Alessandra Ciattini

 

Chi trasforma la società capitalistica?

Ovviamente nessuno può mettere in discussione che uno dei problemi centrali della società contemporanea, sia nei paesi a capitalismo avanzato che nel cosiddetto Sud globale, non toccati a fondo dalle rivoluzioni borghesi, è quello dell’emancipazione della donna, sesso a cui appartengono più della metà degli esseri umani.

 

Tuttavia, a mio parere, l’enfasi quotidiana sul problema donna e genere cela molte ambiguità e non ci conduce ad un miglioramento effettivo delle condizioni di vita di coloro che hanno il compito impegnativo e non facile di perpetuare la specie umana.

Anticipo che mi muovo in una prospettiva marxista, facendo presente che ovviamente non deve essere intesa nel senso vetero-positivista, spesso impiegato dagli antimarxisti o da semplici militanti radicali, che ricadono generalmente in uno sterile riduzionismo. Anticipo anche che la seguente analisi si riferisce alla condizione della donna nella contemporanea società capitalistica e avanzata, che però sta palesando chiari segni di regressione e di declino. Basti pensare che si è ristabilita la condizione dei cosiddetti lavoratori poveri dominante dall’esplosione del capitalismo al secondo dopoguerra. Non tratterò la questione della donna nelle società a capitalismo emergente o periferico, convinta che ampie generalizzazioni producano solo semplificazioni del tutto inutili a comprendere a fondo la storia e la vita sociale.

L’enfasi cui parlavo e che è divenuta il tema dominante di ogni discorso pseudo-trasformativo convogliato dai media consiste nell’insistere sulla convinzione che il cambiamento potrà esser realizzato da tutti quei gruppi critici dell’attuale sistema in senso ampio, come appunto il femminismo nelle sue varie forme, i sostenitori di una sessualità più ampia, le minoranze etniche o se volete, come si dice, altre.

Riprendendo l’osservazione del grande economista trotskista Ernest Mandel, ritengo che: “Ogni prospettiva di trasferire la funzione rivoluzionaria ad altri strati sociali che sono incapaci di paralizzare la produzione di un solo colpo, che non hanno un ruolo chiave nel processo produttivo, che non sono la fonte principale del profitto e dell’accumulazione del capitale, rappresenta un passo indietro dal socialismo scientifico al socialismo utopistico…” (1973: 119-121). Vedasi l’attuale situazione francese, ma anche quella statunitense. Naturalmente da ciò si evince che quegli strati o gruppi, che portano avanti rivendicazioni specifiche e in qualche modo limitate, sono integrabili nella cosiddetta classe rivoluzionaria nella misura in cui fanno parte dell’estesissima porzione della popolazione che per campare deve accettare un lavoro dipendente e salariato, anche nelle condizioni più svantaggiose. Pertanto, non credo che l’accento sul ruolo rivoluzionario dei salariati determini necessariamente “la limitazione delle soggettività che compongono la classe lavoratrice” (Toffanin 2018), perché la maggior parte delle donne appartengono a questa classe.

Mi sembra che solo accettando questo presupposto riusciamo a trovare un denominatore comune primario che possa mettere insieme individui assai diversi in una prospettiva internazionalistica ed universale. Ossia, in primis, per esempio, le donne possono dare un contributo al mutamento in quanto salariate, anche se ciò non comporta la cancellazione delle loro giuste rivendicazioni dovute alla diversità di altri aspetti della loro condizione sociale. Di questo tratto più avanti.

Un altro aspetto a mio parere mistificante del modo di trattare la questione femminile sta nel proporre come nemico il cosiddetto patriarcato[1], che dalle nostre parti se non è del tutto scomparso, è attualmente ridimensionato, dato che la fase neoliberista ha di fatto disgregato la famiglia tradizionale. Infatti, a partire dagli anni 70 in Italia e non solo il numero dei componenti di una famiglia è costantemente diminuito, più del 33% delle famiglie sono composte da una sola persona. Numerose poi sono le famiglie monoparentali, in cui il genitore che si fa carico dei figli è generalmente la madre. Né è ragionevole pensare che una legge possa in qualche modo far scomparire problemi come quello della violenza, che a mio parere derivano più dalla frustrazione scaturita dall’isolamento e dal senso di impotenza dell’individuo che da sopite tradizioni patriarcali. Nello stesso tempo, paradossalmente, proprio per la cancellazione dello Stato sociale, gli individui si rivolgono ancora alla famiglia o a quel che ne resta per ricevere sostegno e anche in questo caso sono le donne a svolgere questo ruolo. Da notare, pertanto, la forte contraddizione tra il disgregarsi della famiglia e la necessità del suo ruolo nella desertificazione dei vari servizi sociali. Tuttavia, bisogna sottolineare che questi fenomeni hanno colpito anche gli uomini in quanto salariati, che sono diventati nei mass media oggetto costante di denigrazione (v. Marchi 2018).

Questi processi erano già in via di sviluppo negli USA, dove negli anni 40 del Novecento la cosiddetta famiglia tipo “marito, moglie e due figli” non rappresentava affatto la famiglia più comune, ma aveva il vantaggio di dare un senso di stabilità istituzionale e di occultare le lacerazioni del tessuto sociale prodotte dall’accelerata industrializzazione.

Como sappiamo, negli ultimi decenni parlando di società postindustriale[2] si è arrivati a sostenere che siamo ormai in una fase postcapitalistica, ma senza negare le trasformazioni e osservando la società contemporanea possiamo concordare con Mandel, il quale mette in risalto la stabilità strutturale del sistema capitalistico, che si fonda sull’estensione del lavoro dipendente in tutte le attività produttive e nel settore dei servizi; infatti, se in seguito alla deindustrializzazione i salariati, precari o stabili, sono diminuiti in Occidente, sono aumentati vistosamente nel Sud globale. Inoltre, il lavoro si è fatto ancora più alienato, in quanto si impone al lavoratore non solo cosa debba produrre, ma anche cosa deve consumare, desiderare e sognare. Infine, nonostante tutte le rivoluzioni tecnologiche (automazione, informatica) “il lavoro vivo resta più che mai la sola fonte del plusvalore, la sola fonte del profitto, che è quello che fa funzionare il sistema” (Mandel 1973: 119-120).

Sin dagli anni 70 è diventato più difficile distinguere con precisione la “classe rivoluzionaria” per il fatto che, a seguito delle trasformazioni del sistema capitalistico, le differenze tra operaio produttivo, impiegato, improduttivo e addetto alle riparazioni “semiproduttivo” sono divenute più evanescenti e i diversi soggetti di fatto sono integrati nel processo produttivo. Il lavoro svolto nei laboratori, nei dipartimenti di spedizione e di inventario è necessario per render possibile il consumo finale e quindi successivamente il profitto. La terza rivoluzione industriale, ossia l’automazione, dà impulso all’industrializzazione di tutti i settori economici e ciò ovviamente sollecita l’omogeneizzazione dei lavoratori. Questa si basa su fatti quali il ridursi dei salari nei vari comparti, la somiglianza negli stili di vita, nelle condizioni di esistenza, l’equivalenza dei titoli di studio, il carattere monotono e ripetitivo nel lavoro in tutti gli ambiti (fabbriche, centri commerciali, amministrazione etc.). Inoltre, essa si fonda sul fondamentale processo di proletarizzazione del lavoro intellettuale, incorporato nel processo produttivo, la sua standardizzazione e uniformazione (Mandel 1973: 121-124). Questi cambiamenti congiunturali hanno consentito di trasferire il ruolo di agente trasformatore ad altri strati, il cui atteggiamento critico verso il sistema viene quotidianamente strumentalizzato per colpire il cosiddetto punto di vista di classe.

Quali sono le conclusioni di questo discorso che intende dare un contributo all’emancipazione della donna? Oggi in particolare, dato che siamo in una situazione di crisi e di recessione, ogni cambiamento non può che essere ottenuto con trasformazioni radicali della struttura sociale e, a mio parere, sono particolarmente deleterie tutte quelle forme di moralismo, secondo le quali bisogna puntare sulla trasformazione interiore, sul cambiare il modo di sentire, il quale essendo legato alle condizioni sociali si modificherà solo se queste ultime muteranno. Solo l’impegno in questa battaglia potrà gettare i semi di un nuovo modo di pensare e di agire.

Infine, se vogliamo avere una visione vitale della vita umana in una società sempre più indirizzata verso la morte e l’autodissolvimento[3], bisogna tenere conto di questo principio “diritti uguali attribuiti a persone diseguali accrescono la disuguaglianza”[4]; infatti, per il maggiore peso esercitato dalla specie su di noi, occorre che il sistema sociale preveda una serie di norme a difesa della specificità femminile, per garantire una piena e non subordinata partecipazione alla vita sociale. Ricordo che la vituperata Repubblica democratica tedesca riconosceva alle donne tre anni di maternità a pieno stipendio.

Il complesso mondo femminista

Ora l’idea precedentemente anticipata che per emanciparsi la donna salariata debba necessariamente partecipare alle lotte dei suoi compagni può apparire riduzionista e, in effetti, in un certo senso lo è, perché non tiene conto dello specifico ruolo femminile nel mantenimento in vita del sistema capitalistico. Voglio dire che, oltre a fornire il suo lavoro vivo, la donna salariata è anche impegnata nel lavoro di riproduzione sociale, ossia nel lavoro di accudimento della nuova classe di lavoratori, di quelli che già invece vendono la loro forza lavoro e di quelli che non sono più attivi. Ora, come scrivono Lise Vogel (1984, 2013), Michèle Barrett (1980, 2014), Andrea D’Atri (2022), Joanna Brenner e Maria Ramos (2017)[5] è proprio su questo ruolo che occorre soffermarci per ricostruire nel complesso il processo della produzione e della riproduzione della società capitalistica, aspetto quest’ultimo che non presenta nessun costo per il capitale e che limita la partecipazione della donna al mondo del lavoro. Nei trent’anni gloriosi del capitalismo in parte, grazie alla socializzazione del lavoro domestico (asili nido, mense, case-famiglia per gli anziani etc.), tali costi sono stati sostenuti in parte dagli Stati, ossia da coloro che pagano le tasse e che hanno un reddito facilmente individuabile.

La focalizzazione del ruolo della donna e dell’origine dei suoi specifici problemi, oltre che alla sua funzione di salariata, viene giustamente indirizzata verso questa forma di lavoro impegnativo, ma gratuito e misconosciuto, analizzato dalla cosiddetta Teoria della riproduzione sociale, ampiamente anticipata da autori socialisti come Auguste Bebel (La donna e il socialismo, 1883). Questi temi animarono gli anni travolgenti dopo la Rivoluzione del 1917, il cui scopo non era solo la socializzazione dei mezzi di produzione, e quindi un trapasso di potere, ma anche quello di rivoluzionare la morale e di costruire una nuova vita quotidiana, inevitabilmente riguardante pure le relazioni tra i sessi. Temi su cui scrissero sia Lenin che Trotzkij, consapevoli del fatto che in una nuova società l’essere umano avrebbe dovuto vivere una vita più intensa, più umana e più solidale.

