terrore di perdere la propria supremazia gli Usa, considerando indispensabile il loro ruolo di guida, portano avanti una politica sempre più rapace mirante al dominio delle risorse, tecnologico, finanziario, che per affermarsi ha bisogno dei mezzi militari per la presenza di rivali agguerriti, seguendo la logica competitiva ad ogni costo prima descritta.

Questa strategia basata sulla ricerca disperata di un dominio incontrastato porta con sé l’incremento del controllo sulla popolazione, sui media, in cui nonostante la censura sta conquistando spazio una narrativa alternativa a quella ufficiale sempre meno seguita secondo le statistiche, anche se spesso è incongruente e contraddittoria. Nelle condizioni globali di policrisi del caotico mondo attuale, questa due narrative, spesso intrecciate, stanno alimentando almeno due nuove forme di fascismo. Quella ufficiale (vedasi l’elezione di Trump o il preteso possesso della civiltà) si sposa ai nuovi sogni di grandezza, mobilitando la classe medio-bassa in funzione anti-migranti, che inconsapevolmente sostiene gli autori di quelle politiche neoliberiste che l’hanno impoverita e declassata, e che identifica la sua risalita sociale con l’implemento delle pratiche securitarie. Limitandosi alla speranza di un rinascimento nazionale e di una riscossa popolare, l’altra ideologia (sovranismo) auspica la ricomposizione dello Stato nazionale, disgregato dal capitale transnazionale, che dovrebbe difendere questa classe intermedia dal suo immiserimento, dal peggioramento delle condizioni di lavoro, dalla perdita del potere di acquisto, dalla competizione coi lavoratori immigrati. Entrambe le tendenze attendono qualcosa dall’alto, dalla ingannatrice dirigenza, che dovrebbe risolvere questi problemi gravissimi con decisioni autoritarie (come di fatto sta avvenendo a detrimento del parlamentarismo), dal contenuto sempre più razzista e neofascista. In ciò aiutata dalle tecnologie di controllo delle piattaforme digitali, come ha sostenuto il già citato Van Der Pijil.

La rapida analisi qui proposta ha cercato di mostrare che il tardo imperialismo, proprio per le sue dinamiche interne, ci sta conducendo a una catastrofe globale a tutti i livelli, per questo l’impiego della parola policrisi. Ora queste dinamiche interne appaiono giustamente ad alcuni frutto di una vera e propria follia, e in un certo senso lo sono; tuttavia, questa logica non è una deviazione, ma il risultato della competizione e della valorizzazione del capitale ad ogni costo. Per questo non è possibile nessuna riforma del sistema economico-sociale, per salvarci dobbiamo solo lavorare per il suo abbattimento, che secondo il già citato Bellamy Foster si presenta come l’unica alternativa possibile alla probabile ravvicinata apocalissi.  Questo progetto potrà realizzarsi solo con l’azione congiunta dei lavoratori del Nord e del Sud del mondo, i quali dovranno operare per un cambio di regime a livello planetario. Una società di sviluppo umano sostenibile, ossia il socialismo, può essere costruito solo su una base universale, nel quale tutti i rapporti limitati, fondati sullo sfruttamento, devono essere cancellati e gli esseri umani devono costruire comportamenti basati sulla reciprocità con i loro simili e sull’equilibrio con l’ambiente circostante.

Naturalmente questo ipotetico nuovo mondo non potrà mai cancellare i tratti costitutivi della condizione umana: l’intrinseca fragilità e la mortalità. Purtroppo, soprattutto negli Stati capitalisti avanzati, la cosiddetta sinistra radicale finora non è stata in grado di individuare le cause di questo processo avanzato di declino, anche perché ha accantonato la categoria di imperialismo, che risulta ancora altamente produttiva, pur se deve essere attualizzata, e in molti casi ha tacciato di imperialismo paesi che non hanno ancora questa colpa, non riuscendo ad individuare il nemico principale e il vero obiettivo da colpire.

Riferimenti bibliografici:

Bellamy Foster J., Late Imperialism, https://monthlyreview.org/2019/07/01/late-imperialism/

Guglielmo Carchedi & Michael Roberts https://www.lavocedellelotte.it/2023/10/25/la-teoria-del-valore-di-karl-marx-per-comprendere-il-funzionamento-del-capitalismo-oggi-intervista-a-guglielmo-carchedi-e-michael-roberts/

Kohan N., Marx en su (Tercer) Mundo, Editorial Biblos, L’Avana 2003

https://sbilanciamoci.info/lanno-dei-superprofitti-e-del-capitali-in-fuga/ https://sinistrainrete.info/estero/7606-john-smith-l-imperialismo-nel-xxi-secolo.html

Robinson W. I., A Theory of Global Capitalism : Production, Class, and State in a Transnational World, J. Hopkins University Press, 2004.

Van Der Pijil K., States of Emergency. Keeping The Global Population in Check,  Clarity Press, Atlanta 2023.

 

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