Bebel aveva negato che esistesse per i marxisti una specifica questione femminile, ma al contempo riteneva che “le rivendicazioni di parità salariale, eguaglianza giuridica, eliminazione di ogni discriminazione fra i sessi ecc., e rivendicazioni più specifiche che riguardano le condizioni di esistenza delle donne, riferite alla maternità, all’aborto e simili, facciano parte degli obiettivi immediati della lotta classista del proletariato; ma, per l’appunto, degli obiettivi immediati della lotta classista del proletariato, cioè di una lotta che non si ferma all’involucro giuridico della società borghese, ma punta molto più in alto, alla distruzione della sovrastruttura politica e della struttura economica e sociale del capitalismo”. Inseriva, quindi mi pare, in questa prima fase della battaglia quello che possiamo chiamare “programma di transizione” o “programma minimo”, rivendicazioni che dovrebbero concretarsi pienamente nelle fasi successive (2021: 1)

Detto questo, è importante stabilire che non tutti femminismi sono uguali. Quello che possiamo chiamare istituzionale si fonda sull’idea che ogni volta che una donna (si pensi alla Meloni o alla Merkel) conquista una nuova posizione sociale, ciò rappresenta un guadagno, anche se nel complesso la struttura sociale resta la stessa e la donna avanzata è semplicemente la versione femminile del suo analogo maschile, tanto che di fatto si abbiglia anche come un uomo con giacca e pantaloni, magari non limitandosi al blu buono dei politici. Infatti, non è solo l’appartenenza al sesso che determina una certa prospettiva politica, per natura le donne sono simili agli uomini, ossia culturalmente e socialmente condizionate, e quindi non hanno nessun merito in più per il semplice fatto di appartenere al loro sesso. Di questa stessa opinione era il peruviano José Carlos Mariátegui, il quale non si sconcertava nello scoprire che le donne si dividono in diverse correnti politiche: “Las mujeres, como los hombres, son reaccionarias, centristas o revolucionarias. No pueden, por consiguiente, combatir juntas la misma batalla”. Ed aggiungeva polemicamente: “Las feministas de la burguesía [hoy lo llamaríamos feminismo liberal] aceptan todas las consecuencias del orden vigente, menos las que se oponen a las reivindicaciones de la mujer. Sostienen tácitamente la tesis absurda de que la sola reforma que la sociedad necesita es la reforma feminista” (C. Murillo, Feminismo o peluca, https://mailchi.mp/27d343b9bfda/no-somos-una-hermandad?e=9b8bacbe3d). Inoltre, il rivoluzionario peruviano smentiva anche l’idea propria dei tradizionalisti, secondo la quale la donna, impegnata in attività in precedenza maschili, avrebbe perduto la sua grazia e la sua bellezza, portando ad esempio Aleksandra Kollontaj, la prima donna a rivestire il ruolo di ministro (J. C. Mariátegui, La Mujer y la política, https://www.mariategui.org/wp-content/uploads/2021/01/1_LaMujerypolitica.pdf?mc_cid=2b3f49d480&mc_eid=9b8bacbe3d, 1924).

Queste osservazioni contraddicono l’affermazione secondo cui proprio per il loro bagaglio ormonale, le donne sarebbero più disposte alla cura e alla cooperazione. Ognuno di noi è un universo complicato, un insieme di esperienze non sempre comunicabili, plasmato dalle relazioni sociali in cui è coinvolto e da cui difficilmente può prendere le distanze. Il sesso è solo una delle sue tante caratteristiche che ha una sua influenza, sia pure importante, ma limitata e su cui interviene profondamente la storia e la società. Infatti, se la scelta del genere è psicologica, sociale e culturale, il sesso è un fatto innegabilmente biologico, per la semplice ragione che non si è mai incontrata una società in cui siano gli uomini a partorire. Se si nega questa evidenza, vuol dire che si è fautori di uno stanco culturalismo, incapace di affrontare le questioni cruciali dell’oggi.

Di grandissima rilevanza per l’emancipazione della donna è stato il libro de Simone de Beauvoir Il secondo sesso, pubblicato nel 1949 e che fu un vero e proprio best seller sia in Europa che negli Usa, proibito dal Vaticano e dalla Spagna franchista. Intendo in maniera diversa da come viene intesa comunemente una sua frase, secondo cui non si nasce donna, ma lo si diventa. Infatti, la compagna di Sartre vuole affermare – credo – che di per sé il ruolo biologico della donna non è sufficiente a dar conto della sua subordinazione, ed è per questo che nel suo libro analizza il modo in cui questa si struttura nelle diverse forme di società. Tesi sulla quale concordo pienamente.

L’assunto di fondo della de Beauvoir, e tutt’ora molto interessante, sta nel fatto che, nel passaggio dalla natura alla cultura, la donna si sarebbe presentata all’uomo come l’altro, ma ciò non avrebbe comportato che reciprocamente l’uomo fosse per la donna l’altro. Essere altro senza reciprocità vuol dire essere cosa, non avere il ruolo di soggetto, che spinge a trascendere la propria condizione e a superarsi; invece, la donna, privata della soggettività, impossibilitata di riconoscersi come noi rispetto a loro, si è trovata ad essere immersa nell’immanenza, che costituisce la cifra della vita domestica, dove tutto si ripete uguale e non c’è via di uscita (1949: Introduzione).

Nella prospettiva qui proposta si cerca di superare lo schematico dualismo che contrappone natura a cultura, considerando l’essere umano un’entità dialettica, in cui operano entrambe le dimensioni e spesso tra loro in un inevitabile conflitto. E qui non posso fare a meno di citare una frase di Terry Eagleton, che ho menzionato già più volte: “…noi siamo esseri culturali in virtù della nostra natura, cioè in virtù del tipo di corpo che abbiamo e del tipo di mondo a cui esso appartiene. Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la cultura deve immettersi all’istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa immissione della cultura e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra catastrofe” (1998: 82).

In sostanza il femminismo istituzionale è neutrale dal punto di vista classista e si focalizza esclusivamente sui diritti della donna rispetto all’uomo, senza prendere in considerazione il contesto economico-sociale. Invece, la Teoria della riproduzione sociale[6], di cui parleremo più avanti, evidenzia il legame esistente tra la condizione della donna e la lotta di classe, dato che la prima può cambiare, da un lato con l’introduzione della donna nella produzione e con la sua emancipazione economica; dall’altro, la sua effettiva partecipazione alla vita sociale ed economica può avvenire con la socializzazione dei costi della riproduzione, i quali coincidono con la conquista del cosiddetto salario indiretto o sociale. Quest’ultimo si riferisce a quelle prestazioni erogate da istituzioni pubbliche (educazione, cura, sanità, trasporti etc.) che migliorano la vita dei lavoratori; questa definizione evidenzia il legame inscindibile tra la Teoria della riproduzione sociale e la lotta di classe.

La successiva analisi non si riferisce alla condizione della donna in generale, ma tenta di delinearne i differenti aspetti ponendoli in relazione con le trasformazioni capitalistiche, fino a giungere alla disgregazione della famiglia che colpisce gli individui di entrambi i sessi.

Marxismo e femminismo

Il rapporto tra marxismo e femminismo è complicato ed è scandito da varie fasi. Con l’affermarsi del neoliberismo si è dato libero spazio al determinismo culturale, prima menzionato, il cui apice è rappresentato dal postmodernismo ormai in agonia, inconsistente come il meccanicistico determinismo materialista. In questo contesto vengono attaccati tutti i movimenti d’ispirazione socialista e con essi il femminismo di questa matrice. Negli anni ’90 appare il femminismo nero che riprende il concetto di intersezionalità e che, in un’ottica materialistica, distingue tra le diverse forme di oppressione incastonate nella classe, nel genere e nella razza intese come linee autonome che ad un certo punto s’incontrano. Questo concetto, inteso in forme assai diverse, ha prodotto divisioni all’interno del movimento femminista, in particolare perché le donne bianche non si davano pensiero né del razzismo né del classismo, che le ha riguardate in forma minore.

Con l’intento di superare questi approcci settoriali e di sviluppare il marxismo, la già menzionata Lise Vogel, sociologa statunitense, pubblica nel 1983, un libro dal significativo titolo Marxism and the Oppression of Women: Toward a Unitary Theory, successivamente ripubblicato, nel quale esamina dettagliatamente la relazione strutturale tra la famiglia, luogo in cui avviene la riproduzione dei lavoratori, e la riproduzione del capitale. Su questa linea si muove anche la sociologa argentina Andrea D’Atri, che mette in guardia contro l’estremismo identaristico, presente anche nel femminismo, che produce solo frammentazione e, pertanto, divide i lavoratori.

Naturalmente non si può negare che l’oppressione della donna sia presente anche nelle società precapitalistiche e che sorga in ultima istanza – come ho sostenuto in un precedente articolo – per la necessità di tenere sotto controllo la fertilità femminile, dalla quale scaturisce la forza lavoro umana indispensabile in società prive di macchine(http://coelux.dfm.uninsubria.it/symbolicum/uploads/images/Heliopolis/Heliopolis%202017%202/Ciattini_2_2017.pdf). Tuttavia, in queste società non appare in maniera netta la separazione tra sfera domestica e sfera pubblica, tra luogo della riproduzione e luogo della produzione, giacché tutto il gruppo di parentela è impegnato complessivamente nei diversi ambiti ed entrambi i processi sono volti alla soddisfazione delle esigenze dei loro membri, benché la produzione di un plus prodotto e la conseguente stratificazione sociale ben presto si consolidino. Con queste trasformazioni appare all’orizzonte la divisione del lavoro che coinvolge lavoratori manuali e intellettuali, quali i sacerdoti, i capi, la classe dirigente in generale.

Pena la loro scomparsa tutte le società debbono riprodursi e per raggiungere questo obiettivo debbono dare un’organizzazione sociale alle differenze biologiche, la quale varia nei diversi tipi di società e che dunque non è determinata unicamente dalle differenze stesse. La storia umana ha conosciuto istituzioni diverse che provvedono alla riproduzione come i baracconi in cui erano rinchiusi gli schiavi, i campi di lavoro e la migrazione, che fornisce lavoratori belli e pronti, ma in essa ha predominato il gruppo di parentela (Vogel 2013: 147) caratterizzato dalla discendenza matrilaterale o patrilaterale[7].

Già Karl Marx aveva fatto riferimento alla riproduzione sociale di quella particolare merce definita forza lavoro, ma gli viene ingiustamente rimproverato di non aver approfondito la questione e addirittura di averla naturalizzata (Ferguson e McNally, 2013: XXVII), quando afferma che essa è affidata dal modo di produzione capitalistico al desiderio di autoconservazione del lavoratore. Possiamo rispondere a queste critiche che Marx ha già fatto abbastanza e che in tutti i suoi scritti ha manifestato la piena consapevolezza della storicità delle istituzioni sociali, le quali però si impiantano nel nostro patrimonio biologico frutto della nostra storia evolutiva. Egli analizza anche come il modo di produzione capitalistico disgreghi la famiglia operaia, costringendo donne e bambini a lavorare in condizioni insalubri e nella promiscuità. Nel Manifesto con Engels aveva criticato l’ipocrisia della famiglia borghese, sostanzialmente fondata sulla prostituzione, prefigurando nuove forme familiari.

Secondo la Vogel e secondo l’approccio marxista le differenze biologiche costituiscono la precondizione materiale su cui si basa la costruzione sociale delle differenze di genere; per questa ragione le differenze sessuali non possono esser separate da uno specifico sistema sociale (Ibidem).

Riprendendo la nozione marxiana di lavoro necessario, ossia quel lavoro che fornisce al lavoratore I mezzi di sussistenza per vivere e lavorare, la sociologa statunitense ne distingue tre modalità: il già citato mantenimento dei produttori, quello di chi non può partecipare alla produzione (vecchi e bambini), i processi di ricostituzione delle future generazioni, giacché gli esseri umani ahimè sono mortali[8]. Sono queste ultime, basati sul dimorfismo sessuale, apparso nell’evoluzione circa un miliardo di anni fa per incrementare la biodiversità, che hanno dato impulso alla divisione dei sessi nell’ambito lavorativo e alla peggiore condizione sociale della donna. Come si è già detto, questi aspetti possono e devono alimentare le rivendicazioni di miglioramento delle condizioni di vita nella lotta di classe. Inoltre, secondo la Vogel occorre riconcettualizzare la nozione di lavoro necessario al fine di incorporare i processi di riproduzione della forza lavoro, ossia il lavoro domestico dal quale scaturisce quotidianamente (2013: 191-192) la riproduzione dei portatori di quest’ultima. E tenendo conto che il primo produce valore, mentre la seconda componente, benché sia priva di valore in senso marxiano e non sia in nessun modo quantificabile, “plays a key role in the process of surplus-value appropriation” (2013: 193).

Il carattere necessario della riproduzione generazionale implica che inevitabilmente, per il ruolo biologico di riproduttrici, almeno per certi suoi aspetti, essa debba essere assicurata dal lavoro e dall’attività delle donne, le quali nei periodi in cui sono impegnate nella gravidanza e nell’allevamento dei bambini sono esentate in gran parte dall’attività produttiva. Ne consegue che nei momenti in cui esse non possono lavorare, il salario corrisposto al nucleo produttivo deve tenere conto del loro mantenimento e di quello degli improduttivi (si pensi agli assegni familiari). E in questo caso si incontra un’importante contraddizione tra la volontà di rendere minimi questi costi (come ci documenta anche la condizione di masse di lavoratori poveri in tutto il mondo), e la necessità di garantire la riproduzione della classe lavoratrice (Vogel 2013: 151). D’altra parte, proprio per questo suo “vantaggio economico” il lavoratore-maschio viene investito di un certo potere nel contesto familiare, rafforzato dalla separazione tra sfera domestica e sfera produttiva e da una serie di millenari pregiudizi sulla donna che di fatto sono giustificati dal suo isolamento e dal suo ruolo riproduttivo, che deve essere governato socialmente e non a capriccio della stessa (V. articolo mio già citato).

Così la Vogel spiega il predominio maschile nella famiglia: “It is the provision by men of means of subsistence to women during the childbearing period, and not the sex-division of labour in itself, that forms the material basis for women’s subordination in class-society. The fact that women and men are differentially involved in the reproduction of labour-power during pregnancy and lactation, and often for much longer, does not necessarily constitute a source of oppression” (2013: 153).

Come vedremo, non vi è coincidenza di opinioni su questo aspetto, in particolare mi riferisco a Irene Breughel che sostiene una tesi diversa.

Naturalmente nel sistema capitalistico la donna è stata sempre più inserita nella produzione e quindi opera anche come salariata[9], ed è per questa ragione che molte delle attività che prima svolgeva per il suo lavoro di cura (per es. approvvigionamento idrico, bucato, preparazione di tutto il necessario alla vita familiare etc.)[10] sono sostituite da mezzi prodotti dal mercato individuabili in quelli che chiamiamo elettrodomestici, almeno nei paesi capitalistici avanzati, disponibili in varia misura tra le classi sociali. La dotazione di nuovi strumenti per svolgere il lavoro domestico ha il vantaggio di ampliare la platea dei possibili lavoratori ed è quindi ben vista dal padronato.

Bisogna anche fare una differenza tra le donne appartenenti alla classe dei lavoratori e quelle, invece, inserite nella classe dominante, cosa che il femminismo istituzionale non fa, che certamente fino a qualche decennio fa subivano anch’esse un trattamento oppressivo per garantire il trasferimento della proprietà privata, come ci ricorda Engels (Vogel 2013: 154 e anche D’Atri). In quest’ultimo caso le condizioni sono fortemente mutate per l’acquisizione di maggiori diritti e riconoscimenti da parte di queste donne ed anche perché – come ho già detto – la famiglia ha subito un grave processo di disgregazione, che ha indebolito fortemente il ruolo maschile, cui sono stati tolti molti sostegni. Tra i quali quello di essere l’unico sostentamento della famiglia.

La natura particolare del lavoro domestico nella società capitalistica fa insorgere in entrambi I sessi un forte sentimento conflittuale, giacché da un lato la donna si sente giustamente vittima, essendo obbligata a soddisfare tutte le esigenze dei suoi familiari, dall’altro l’uomo utilizza la subordinazione femminile per rafforzare il suo dominio nel contesto familiare (Vogel 2013: 160) anche per compensazione, essendo molto scarso il suo potere all’esterno. Inoltre, la donna stessa finisce con l’identificare tutta la sua vita con la sfera domestica, naturalizzando il suo ruolo subordinato, ogni malfunzionamento della quale produce in lei un acuto senso di colpa. Tuttavia, non bisogna credere che la donna sia sempre stata ridotta da queste circostanze ad una condizione di mera schiavitù; per esempio, nelle classi lavoratrici almeno sino agli anni 70 spettava in Italia alle madri di famiglia amministrare le risorse procacciate dal lavoro del marito ed eventualmente dei figli.

La specifica condizione di subordinazione della donna sollecita la creazione di una serie di giustificazioni ideologiche, di cui la Vogel non si occupa (e per questo viene criticata), che vanno dall’incapacità della donna di elaborare un pensiero astratto e – come già si è sottolineato - alla convinzione della sua maggiore capacità di tenerezza (si pensi a quella dimostrata da Hilary Clinton verso le vittime delle “guerre umanitarie”)[11], da cui scaturirebbe la cosiddetta società della cura.

Come è affermato nell’Introduzione al libro della Vogel (Ferguson e McNally 2013), la radice socio-materiale dell’oppressione della donna nella società capitalistica deve essere ricercata nella relazione strutturale tra il nucleo familiare e la riproduzione del capitale; infatti, il capitale e lo Stato debbono essere in grado di regolare la produzione della prossima generazione di lavoratori, di modo che ci sia sempre una forza-lavoro sfruttabile (2013: XXV). Da ciò non si evince che sia stato il capitalismo a creare il nucleo familiare, che preesiste a questo sistema in forma diverse, e che credo, sia pure in nuove strutture organizzative, resti un istituto fondamentale per la riproduzione della specie umana. Per ora basti sottolineare l’importanza della relazione affettiva tra madre e figli e, successivamente, padre e figli, anche per l’acquisizione della stabilità emotiva da parte di un individuo. Aspetti non sempre presi in considerazione a fondo dal dibattito sviluppatosi nell’Unione sovietica dopo la Rivoluzione, di cui più avanti si parlerà, soprattutto da chi identificava la famiglia con la famiglia borghese e con quella dei lavoratori nella società prerivoluzionaria, immaginando che per cancellare l’oppressione femminile fosse sufficiente socializzare tutto il lavoro di cura.

Un punto fondamentale della riflessione della Vogel, da me ( e non solo) pienamente condiviso, sta nel fatto che la gerarchia capitalistica tra i sessi non si basa sull’istituzione di un trans-storico patriarcato, sorto in un indecifrabile passato[12], ma più precisamente – come si è detto – sull’articolazione sociale tra il modo capitalistico di produzione e le famiglie della classe lavoratrice, che sono fondamentali per la produzione e riproduzione della forza-lavoro (2013: 18).

Nella stessa prospettiva marxista-femminista, negazionista del patriarcato, si muove Michèle Barrett, il cui libro Women's Oppression Today. The Marxist/Feminist Encounter, pubblicato nel 1980 e ripubblicato nel 2014, si propone di esplorare le relazioni tra l'organizzazione della sessualità, quella della produzione domestica, la famiglia, indagando anche i cambiamenti storici nel modo di produzione e nei sistemi di appropriazione, e sfruttamento. Proposito ovviamente non facile per la semplice ragione che il marxismo sarebbe “cieco dal punto di vista sessuale”,[13] giacché la contraddizione capitale / lavoro non implica in nessun modo la differenza di sesso. La sociologa britannica, studiosa dell’opera di Virginia Woolf, ritiene che il capitalismo, benché si avvalga del lavoro domestico, potrebbe anche farne a meno socializzandolo. Secondo la sua opinione nella seconda metà dell’Ottocento la borghesia avrebbe imposto alla classe operaia la sua visione della famiglia come nucleo di parenti coresidenti, organizzati sotto il comando del capofamiglia ed economicamente dipendenti; insieme separato e non molestato dalla sfera pubblica. Questa formula sarebbe stata recepita, nonostante la famiglia operaia non fosse quasi mai in grado di vivere grazie al guadagno di un solo membro[14] (2014: 204). Inoltre, la Barrett mette l’accento sul processo di costruzione dell’identità di genere, che avverrebbe sia all’interno che all’esterno della famiglia, (2014: 206), considerando la famiglia come luogo di oppressione sia della donna che dell’uomo, il quale si vede limitato dal suo ruolo nella relazione con i figli (2014: 217).

Alquanto schematicamente – a mio parere – ritiene che il sistema familiare, che ha sviluppato tutta un’ideologia[15], benché buono per il capitalismo, non sarebbe effettivamente il più economico, comparandolo con le condizioni di vita dei migranti (2014: 221). Evidentemente non tiene conto del fatto che il capitalismo ha bisogno anche del consenso e che quindi non può ridurre tutti i lavoratori a poveri mendicanti, dovendo dimostrare, nonostante gli attuali sfaceli, che esso produce benessere e progresso. Con questo intendo dire che non sono solo considerazioni economiche a tenerlo in piedi (in base a un semplicistico materialismo), ma anche politiche, come la stessa Barrett riconosce.

Come vedremo nelle prossime pagine la questione centrale su cui si interroga la Barrett è questa: il nucleo familiare e l’ideologia, che ne è scaturita, riflettono effettivamente gli interessi del capitale?

La riproduzione sociale

In varie pagine della sua opera complessiva Marx descrive le relazioni uomo / donna come il riflesso della situazione storica, sottolineando anche che il grado di emancipazione della donna costituisce la misura della liberazione sociale[16]. A parere della Vogel, come si è già sottolineato, queste osservazioni non sarebbero però sufficienti a focalizzare il grave problema della relazione tra l’oppressione privata della donna, la produzione e la struttura di classe (2013: 142). Inoltre, la sociologa statunitense intende analizzare le modalità dell’oppressione della donna nella società capitalistica ed individuare le condizioni della sua liberazione (2013: 143).

Per avanzare in questa direzione, distingue tra consumo individuale e consumo produttivo; il primo si riferisce alla riproduzione della forza-lavoro nel processo immediato di produzione; il secondo si riferisce, invece, alla sostituzione generazionale, la quale può realizzarsi solo se interviene la riproduzione biologica, cui contribuiscono in misura diversa i due sessi dato che gli esseri umani non si riproducono per partenogenesi. In questo senso le differenze biologiche rappresentano la precondizione materiale su cui sono storicamente costruite le differenze di genere e su cui si basa la differente posizione sociale dei sessi nella società. Come si è più volte affermato, queste ultime non possono esser prese in considerazione separandole da un certo sistema sociale (Vogel 213: 145); ciò vuol dire che non è sufficiente il diverso ruolo biologico della donna a renderla un individuo subordinato.

Per la Vogel, come per Engels, la famiglia non deve essere intesa come un’istituzione universale astorica, giacché - come si diceva prima - sono documentabili diversi sistemi di famiglia e di parentela succedutisi nella storia, anche se credo l’essere umano non possa fare a meno di una struttura familiare. Quanto al lavoro necessario già esaminato, solo il processo di sostituzione generazionale richiede una divisione dei sessi – anche minima - nell’ambito lavorativo[17] (Vogel 213: 148).

Come abbiamo visto negli anni 60 e 70 con l’istituzione dello Stato sociale nei paesi a capitalismo avanzato, il fondamentale contributo della donna alla riproduzione sociale si è trovato ad essere alleggerito, dal momento che molte sue attività sono state socializzate, ossia svolte a spese della comunità. Tuttavia, come del resto si è constatato in precedenza, ciò fa sorgere una profonda contraddizione ineliminabile tra due elementi che non possono esser tralasciati: da un lato, il capitalismo tende a ridurre al minimo il contributo che dà al capo famiglia perché la sua donna allevi la classe lavoratrice del futuro, dall’altro la necessità inderogabile di assicurarla, pena la mancanza di lavoratori un domani sfruttabili. Ne consegue che secondo la Vogel ogni tentativo della donna di vedere soddisfatte le sue richieste in maniera più consistente mette in discussione la quantità di surplus di cui si appropria la classe dominante (2013: 151-153). Per questa ragione, dal punto di vista datoriale, è indispensabile rafforzare l’autorità maschile nella famiglia per tenere a bada il desiderio della donna di migliorare la sua condizione di vita, come d’altra parte è analogamente contrastata la tendenza maschile a liberarsi di questa responsabilità (Vogel 2013: 151-153)[18]. Nell’ambito capitalistico, le condizioni della famiglia operaia migliorerebbero se il valore della forza-lavoro equivalesse al valore dei confort che i salariati richiedono e che debbono basarsi sugli standard sociali raggiunti.

Naturalmente nella misura in cui, soprattutto a partire dalla Grande guerra, la donna ha cominciato a lavorare come salariata fuori di casa, la segregazione domestica è stata minata, benché sembri da vari sondaggi che la gran parte della cura domestica ricada ancora sulle sue spalle.

Come è noto, la condizione delle donne nelle classi dominanti è sempre stata assai diversa, dal momento che alcune possono delegare tranquillamente ad altre donne le fatiche della riproduzione sociale ed avvalersi, per esempio, di balie per l’allattamento[19], di precettori per l’educazione della prole, di domestiche per lo svolgimento delle faccende domestiche etc. Questa discrepanza sociale è presente nella produzione letteraria più raffinata, come nel caso di Honoré de Balzac, il quale con spirito fortemente razzista giungeva a considerare vere donne solo coloro che potevano dedicarsi alla cura della loro bellezza e ad accrescere il loro fascino. Si tratta di quelle donne che Pitigrilli, scrittore un tempo noto e informatore dell’OVRA benché ebreo, chiamò “mammiferi di lusso”, le quali d’altra parte diventavano perfetti oggetti di piacere, quali sono oggi molte attrici, dive pornografiche, modelle etc.

Il relativo predominio dell’uomo nella famiglia lavoratrice può essere incrinato se insieme con la donna lotta per condizioni di vita più degne, richiedendo con forza la creazione e il rafforzamento di istituzioni sociali volte a sostenere la sostituzione generazionale, tenendo sempre presente però che il lavoro domestico è bifronte: da un lato, indispensabile, dall’altro può ostacolare l’accumulazione (punto da chiarire). D’altra parte, come giustamente sottolinea la D’Atri, pur se l’astensione dal lavoro domestico come protesta è praticabile[20], di fatto, per le sue implicazioni morali può esser difficilmente protratto a lungo e anche per questo non può avere la portata dirompente del blocco della produzione intrapresa insieme da lavoratori e lavoratrici (v. video già citato).

Secondo l’ipotesi engelsiana, pur godendo di maggiore libertà rispetto alle loro sorelle lavoratrici, con il costituirsi della proprietà privata e la dissoluzione di quella collettiva, tipica di molte società precapitalistiche, la donna borghese fu costretta, almeno teoricamente[21], alla monogamia per garantire al marito che i figli fossero stati effettivamente generati da quest’ultimo e quindi fossero suoi eredi legittimi. Infatti, prima della scoperta della genetica, valeva il detto “Mater semper certa est, pater non semper”.

Per alcuni le donne, impegnate nel lavoro domestico, fanno parte dell’esercito industriale di riserva, cui ci si rivolge quando scarseggia la manodopera, come per esempio durante le due guerre mondiali, che videro milioni di individui impegnati ai fronti di battaglia. Tuttavia, bisogna tenere conto del fatto che, anche se nella società borghese tutti i lavoratori godono formalmente degli stessi diritti, i diritti delle donne di fatto non vengono rispettati, come per esempio, come accade ancora oggi, non ricevono, lo stesso salario per lo stesso lavoro[22]. In sostanza, come consistenti minoranze, di fatto non vedono onorati i loro diritti democratici[23]. Pertanto, le donne si trovano ad essere danneggiate da due punti di vista tra loro contraddittori: da un lato, se operano come lavoratrici salariate, non sono trattate come i lavoratori maschi e quindi maggiormente sfruttate, se restano al loro domicilio per lavorare faticosamente alla riproduzione sociale, restano isolate dalla società e forniscono un lavoro necessario, ma né pagato né riconosciuto. Secondo la Vogel esse si trovano in uno stato di oppressione duplice (2013: 174). Inoltre, lo status delle donne come esercito industriale di riserva deve essere conservato per mantenere basso il costo del lavoro, fatto da cui consegue il mantenimento della divisione sessuale del lavoro nell’ambito familiare.

Mentre solo le donne delle famiglie operaie partecipano in effetti alla riproduzione sociale, la mancanza di diritti coinvolge, oggi meno, anche le donne delle altre classi. Per i movimenti femministi borghesi il raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti costituisce un fine soddisfacente, benché lasci totalmente inalterato l’ordine vigente. Si accontentano di essere inglobate nella classe dirigente, finendo col rinnegare tutti quei tratti caratteriali, loro schematicamente attribuiti (sensibilità, tenerezza, emotività), per i quali per millenni le donne sono state apprezzate ma anche vituperate a causa della loro supposta insita debolezza. In realtà, questa contraddittoria valutazione della donna ne mette in evidenza l’ambiguità, che è poi la cifra della psicologia umana; da un lato, essere fragile e per questo adorabile e bisognosa di protezione, fatto che suscita il desiderio di tutela maschile; dall’altro, perché debole, costretta a ricorrere a infingimenti e sotterfugi, quindi menzognera, animata da sentimenti vendicativi, che si esplicitano nei casi estremi nella perfidia e nella crudeltà. Non c’è da meravigliarsi se, per esempio, nella mitologia greca la donna è stata cristallizzata nel classico personaggio dell’arpia, “rapitrice”, essere mostruoso con il volto di donna e dotato di adunchi artigli. Come si è già visto, esempi di questo tipo di donne emergono nel mondo politico e sono diventate famose per il loro cinismo e spietatezza, come nel caso notissimo di Madeleine Albright per la quale la morte di 500.000 bambini iracheni è stato un prezzo giusto da pagare per salvare la “democrazia”. Potremo ricordare anche l’inflessibile Victoria Nuland e il suo contributo allo scatenamento di una guerra sanguinosa e inutile[24].

Tirando le fila di questo discorso, giungiamo a delineare la complessità della condizione di oppressione della donna nella società capitalista: destinata alla riproduzione generazionale e per questo sostanzialmente sottomessa al capofamiglia, anch’egli del resto subordinato, delegato dai detentori dei mezzi di produzione a questo ruolo, lavoratrice salariata con meno diritti di fatto rispetto al suo compagno. Pertanto, appare evidente che la sua emancipazione è strettamente legata alla trasformazione sociale e alla costruzione di una nuova forma di società e che la meta del femminismo istituzionale è insoddisfacente per la maggioranza delle donne.

Torno su un aspetto che è molto importante per la Vogel e per me. A suo parere la famiglia costituisce il luogo fondato sulle relazioni di parentela, nel quale si realizza la riproduzione sociale, tuttavia, a suo parere l’oppressione della donna non si basa solo sulla divisione sessuale del lavoro, nel senso che si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente; essa si fonda piuttosto sulla responsabilità a lei attribuita di svolgere il lavoro domestico necessario alla sostituzione generazionale (2013: 176), ossia da una “decisione sociale”. Per questa ragione, come si sottolineava in precedenza la sua emancipazione non comporta necessariamente l’abolizione della famiglia, ma la sua ristrutturazione.

Nella società capitalista persiste l’opposizione tra il lavoro produttore del surplus e il lavoro necessario, con cui è acquistato quanto indispensabile alla sussistenza, tra il lavoro salariato e quello domestico che produce la speciale merce denominata forza lavoro, indispensabile allo sfruttamento (Vogel 2013: 178). Invece, in una società, esente dallo sfruttamento, il plus lavoro diventa il contributo degli individui alla riproduzione sociale ed è direttamente consumato dai lavoratori. In questo caso, le attività dedicate alla riproduzione non si trovano in contraddizione con la produzione del surplus e vengono condivise secondo quei famosi criteri che Marx indicò nella già citata Critica al Programma di Gotha.

La famiglia sovietica

La Rivoluzione del 1917 non si proponeva soltanto l’espropriazione dei mezzi di produzione, ma la costruzione di una società qualitativamente differente, in cui – come ho già detto – la vita quotidiana degli individui fosse totalmente diversa e tutti potessero partecipare alle più grandi produzioni culturali di tutti i tempi ed acquisire un’etica raffinata[25]. Ovviamente la realizzazione di questo processo è assai complicata e richiede tempi non prevedibili, come hanno sostenuto molti autori e militanti e come si ricava dalla nozione di “rivoluzione permanente”, che implica la necessità di continui e radicali cambiamenti. Pertanto, insieme ad altre istituzioni di capitale importanza, il lavoro domestico non venne immediatamente cancellato (né poteva esserlo) nella società in transizione al socialismo, benché si affermasse con forza la tendenza alla sua socializzazione ed alla sua condivisione. Ciò nonostante, la divisione del lavoro nella famiglia, incrostata in tradizioni millenarie presenti nel mondo rurale, non si presentò agevolmente superabile.

Molto è stato scritto sulla famiglia sovietica e sulle sue trasformazioni avvenute in relazione con il dispiegarsi delle fasi rivoluzionarie, ma credo che le poche pagine, che Edward H. Carr nella sua opera monumentale dedicò ad essa (1968, vol. I, pp. 27-36), restino utilissime per tracciare un quadro sintetico di questa istituzione, tenendo conto delle diversità sociali e culturali dell’immenso territorio occupato dal nuovo Stato.

Carr menziona il noto programma della Giovane Russia del 1862, concepito e scritto da Pëtr Zaičnevskij e da Gol’c-Miller, influenzato dalle idee politiche occidentali, il quale prefigurava una Repubblica federativa di carattere socialista e condannava fermamente la subordinazione della donna, sostenendo la necessità di abolire il matrimonio, di stabilire la completa uguaglianza tra i sessi e l’affidamento alla società della cura dei bambini. Questa impostazione della questione femminile prendeva spunto dalla nota affermazione di Engels, secondo cui “la liberazione delle donne presuppone come condizione preliminare il ritorno dell’intera popolazione femminile al lavoro sociale”; pertanto, se ciò fosse avvenuto, a suo parere, la famiglia individuale non sarebbe stata più “l’unità economica della società” (p. 27).

Una volta stabilita l’uguaglianza dei sessi, cadeva la vecchia doppia morale borghese e la donna, come l’uomo, veniva considerata libera di soddisfare i propri desideri sessuali, essendo questi impulsi del tutto naturali, come aveva scritto Bebel nel 1883.

Da queste idee scaturì la nota teoria del “bicchier d’acqua”, secondo cui fare l’amore significava soltanto seguire i propri più elementari istinti, senza nessuno scrupolo di ordine morale. Nel 1915 la bolscevica Inessa Armand scrisse un opuscolo sulla questione femminile, in cui proclamava il “libero amore”, richiesta non approvata da Lenin, che la condannò in quanto da ritenersi una concezione borghese.

Già nell’autunno del 1918 fu promulgato un nuovo codice del matrimonio, con cui si aboliva l’obbligatorietà del matrimonio religioso e si richiedeva solo la registrazione civile delle unioni. Nello stesso tempo si prevedeva anche l’annullamento automatico del matrimonio, nel caso ciò fosse richiesto da entrambi o solo da uno dei coniugi. Nel 1920 fu stabilito che abortire era legale, anche se si auspicava che in tempi migliori dal punto di vista economico e culturale non sarebbe stato sempre necessario sottomettersi a questo intervento (pp. 28-29).

Secondo Carr tali cambiamenti sono da considerarsi relativamente modesti e da inquadrare nelle rivendicazioni proprie del pensiero radicale borghese, tuttavia, posero al centro della politica del nuovo Stato la questione femminile e i problemi della famiglia, incarnata nell’arretrato modello contadino della Russia tradizionale. D’altra parte, durante il cosiddetto Comunismo di guerra furono soprattutto i gravissimi problemi dell’approvvigionamento alimentare, provocati dalla crisi economica e dal disastro della guerra civile, che spinsero il governo sovietico a istituire mense pubbliche. Lo stesso può dirsi a proposito della cura pubblica dei bambini che, per il fatto di trovarsi in gran numero senza genitori, furono collocati in apposite istituzioni pubbliche, purtroppo alquanto carenti. Bisogna anche aggiungere che nelle regioni asiatiche del paese, dove fioriva ancora la famiglia poligamica e patriarcale, la resistenza alle trasformazioni fu fortissima e in molti casi le nuove leggi non furono rispettate.

La posizione più estrema in questo ambito fu sostenuta da Aleksandra Kollontàj (v. La Villa 2017), primo ministro donna al mondo e membro dell’Opposizione operaia[26], per la quale la famiglia, insostenibile istituzione borghese, non era ormai più necessaria e occorreva favorire nella classe lavoratrice lo sviluppo di una vita sessuale meno limitata e più variegata[27]. Come si è già visto, queste idee non erano condivise da Lenin, il quale nelle sue conversazioni con Klara Zetkin sostenne posizioni vicine ad una concezione che potrebbe esser considerata tradizionale della famiglia. Questa è una sua frase riportata dalla Zetkin: “La rivoluzione esige concentrazione, tensione del­le forze. Dalle masse e dagli individui. Essa non può tol­lerare stati orgiastici, del genere di quelli propri delle eroine e degli eroi decadenti di D’Annunzio. Gli eccessi nella vita sessuale sono un segno di decadenza borghese”[28].

Su questo tema si trovò d’accordo con Leon Trotskij, il quale ebbe a sottolineare nel 1923 che le idee della Kollontàj avevano avuto il difetto di indebolire il senso della responsabilità dei genitori verso i figli; indebolimento da cui derivava lo spaventoso incremento del numero dei bambini abbandonati in Russia che si trasformavano in bande di piccoli criminali. In precedenza, al V Congresso del Komsomol (1922) anche Nikolay Bucharin si era espresso negli stessi termini, criticando sia la rilassatezza sessuale sia l’uso eccessivo di alcol e tabacco. Carr stabilisce un collegamento tra questa virata ideologica e i mutamenti dovuti all’affermarsi della NEP (pp. 29-32). A partire da questo momento con la conclusione della guerra civile, con lo stabilizzarsi della vita quotidiana fino al 1936 e nel dopoguerra vengono emanate leggi che mirano al ristabilimento della famiglia tradizionale, dettato anche dalla volontà di far fronte agli sconvolgimenti prodotti dalla guerra, che aveva spopolato l’Unione sovietica e alterato l’equilibrio tra il numero degli uomini e quello delle donne.

Nonostante Lenin, sempre conversando con la Zetkin, avesse definito le teorie di Freud solo una moda, per giustificare l’ostilità verso la teoria del libero amore i politici sovietici finirono con l’impiegare il concetto psicoanalitico di sublimazione. In particolare, come ci racconta Carr (p. 32-33), è Nikolay Semashko, commissario del popolo per la Sanità della RSFSR, a proporlo; in un articolo pubblicato nel 1925, richiamandosi appunto a questa nozione, scrisse: “Consumate la vostra energia sessuale nel lavoro di pubblica utilità… Se volete risolvere il problema sessuale, siate un lavoratore sociale, non uno stallone o una cavalla da riproduzione” (Carr 1968: 33).

Non so se chi vorrà leggere queste pagine comprende a tutta prima che questa posizione scaturisce dal considerare l’essere umano un animale sociale e inevitabilmente sottende una concezione etico-politica marxista, le cui radici risalgono alla temperanza degli antichi greci, e a cui in questa sede farò solo un breve riferimento.

Queste considerazioni scandalizzeranno coloro che identificano il marxismo con la “scienza”, non scorgendone la dimensione etica e dimenticando che la stessa scienza, in quanto concezione del mondo con certe specifiche caratteristiche, è inevitabilmente connotata socialmente, politicamente e eticamente, tant’è che gli irrazionalisti e gli antiscientifici sono definiti nichilisti, con una qualificazione quindi morale. Ovviamente su tale argomento esiste una sterminata letteratura e un agguerrito dibattito, di cui certo non posso dare conto in questa sede. Mi limiterò a ricordare l’ormai obliato L’ape e l’architetto (AA. VV., 1976) e a citare un prodotto delle scienze cosiddette dure, che sviluppa in maniera argomentata questo tema, The Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (1987), in cui nella prospettiva dialettica si scandaglia la natura politica della ricerca scientifica. E tutti converranno che è impossibile separare la politica dall’etica.

Come Lenin, Trotskij e Gramsci, quindi a mio parere in buona compagnia, in un mondo che ha fatto dell’edonismo superficiale a tutti i costi il solo obiettivo ed ha smantellato la profondità psicologica degli individui, rischierò anche io di essere considerata tradizionalista e conservatrice, difendendo due dimensioni: 1) la riconversione delle nostre energie vitali che ci riscatta dalla nostra ineliminabile animalità; 2) la famiglia, non quella borghese, certamente ristrutturabile in quanto essa costituisce un’istituzione indispensabile allo sviluppo di una psicologia equilibrata e aperta alle relazioni umane.

Ora metterò in evidenza e rapidamente alcuni aspetti della nozione freudiana di sublimazione, esaminandone il vincolo tra la naturale socialità dell’individuo, la sua passionalità e le sue diverse attività, in primis quella politica. Si tratta di una nozione complessa che, a tutta prima (Ambrosiano 2013), può essere intesa come il risultato dell’inibizione della vita sessuale, se ci riferiamo allo scritto del fondatore della psicoanalisi del 1910 (Freud, Opere, vol. 6, 213-276, Boringhieri, Torino 1974), dedicato al grande Leonardo. Tuttavia, questa interpretazione risulta alquanto semplicistica e non fa giustizia dell’ampia concezione freudiana tesa a conciliare pulsioni opposte, in una prospettiva secondo la quale la pulsione sessuale opera come “scintilla divina” (espressione freudiana, pag. 221), da cui prendono corpo le molteplici forme di attività. Inoltre, la conciliazione delle pulsioni e la loro comune origine contraddice la contrapposizione schematica tra pulsioni basse e alte, osteggiata da Freud, ribadendo la visione della psiche come un tutto articolato e interconnesso.

Dinanzi all’insorgere di una pulsione, che l’individuo non può controllare, sorge in lui la preoccupante dipendenza da un’entità esterna-interna (inconscio, oggetti, altri), che egli combatte ed elimina mediante la repressione e l’inibizione. Tuttavia, secondo Freud questi ha anche un’altra possibilità più arricchente: volgersi al percorso della sublimazione, la quale ‹‹è un processo che interessa la libido oggettuale e consiste nel volgersi della pulsione a una meta diversa e lontana dal soddisfacimento sessuale›› (cit. in Ambrosiano 2013), avendo a mente che le pulsioni hanno una natura vagabonda e che, pertanto, sono in grado di fissarsi su oggetti diversi. In sostanza, la sublimazione ‹‹offre – continua Freud - una via di uscita in virtù della quale le esigenze dell’Io possono essere soddisfatte senza dar luogo a rimozione›› (cit. in Ambrosiano 2013). Infine, per realizzarsi il processo di sublimazione necessita dell’introiezione in virtù della quale – come ricorda la già citata Ambrosiano – l’Io assorbe su di sé la libido oggettuale potenziandosi e ricevendo un soddisfacimento narcisistico[29]. Naturalmente occorrerebbe in questo caso essere più precisi, ma mi limito ad osservare che Freud distingue tra le pulsioni sessuali e la pulsione dell’Io, dalla quale scaturisce l’Io ideale, cui ci sforziamo costantemente di somigliare, sotto la sorveglianza di un’entità dotata di proprietà censorie, definita da Freud “coscienza morale”, formatasi con la cristallizzazione delle critiche provenienti dai nostri genitori e dalla società.

E a questo punto, come nota la Ambrosiano, Freud osserva che purtroppo la storia della nostra civiltà ha spezzato il legame tra la sessualità e la dimensione del divino, dal momento che abbiamo desacralizzato la natura e il profondo ardore di sviluppare la sua conoscenza, prima intesa in senso religioso. Al contrario, Leonardo sarebbe un esempio perfetto della riuscita del processo di sublimazione, in cui ha investito tutto il suo formidabile desiderio di conoscenza, coniugando la sua passionalità psico-culturale, che quindi non evapora, con l’accurata indagine del mondo naturale. Tuttavia, molto probabilmente si potrebbe dire di Leonardo, famoso per le sue molteplici attività, che il fondatore della psicoanalisi definisce indifferente alla sessualità, abbia indirizzato tutte le sue energie vitali verso lo studio e la conoscenza, lasciando sguarniti gli altri fronti emotivi, su cui tutti gli esseri umani si trovano sempre a combattere.

Concludendo brevemente questo discorso, mi pare che ai nostri fini ci sia da mettere in rilievo che la dinamica dei meccanismi psichici profondi sta in relazione con la vita collettiva (la coscienza morale), e che l’impegno sociale produce quel riconoscimento e soddisfacimento che l’isolamento non può dare.

Ritornando alla concezione del “bicchier d’acqua”, criticata da Lenin, sulla scia del concetto di sublimazione essa può esser rigettata senza per questo ricadere nel tradizionalismo e nel conservatorismo, ma riallacciandosi all’etica marxista, presente in tutta l’opera di Marx e successivamente sviluppata dai suoi illustri seguaci, magari non sempre consapevolmente.

Il suo primo carattere è dato dall’anti-utilitarismo, opposto quindi all’utilitarismo borghese che ricerca sempre la soddisfazione immediata e il vantaggio prodotto dal calcolo materiale, senza preoccuparsi dei vantaggi della collettività. Per illustrare questa visione è indispensabile rievocare i Manoscritti economico- filosofici del 1844, non separabili dall’intera opera marxiana, e riprendere la nozione feuerbachiana di uomo come “essere generico”.

Secondo Feuerbach e secondo Marx, questo aggettivo indica il carattere che distingue l’uomo dall’animale e sottolinea la capacità del primo di innalzarsi al di sopra dell’esistenza individuale e particolare. Scrive Ludwig Feuerbach, spiegando che la coscienza distingue l’uomo dall’animale: “Si ha coscienza in senso stretto quando un ente ha per oggetto il suo genere (Gattung), la sua essenzialità. L’animale ha sì per oggetto se stesso come individuo – perciò ha sentimento di sé -, ma non come genere[30]; perciò gli manca quella coscienza che deriva il suo nome da scienza. Dov’è la coscienza c’è facoltà di scienza (Wissenschaft). La scienza è la coscienza dei generi… L’animale ha solo una vita semplice, l’uomo duplice: nell’animale la vita interiore coincide con quella esteriore – l’uomo ha una vita interiore e una esteriore. La vita interiore dell’uomo è la vita in rapporto al suo genere, alla sua essenza universale” (cit. in Marx 2018, nota 18 p. 138).

Mi pare che le conseguenze, che si possono trarre da queste considerazioni, siano che il “bere il bicchier d’acqua” relega l’individuo nella sua vita particolare e lo rivolge esclusivamente alla ricerca di piaceri limitati ed effimeri. Mentre, l’investimento delle sue pulsioni vitali in un progetto comune gli consente un salto di qualità e lo colloca al livello della collettività e dei fini di quest’ultima. Ovviamente da ciò non si evince che le relazioni sessuali siano condannabili, ma debbono costituire la base di un rapporto interumano profondo e rispettoso, in cui i legami sono costituiti dalla condivisione di un analogo disegno di vita, soprattutto nel caso della nascita dei figli, e che debbono essere sostenuti da un solido background morale ed emotivo.

Tre posizioni

Ho preso le mosse da un punto di vista storicizzante, che mi ha consentito di sottolineare la natura storica del patriarcato, ma che nello stesso tempo, nella relazione dialettica tra natura e cultura, questo mi ha condotto a considerare il ruolo biologico della donna come la precondizione materiale utilizzata dalle varie forme sociali succedutesi sino ad oggi per imporre la subordinazione, secondo vari gradi, di quest’ultima. Ma, come sostiene la Barrett, questa struttura subordinante non è inevitabile e può essere modificata. A suo parere essa si è perpetuata a causa di quell’ideologia di origine precapitalistica, che presuppone l’esistenza di un legame naturale tra la donna e la sfera domestica (qui si debbono fare delle precisazioni).

Sempre secondo la Barrett il momento storico, in cui viene alla luce il sistema familiare domestico, fondato sul nucleo familiare, si situa alla metà del XIX secolo nella fase in cui capitalisti e lavoratori si sarebbero coalizzati contro le lavoratrici per estromettere le donne da una serie di attività qualificate e pericolose, quali per es. il lavoro nelle tipografie e in miniera[31], che garantivano però agli uomini un maggiore guadagno. Ne consegue che secondo la studiosa britannica la divisione sessuale del lavoro nella famiglia e quella nel mercato del lavoro si sono rafforzate reciprocamente, anche perché le donne che lavoravano in forma precaria e parziale ricevevano salari inferiori.

In questo caso – mi pare - che la Barrett, per paura di cadere nel riduzionismo biologistico, secondo cui ci sono dei compiti che solo la donna può assolvere, ricorre all’espediente dell’ideologia precapitalistica (2014: 8). La divisione sessuale del lavoro, in seno alla famiglia e al mercato, si sarebbero rafforzate l’un l’altra e per questa ragione si sarebbe imposta l’oppressione della donna, benché essa non sia necessariamente inerente alla logica della dinamica capitalista né nell’opinione della Barrett costituisca il metodo migliore per salvaguardare il tasso di profitto; giudizio condiviso da Irene Bruegel (1978), altra importante studiosa britannica.

Quest’ultima in un interessante saggio sostiene, invece, che, nella misura in cui, la donna viene incorporata nell’attività produttiva il valore socialmente determinato della forza lavoro diminuirebbe, perché il padrone non ha più bisogno di pagare il lavoro domestico per il nucleo familiare, limitandosi a pagare i costi per la riproduzione del singolo individuo[32]. Inoltre, sempre la Bruegel osserva che, in questo caso, il capitalista risparmierebbe i costi del lavoro domestico, svolto dalla donna, giacché ogni singolo lavoratore dovrà preoccuparsi della sua stessa riproduzione. Sarebbe questa una tendenza compensativa, con cui si riesce a mantenere basso il costo del lavoro, fino a ridurlo al costo della riproduzione individuale (Bruegel 1978: 5). Ma, in questo caso, mi pare non si tenga conto dei costi della produzione dei nuovi lavoratori, costi che restano anche nelle famiglie monoparentali.

Scrive Marx: «Il valore del tempo di lavoro era determinato non soltanto dal tempo di lavoro necessario al mantenimento del singolo lavoratore adulto, ma anche da quello necessario al mantenimento della sua famiglia. Le macchine, immettendo ogni membro di quella famiglia nel mercato del lavoro, distribuiscono il valore della forza lavoro dell'uomo su tutta la sua famiglia. In tal modo svaluta la sua forza lavoro... il capitale, allo scopo della propria espansione, ha usurpato il lavoro necessario nella casa della famiglia» (cit. 1978 pag. 5). 

Tuttavia, come scrive la nostra autrice, se l’oppressione femminile non costituisce un presupposto indispensabile del capitalismo, teoricamente potrebbe essere anche possibile che le donne conquistino l’emancipazione nella società capitalistica; emancipazione basata su una diversa divisione del lavoro nella sfera domestica, sull’indipendenza economica, sulla trasformazione dell’ideologia del genere. Purtroppo, secondo la studiosa britannica tali cambiamenti sono difficili da realizzare nell’attuale contesto, perché[33] quell’ideologia è fortemente intrecciata ai rapporti capitalistici.

Joanna Brenner e Maria Ramos (2017) rimproverano alla Barrett di non esser riuscita ad individuare come i meccanismi sessisti siano intrinsecamente legati alla massimizzazione del profitto. Dato che, come si è già detto, la contraddizione capitale / lavoro è “cieca rispetto al genere”, secondo le due autrici, il marxismo non potrebbe spiegare l’oppressione della donna. Si chiedono come una teoria economica, che non si pone il problema della differenza dei sessi, che non considera giustamente le donne una classe sociale, può spiegare la motivazione della loro duplice subordinazione (economico-sociale e familiare) (2017: 8). In altre parole, ciò vuol dire che la divisione sessuale del lavoro non è consustanziale al capitalismo, la precede e che per ragioni storiche e contingenti è stata da esso perpetuata. Tuttavia, una volta stabilita questa pratica, il capitalismo non può disfarsene facilmente, per una serie di ragioni su cui di volta in volta mi soffermerò.

Riconoscendo che non c’è una ragione economica alla base del sessismo, la Barrett ritiene che ve ne sia una politica, perché la differenza sessuale, in particolare oggi, contribuisce a dividere e indebolire la classe operaia. Esso agirebbe plasmando l’identità soggettiva come una forza materiale, operando ad un livello più profondo della cosiddetta “falsa coscienza”. Inoltre, un altro suo pilastro sarebbe rappresentato dall’esclusione della donna dai sindacati[34] e dalla legislazione protettiva della donna introdotta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a partire della metà dell’Ottocento, che ha vietato a quest’ultima certi lavori, ritenuti pericolosi per il suo ruolo di riproduttrice, e il lavoro notturno, impedendole così di competere con gli uomini e relegandola nella sfera domestica (Brenner e Ramos 2017: 9-10)

Da parte loro, la Brenner e la Ramos sottolineano che le rivendicazioni dello Short- Time Movement, in parte accettate nel Ten Hours Bill del 1847 in Gran Bretagna, avevano come obiettivo ottenere la riduzione delle ore lavorative per tutti. E pertanto, non ritengono sufficiente questo argomento per spiegare la segregazione femminile nel lavoro domestico, riprendendo la motivazione già menzionata in precedenza che sottolinea l’importanza decisiva del ruolo biologico della donna. Ruolo che a mio parere rappresenta – ripeto - solo la precondizione materiale che i diversi sistemi sociali recepiscono in forma diversa, la cui negazione da parte di certe femministe implica il misconoscimento della differenza tra i sessi o il dare per scontato che tale differenza debba essere intesa astrattamente nei termini di inferiorità e superiorità. Dal punto di vista psicoanalitico, si potrebbe essere più cattivi ed affermare che, in alcuni casi, l’aspirazione ad un’astratta uguaglianza nasconde la non accettazione del ruolo di madre cha la natura ci ha assegnato, che d’altra parte oggi può essere evitato con molti mezzi, senza richiamare alla mente “vituperati” fardelli femminili.

Esaminando le condizioni della classe operaia fino al XX secolo, che non comprendevano nessun servizio sociale gratuito (per es. maternità pagata, sussidi per le madri sole etc.) e che implicavano miseri salari, la Brenner e la Ramos ritengono che il sistema domestico, con la scontata separazione della donna dal mondo produttivo, non poteva non essere vincente.

D’altra parte, aggiungo io, come si può considerare liberatorio per una donna lavorare in miniera o in altre attività ugualmente estenuanti? L’emancipazione si realizza compiutamente solo quando uomo e donna svolgono un lavoro gratificante e arricchente, il partecipare all’attività produttiva in sé può esser positivo fino ad un certo punto, altrimenti non si sarebbe parlato di “servitù salariale”. In questo senso, solo il socialismo può emancipare la donna, che altrimenti sarebbe subordinata alla pari dell’uomo, anche se non sottoposto alla schiavitù familiare.

Condivido quanto affermano le due studiose, secondo le quali “date le condizioni storiche in cui è emerso il sistema economico, le forze produttive e i rapporti di produzione capitalisti hanno conferito alla riproduzione biologica una capacità di coercizione” (2017: 23). Aggiungono, inoltre, che, in mancanza di un sistema previdenziale, sino ai primi decenni del Novecento, i figli adolescenti degli operai hanno continuato a lavorare per sostenere i loro genitori ormai vecchi.

Giacché la divisione sessuale del lavoro e le differenze economiche sono più antiche del capitalismo, l’impiego del sistema domestico per la riproduzione generazionale restava il più opportuno, anche perché da un lato i capitalisti non avevano intenzione di fare concessioni ai loro subordinati, e dall’altro questi ultimi non avevano la forza per ottenere miglioramenti nelle loro condizioni di vita. Ma ciò ha prodotto ulteriori conseguenze così descritte dalle due studiose: “Nella misura in cui il sistema familiare domestico ha contribuito a collocare le donne nelle posizioni più precarie del mercato del lavoro, ha contemporaneamente accentuato lo squilibrio di forze tra i sessi, consentendo agli uomini di esercitare un controllo sulla sessualità delle donne, di trasferire su di esse gran parte del fardello del lavoro domestico e di formulare richieste emotive non reciproche” (2017: 29).

Proseguendo nella loro analisi storica della condizione della donna, le due autrici evidenziano che, dopo la Seconda guerra mondiale, l’evoluzione del capitalismo ha preso un’altra direzione che ha fatto scomparire la tradizionale casalinga a tempo pieno. Anche questo fenomeno è riconducibile alla dinamica capitalistica che, nella rincorsa verso il profitto, opera per aumentare la produzione e, di conseguenza, ha bisogno di una quantità maggiore di mano d’opera.

Nei cosiddetti trent’anni gloriosi, ossia nella fase della crescita economica, la produttività del lavoro è aumentata e così i tassi profitto; da ciò è derivato l’incremento dei salari. D’altra parte, aggiungo, la presenza di un altro modello economico-sociale, che esercitava una certa attrazione (l’URSS), ha sollecitato il capitalismo a dar vita al cosiddetto Stato sociale: pensioni, sanità, educazione etc. Inoltre, il mercato ha fornito tutta una serie di merci che hanno notevolmente alleviato il lavoro domestico, per tanto le donne hanno potuto impegnarsi in due attività, riducendo il loro tasso di fertilità, perché nelle nuove condizioni non era più necessario il lavoro dei figli adolescenti e diminuiva fortemente la mortalità infantile. L’acquisizione di questo nuovo ruolo da parte delle donne le ha incoraggiate a mettere in discussione la famiglia tradizionale e a scoprire un nuovo protagonismo. Tuttavia, il peso del lavoro domestico, dell’educazione dei figli, almeno fino agli anni ‘80, è rimasto sulle spalle delle donne, benché la situazione si sia fatta più fluida e gli uomini siano sempre più pressati a condividere il lavoro domestico.

Come si vede, anche in questo caso i cambiamenti adottati dal capitalismo non avvengono direttamente per aumentare il tasso di accumulazione, ma per motivazioni politiche, che dovevano assolutamente ricevere risposta, pena la messa in crisi di tutto il sistema e quindi il predominio dei padroni e la garanzia del tasso di profitto. A questo punto è importante sottolineare che il marxismo non spiega tutto in base alle dinamiche economiche, ma riesce a collegare le varie istanze sociali impiegando il concetto centrale di totalità, senza il quale la sua superiorità sulle altre teorie sociali sarebbe nulla.

Analizzando questi fenomeni, la Brenner e la Ramos sottolineano due tendenze contraddittorie del sistema capitalistico, il quale se da un lato, per l’incremento delle forze produttive, sospinge la donna a diventare una salariata, dall’altro opera per attaccare il tenore di vita dei lavoratori, intensificando la divisione sessuale del lavoro nell’ambito domestico e il livello del lavoro produttivo. Del resto, quest’ultima tendenza impedisce di fornire alla famiglia operaia sostegni adeguati e di qualità per supportarla nel processo di riproduzione sociale. In effetti, se ai lavoratori venissero resi disponibili asili nido, un orario flessibile, congedi parentali e tutto ciò che è necessario per migliorare la loro condizione di vita, il costo della forza lavoro diverrebbe spropositato e insostenibile nell’ottica capitalistica. Queste carenze, accompagnate da sostegni minimi ai figli più che alle donne, rafforzano la necessità della divisione sessuale del lavoro, nonostante che il capitalismo per il bisogno costante di avere lavoratori salariati conduca alla equiparazione dei sessi. In questo contesto più avanzato, per garantire l’accumulazione capitalistica occorre incrementare una politica di assistenza sociale poco costosa, che non comprometta i profitti e che non pregiudichi il bisogno di lavorare (2017: 92).

Ovviamente le ripetute crisi economiche rendono ancora più difficile questa situazione e sicuramente in questo caso sono le donne che per prime lasciano o perdono il lavoro, e tornano a casa per ammortizzare i costi della riproduzione sociale. E in questo contesto l’ideologia tradizionale gioca un ruolo importante nel ribadire che spetta alla donna restare a casa.

Come si è osservato in precedenza, tutte queste rivendicazioni, relative al miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, non possono che incidere sui tassi di profitto e per questo non possono essere ben accolte dai datori di lavoro; pertanto, potranno essere ottenute solo con la lotta e la mobilitazione, che debbono tenere conto dei punti indicati in precedenza nel cosiddetto programma minimo e di transizione, il quale deve essere scritto e elaborato con un significativo contributo delle donne inserite a pieno titolo nei sindacati. Naturalmente oggi le rivendicazioni di questi programmi debbono centrarsi nella ricostituzione dello Stato sociale, che negli ultimi decenni è stato spietatamente smantellato e che dovrebbe garantire tutti quei servizi indispensabili per far pesare sulla collettività tutte quelle cure non implicanti una relazione personalizzata figli-genitori. Da notare, tuttavia, che l’assistenza sociale somministrata dagli Stati capitalistici non ha mai superato un livello minimale assai poco qualitativo, giacché – come si è detto - non si può consentire che ci siano individui che non abbiano bisogno di lavorare. L’inconsistente aiuto statale è anche volto al mantenimento del sistema domestico, che ancora danneggia le donne e che alimenta la loro dipendenza. La sua persistenza e con esso della famiglia sollecita molte femministe ad auspicare l’abolizione di quest’ultima insieme a quella della femminilità; richiesta che non mi convince come si vedrà più avanti.

In definitiva, mi sembra che, concludendo questa analisi delle diverse posizioni assunte rispetto all’oppressione della donna nella società capitalistica nelle sue varie fasi, la Barrett attribuisce un ruolo determinante all’ideologia della famiglia di origine precapitalistica, cercando di sfuggire all’economicismo da un lato, dall’altro al culturalismo delle teorie dualiste, che scindono l’emancipazione della donna dalla lotta di classe o la considerano come una lotta a sé (2014: 95). D’altra parte, proprio ricorrendo al già citato concetto di totalità, le due dimensioni non si escludono a vicenda, giacché le scelte politiche si fanno sempre a vantaggio di un sistema economico. Individuare motivazioni non direttamente economiche non significa non essere marxisti, ma non adottare uno stanco ed esaurito economicismo.

D’altra parte, la Brenner e la Ramos, con cui mi sento in maggiore sintonia, hanno mostrato come i rapporti di classe, coniugati ai fattori biologici della riproduzione, abbiano rafforzato il preesistente sistema domestico, rendendo la donna più fragile sia nell’ambito familiare che nell’ambito economico, in quanto sfruttabile con minori diritti rispetto all’uomo. Non dobbiamo, tuttavia, considerare questa situazione cristallizzata, in quanto si è storicamente modificata nella misura – come si è visto – in cui si è sviluppato la Stato sociale, grazie ai contraccettivi le donne hanno stabilito un diretto controllo sulla loro fertilità ed hanno immaginato di poter rivoluzionare il sistema domestico.

Come accennavo in precedenza, con l’affermarsi del neoliberismo, che ci ha offerto anche un’ideologia apparentemente contestatrice dello stesso detta postmodernismo[35], la distruzione dei diritti dei lavoratori, dello Stato sociale, con l’imposizione della precarietà lavorativa, i costi della crisi capitalistica (come sostengono molti studiosi, tra i quali David Harvey 2007) sono stati tutti fatti pesare sul costo del lavoro, rendendo sempre più difficili le condizioni delle famiglie salariate. Questi processi hanno toccato sia uomini che donne e hanno reso sempre più instabili le relazioni tra di loro, perché al contempo hanno dirottato le vere cause del malessere verso una perniciosa guerra tra i sessi, partendo dal presupposto anti-dialettico che il genere sia una creazione puramente culturale. Pertanto, mi sembra più che opportuno considerare la relazione uomo/donna, scandendola storicamente e ponendola sempre in relazione con le differenti fasi del sistema capitalistico, ora nella sua versione tarda, che oggi ha anche bisogno della guerra per mantenere la sua egemonia. Come si vede, dunque, uomo e donna sono affratellati da questa triste condizione contro la quale debbono lottare uniti.

La disgregazione della famiglia

Un altro aspetto molto interessante relativo alla relazione tra marxismo e femminismo e alla natura storica della famiglia sta nell’osservazione, anche da me formulata (v. più avanti), secondo cui – come si è già affermato – il sistema capitalistico avrebbe nei confronti della famiglia un atteggiamento fortemente contradditorio. Infatti, per varie ragioni esso opera per mantenerla in vita e nello stesso tempo mira a disgregarla. La Barrett su questo interessante tema cita il saggio – già ricordato - di Irene Bruegel del 1978, dedicato ai fattori che fanno perpetuare la famiglia. In questo scritto si descrivono il declino del ruolo del capofamiglia, anche perché il suo salario è sempre meno determinante per il sostentamento dei suoi conviventi, l’aumento delle famiglie senza figli o formate da una sola persona, l’intervento del capitale, che per garantirsi un numero maggiore di lavoratori produce merci che sono in grado di svolgere molte attività domestiche, alleviando la donna dalla doble jornata lavorativa.

Un recente e tragico fatto di cronaca, che ha visto l’uccisione di un’altra giovane donna da parte del suo fidanzato, un giovane probabilmente depresso e fortemente disorientato – condizione assai diffusa nella società contemporanea -, ha fatto ritornare alla ribalta l’irrisolto problema dell’oppressione della donna e della sua emancipazione, ma a mio parere è stato mal posto e interpretato – come avviene da molto tempo - in maniera strumentale. In particolare, come tutti ricorderanno, è stato chiamato in causa per l’ennesima volta il patriarcato, e ci sono stati anche noti intellettuali come Andrea Zhok e Massimo Cacciari che hanno criticato questa tesi semplicistica.

In precedenza ho già affermato la mia opinione, identica a quella di molte femministe militanti: chiamare in causa il patriarcato, che rappresenta solo una forma storica di famiglia, vuol dire eternizzare qualcosa che eterno non è, è decontestualizzare e destorificare, evitando così di mettere in questione la struttura della società attuale. Atteggiamento che caratterizza lo schema esplicativo di tanti altri fenomeni oggi sconvolgenti e rilevanti, come si fa abitualmente nel caso dei conflitti attuali, il cui inizio è stabilito arbitrariamente senza nessuna contestualizzazione storica per assecondare un certo blocco di potere a vantaggio di un altro. Oppure esso esprime un ipocrita moralismo, ben espresso dalle parole della Meloni, che attribuisce a tutti indifferentemente la responsabilità dell’accaduto, cadendo quindi nella lapalissiana contraddizione “tutti colpevoli, nessuno colpevole”.

Senza voler ricostruire la complessa storia dell’oppressione della donna (v. mio articolo citato), questa si è fondata su un complesso intreccio tra la differenza biologica tra i sessi e l’uso che di questa differenza hanno fatto i vari sistemi sociali succedutisi nella storia. Nella sostanza, essa non è il risultato della pura materialità né della pura socialità e cultura (non ci sono mai state società in cui gli uomini abbiano partorito), ma dell’incastro tra le due dimensioni; incastro che nelle società capitalistiche avanzate ormai in piena crisi non solo economica, ma anche sociale e culturale, si è fatto sempre più conflittuale e problematico e soprattutto ai danni di uomini e donne, appartenenti soprattutto alle classi popolari. Le ragioni di questa problematicità sta nel fatto che, date le trasformazioni innescate dalle politiche neoliberali, il capitalismo ha portato avanti, in maniera contraddittoria, la disgregazione della famiglia, rendendo instabile l’attività lavorativa, la sicurezza economica, cancellando gran parte dei servizi sociali, attribuendo alle stesse relazioni parentali colpe che esse non hanno etc., e alimentando sempre una maggiore conflittualità all’interno del nucleo familiare, che non è più in grado di garantire un sereno accudimento dei figli e una convivenza pacifica esente da recriminazioni. In questo contesto salta la parità e ognuno si sente autorizzato a prevalere sull’altro.

Qualcuno dirà che oggi ci sono donne presidenti del consiglio o della repubblica, ma questi eventi possono piacere a coloro che si ritengono soddisfatti del successo di qualcuna, permanendo identiche le strutture sociali, che impediscono una reale emancipazione delle donne nella loro totalità. Mi riferisco qui a intellettuali che sono tutti contenti se si usa il femminile invece del generico maschile o quando in un certo contesto le appartenenti al cosiddetto bel sesso sono ben rappresentate indipendentemente dalle loro capacità e competenze.

La grave crisi, che stiamo vivendo e dalla quale non è immaginabile come usciremo, ha profondamente cambiato la famiglia, innescandone la disgregazione e provocando serie conseguenze a livello sociale e psicologico come l’instabilità emotiva, il senso di precarietà, il disperato bisogno di un qualche punto di riferimento stabile, di essere riconosciuti e non solo usati nella relazione. Si tenga presente che in Italia, il numero delle famiglie formate da una sola persona (quindi non più famiglie nel senso classico) è in costante aumento e rappresenta oggi il 33,3% della totalità.  

Come si è detto, è stata la stessa politica capitalistica degli ultimi trenta anni che ha favorito questo processo, per garantirsi la rivincita sull’antico patto keynesiano di postguerra, rendendo instabile la vita lavorativa, anzi presentando “questa flessibilità” come un beneficio per gli stessi lavoratori, diffondendo l’ideologia dell’individualismo asociale, che mette al primo posto qualsiasi desiderio o capriccio del singolo, anche irrealistico, per stimolare il consumismo, che fa del possesso mercificante non patriarcale l’unico strumento adeguato per raggiungere il prestigio e il riconoscimento sociali. Tutti questi elementi hanno riplasmato le relazioni umane, minandone le basi fondamentali, rendendole sempre più precarie, più conflittuali, più superficiali. Tuttavia, pur avendo oggi a disposizione lavoratori belli e pronti (gli immigrati), il capitalismo attuale ha sempre bisogno che qualcuno svolga al più basso costo possibile il ricambio generazionale, sollecitando così le due tendenze contraddittorie: necessità della permanenza della famiglia e necessità della sua dissoluzione per dare sempre più spazio a un individuo narcisistico e infantile volto all’effimero consumo e incapace di accettare la frustrazione e sconfitta, la cui colpa è sempre scaricata su chi gli è più vicino e magari psicologicamente sottomesso. E la ferita narcisistica è implacabile, può scatenare la violenza e la vendetta, perché mette in questione l’immagine che ci siamo creati di noi stessi. In un certo senso, assomiglia alla reazione genocida di Israele nei confronti di Hamas che ha svelato al mondo la sua debolezza e fragilità, ed ora sta mostrando a tutti la sua la sua indegnità morale, giacché viola quotidianamente i più elementari principi del diritto internazionale.

Pur tenendo conto del fatto che non siamo tutti uguali (uomini e donne), a causa del suo più che millenario legame con la vita domestica, dell’essere purtroppo più spesso misconosciuta la donna è più disposta ad accettare un diniego, una sconfitta, oppure a causa della conquistata libertà sessuale grazie ai contraccettivi ha acquistato maggiore sicurezza nella scelta dei suoi legami sentimentali. Pertanto, credo – sempre tenendo conto dei diversi contesti – che le donne in genere riescano a riorganizzare meglio la loro vita dinanzi anche a un sofferto abbandono e a trovare in loro stesse maggiori risorse sentimentali per far fronte alle inevitabili difficoltà cui si debbono con fatica confrontare. D’altra parte, è abbastanza noto che in Italia vi siano attualmente più vedove che vedovi; se l’ufficio di statistica ISTAT non mente le prime ammontano a 3.800.000, mentre i secondi sono solo 700.000.

Viceversa, nel contesto della disgregazione familiare e dell’imbarbarimento delle relazioni umane, dominate a tutti livelli dalla violenza e dalla sopraffazione e caratterizzate dalla perdita di qualsiasi valore della vita umana, da un lato, l’uomo, prima privilegiato, sperimenta in maniera più cocente l’abbandono. Lo considera come uno scacco che lede il suo prestigio sociale, già incrinato dalla sanzione della sua impotenza politico-sociale; prestigio sminuito dalla perdita di un “bene”, che documentava agli occhi degli altri il proprio successo alla stregua di altri beni di tutt’altra natura, ma sempre legati al cosiddetto status symbol; dall’altro, la rottura di una relazione rappresenta per una personalità debole e fragile, scaturita dai processi regressivi su accennati, la perdita di ogni punto di riferimento, di sostegno psicologico ed emotivo, che non sempre si fonda sulla solidarietà, anzi più spesso si nutre della più aspra conflittualità, coinvolgendo talvolta anche gli eventuali figli. In quest’ultimo caso, per esempio, spesso è la donna ad avvalersi del suo ruolo primario nell’allevamento dei figli per vendicarsi psicologicamente del marito, isolandolo, precludendogli le relazioni affettive più significative per lui.

Se l’analisi qui proposta ha un senso, pensare di inasprire le leggi, di fare corsi di educazione sentimentale (?) nelle scuole, non rappresenta la risoluzione del problema né la messa a fuoco delle sue reali origini. Sono i soliti palliativi strombazzati per apparire convincenti e credibili, per far credere di aver trovato soluzioni definitive.

A questo punto bisognerebbe chiedersi cosa si dovrebbe fare per contrastare questo terribile fenomeno che coinvolge e ha coinvolto molte donne. Naturalmente non è facile rispondere, ma qualcosa si può dire sulla necessità di una profonda trasformazione sociale, che riguardi non solo le relazioni di potere, ma anche la ristrutturazione della vita quotidiana della classe lavoratrice, cui le donne in maggioranza appartengono. In primo luogo, a mio parere, è del tutto indispensabile riconquistare i diritti perduti, che garantiscono a tutti gli individui (uomini e donne) un effettivo ruolo sociale; possedere un ruolo sociale stabile attribuisce agli esseri umani protagonismo, consapevolezza di poter in qualche modo contare, di far valere le proprie esigenze e di combattere le inevitabili frustrazioni non solo sul piano personale (forse sublimando le proprie esigenze immediate?). Nella nostra società avere un ruolo sociale vuol dire in primis avere un lavoro che assicuri l’indipendenza e la possibilità di programmare la propria vita. Ora, se torniamo a guardare le statistiche, vediamo che la disoccupazione giovanile in Italia è drammatica e si aggira a circa il 24% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Per alcuni sarebbe molto più significativa. Inoltre, ci sono tutti quelli che non studiano né lavorano e vivono grazie alle famiglie di origine. Infine, contare nella vita sociale vuol dire anche avere un ruolo politico, ma per quanto riguarda la maggioranza della popolazione sia maschile che femminile (giovane e anziana), purtroppo essa deve fare i conti con la dissoluzione di ogni organizzazione che la rappresenti degnamente e che porti avanti le sue rivendicazioni.

In secondo luogo, riprendersi il potere di assegnare in gran parte allo Stato il costo del ricambio generazionale, non pagato dalle donne che possono farsi sostituire nel lavoro domestico, al contempo ristrutturando la famiglia, sulla base di un’effettiva condivisione dei compiti e di una reale parità tra i sessi, pur rispettando le loro differenze. Ho detto ristrutturare la famiglia e non cancellarla perché, a differenza di quello che pensavano alcune rivoluzionarie sovietiche nei fervidi anni dopo il 1917, ognuno di noi per diventare una persona stabile e equilibrata – quindi anche un agente politico cosciente - ha bisogno di un trattamento personalizzato. Allevare un bambino non significare solo dargli da mangiare, fargli il bagno etc., ma soprattutto fargli capire che tutto quello che si fa, si fa esclusivamente per lui. E questo tipo di comprensione può emergere solo in una relazione intima, intensa e profonda che si può stabilire unicamente con chi si ama.

Entrambi i punti qui indicati implicano la necessaria mobilitazione delle masse popolari per riconquistare una condizione lavorativa degna, un reddito stabile e rivalutabile, adeguati servizi sociali capillari, rispetto della differenza femminile, appiattita dal capitalismo e auspicata da certo femminismo; quindi, mettere la donna nelle migliori condizioni sociali e politiche nel momento in cui sta svolgendo quei compiti che solo lei può fare. Trattare nello stesso modo persone diverse produce solo disuguaglianza, ci è stato insegnato. Sono tutti elementi presenti in un accettabile programma minimo o di transizione.

In conclusione, uomini e donne, appartenenti alla classe lavoratrice e massacrati entrambi da decenni di politiche anti popolari, sono entrambi interessati al successo di queste rivendicazioni e alla formazione di un organismo collettivo che lavori per imporle; pertanto, debbono lottare uniti per il cambiamento della società e dell’organizzazione familiare, evitando di accettare acriticamente la tesi del conflitto insanabile tra i due sessi, che divide i lavoratori e nasconde le vere cause della violenza sulle donne, sessualizzandole, psicologizzandole e strumentalizzandole.

Questa strategia, che per esempio non fa il parallelo tra le morti di uomini e donne sul lavoro (tre al giorno) e i femminicidi (non meno importanti ma assai meno numerosi), oltre ad occultare i conflitti di classe, innesca risposte gravissime quali la richiesta di ripristinare la pena di morte e di considerare legittima la vendetta, alimentando quel processo di imbarbarimento e di ulteriore rafforzamento del potere, di cui si diceva e che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze. Processo già visibile, del resto, nel recente pacchetto sicurezza, presentato dal governo, che inasprisce le misure carcerarie e di polizia, estende i cosiddetti DASPO e riduce le prerogative delle giovani madri detenute. E ciò nonostante che le statistiche segnalino la flessione degli omicidi in Italia.

Concludendo e riprendendo le parole della compagna di Sartre, e mettendoci anche un granello di sensualità dato che parliamo di sessi, possiamo affermare che, se uomo e donna fossero uguali in tutto e per tutto, la vita perderebbe il suo sale ed entrambi non avrebbero la possibilità di scoprire la loro multiforme fraternità.

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[1] In realtà il vero patriarcato implica la subordinazione delle donne e dei giovani uomini al patriarca.

[2] Il concetto di "società post-industriale" è apparso verso la fine degli anni Sessanta ed è stato impiegato da vari sociologi, tra cui ricordo Alain Touraine (La societé post-industrielle, 1969) e Daniel Bell (The Coming of Post-Industrial Society, 1973). A loro parere, essa sarebbe caratterizzata dal grande sviluppo del settore dei servizi, a danno di quello della produzione dei beni materiali, e dalla gestione del potere da parte di tecnici competenti (tecnocrazia).

[3] A. Ciattini, Dal laissez faire al laissez mourir, 2023 .

[4] Il riferimento a Karl Marx è evidente: “Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell'applicazione di un'uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l'altro no; uno ha più figli dell'altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l'uno riceve dunque più dell'altro, l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale” (Critica del Programma di Gotha, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm).

[5] Numerose sono le opere sulla relazione tra marxismo e femminismo, ho scelto di illustrare il pensiero di queste autrici perché mi sembrano rappresentative di questo complesso dibattito.

[6] Ispirandosi alla lettura althusseriana di Marx, la Barrett e la Vogel riprendono dal Capitale le nozioni teoriche di forza lavoro e di riproduzione sociale, la cui definizione dovrà essere impiegata per analizzare fenomeni concreti e per sostenere in seconda battuta la realizzazione dell’emancipazione femminile. Del resto, così aveva fatto Marx che aveva delineato nella sua opera il modello teorico del modo di produzione capitalistico.

[7] A differenza di quanto sostiene Frederick Engels nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) non è stata documentata l’esistenza di una società matriarcale, in cui le donne abbiano detenuto il potere. Nelle società matrilaterali i figli appartengono al gruppo della madre, in quelle patrilaterali appartengono a quello paterno. In entrambi i casi sono gli uomini a governare.

[8] Scrive Marx nei Manoscritti: “La morte appare come una dura vittoria del genere sull’individuo determinato e sembra contraddire la loro unità; ma l’individuo determinato non è che un essere generico determinato, e come tale mortale” (2018: 190-191).

[9] Ma il lavoro salariato fino ad un certo punto può considerarsi una liberazione, giacché generalmente implica la servitù salariale.

[10] Per esempio, si calcola che prima della diffusione degli elettrodomestici la donna delle classi lavoratrici impiegasse due giorni per fare il bucato.

[11] Ovviamente esempi di donne spietate e crudeli, e non solo tra le donne potenti, potrebbero essere citati a iosa a dimostrazione dell’inconsistenza della naturalizzazione della femminilità.

[12] Come scrive Irene Bruegel: se il patriarcato, che implicava anche il dominio sui giovani maschi, fosse davvero universale e immutabile, per una sua ipotizzata base biologica, l’unico modo per superare l’oppressione delle donne sarebbe il separatismo, la castrazione o, in ultima analisi, il “cidio di genere”. Inoltre, la lotta contro di esso sarebbe indipendente da quella per il socialismo (1978: 1).

[13] Il tentativo di coniugare marxismo e femminismo è stato definito anche un “unhappy marriage” (Hartmann Heidi, “The Unhappy Marriage of Marxism and Feminism: Towards a more Progressive Union”, Capital & Class, 8, 1-33 (1979).

[14] Bisogna ricordare che gli operai provenivano tutti dalle famiglie estese contadine.

[15] La chiama esattamente “ideologia familiare”, che precede il capitalismo e che sviluppa tutti i noti pregiudizi sull’inferiorità della donna, alla cui costruzione avrebbero contribuito le stesse organizzazioni operaie quando, nella battaglia per la riduzione della giornata lavorativa, hanno escluso donne e minori dai lavori pesanti e notturni. Credo che in questo caso abbiano pesato altre considerazioni e che il femminismo sia angustiato dal desiderio di dare per scontato che uomini e donne siano in tutti i sensi uguali, mentre a mio giudizio occorre coniugare le differenze tra i sessi con la loro uguaglianza sul piano politico economico. Sia la Barrett che la Vogel si richiamano ad Louis Althusser il quale aveva sottolineato la relativa autonomia dell’ideologia.

[16] Dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 (2018: 183): “A partire da questo rapporto [tra uomo e donna] si può giudicare … il grado di civiltà dell’uomo nel suo complesso. Dal carattere di questo rapporto risulta in quale misura l’uomo è divenuto un essere generico, uomo, e si è compreso come tale; il rapporto dell’uomo con la donna è il rapporto più naturale dell’uomo con l’uomo. In esso si mostra fino a che punto l’essenza umana è divenuta per lui essenza naturale, e la sua natura umana è divenuta per lui natura” (corsivi nel testo).

[17] Credo che non sia così, giacché fino a che non si sono introdotte le macchine nella produzione molte attività non potevano essere svolte dalle donne.

[18] Come si vede il femminismo marxista è perfettamente consapevole del peso che il sistema famigliare scarica sull’uomo.

[19] Usanza caduta in disuso che era praticata dall’aristocrazia e dall’alta borghesia.

[20] Questa pratica ricorda due commedie del celebre Aristofane: Lisistrata e Le donne al Parlamento. Nella prima le ateniesi organizzano uno sciopero sessuale per impedire il proseguimento della Guerra del Peloponneso. Nella seconda, invece, le donne, camuffandosi da uomini, fanno approvare una legge rivoluzionaria al parlamento, in base alla quale tutti i beni diventano comuni e passano sotto l’amministrazione femminile. Inoltre, la sessualità viene praticata liberamente, ma gli uomini prima di possedere una donna bella, devono soddisfare una brutta. Come si vede, si vuole realizzare la massima uguaglianza, forse in questo caso non gradita.

[21] I più famosi romanzi dell’Ottocento hanno come tema l’adulterio femminile (Madame Bovary, Anna Karenina etc.).

[22] Questa affermazione viene contestata, ma da fonte ISTAT sembra che nell’UE nel 2018 le donne abbiano guadagno il 15% meno degli uomini.

[23] Basti pensare alla diversa valutazione dell’adulterio se commesso dalla donna, che se colta in flagrante poteva essere uccisa dal marito, dal padre e dal fratello; il cosiddetto delitto d’onore abolito in Italia nel 1981, ma presente anche in altre legislazioni e da taluni fatto risalire addirittura al legislatore ateniese Dracone.

[24] A questo punto non posso fare a meno di riportare una citazione da Freud, in cui si riferisce al famoso ineffabile sorriso di Monna Lisa del Giocondo e che a mio parere coglie tutte le ambiguità della femminilità, appiattite dalla necessità di trasformarla un lavoratore salariato pienamente efficiente :”La donna sorrideva in una calma regale: i suoi primi istinti di conquista, di ferocia,, tutta l’eredità della specie, la volontà della seduzione e dell’agguato, la grazia dell’inganno, la bontà che cela un proposito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso…Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva…” (A. Conti, cit. da Freud 1974: 252-253). Come si vede l’idea di Freud della femminilità è molto di più complessa di quella propagandata dalle femministe “divulgative”.

[25] Su questo tema vedi anche Ernesto Che Guevara, L’uomo e il socialismo a Cuba (https://www.lacittafutura.it/unigramsci/riflessioni-su-etica-e-marxismo-il-socialismo-e-l-uomo-a-cuba-di-ernesto-che-guevara), prima parte e parti successive.

[26] Quest’ultima fu condannata dal X Congresso del partito nel marzo del 1921.

[27] La Villa riporta queste parole della Kollontaj ricavate da Largo all’amore alato: lettera alla gioventù lavoratrice: il proletariato non può accettare “l’esclusivo amore che tutto assorbe…La molteplicità delle forme dell’amore non è in contraddizione con gli interessi del proletariato, anzi facilita il trionfo dell’amore-cameratismo che si sta già sviluppando” (2017: 76). Sicuramente è interessante il concetto di Eros alato, opposto a quello non dotato di ali, fondato unicamente sull’attrazione sessuale, il quale implica lo sviluppo di una forte solidarietà e di una straordinaria comunanza di sentimenti, di valori dalle quali deriva il rafforzamento della coesione sociale. Da notare che, criticando “la morale civilizzata” fondata sull’astinenza e la repressione per le donne, lo stesso Freud a proposito del matrimonio monogamico parla di fallimento riguardo alla soddisfazione dei bisogni sessuali (Psicoanalisi e sessualità, 1971: 264).

[28] Klara Zetkin Lenin e il Movimento femminista, 1925, https://www.marxists.org/italiano/zetkin/lenin.htm. In queste

conversazioni Lenin dichiara di non voler predicare l’ascetismo e al contempo di non temere di esser considerato un filisteo.

[29] “Il ritorno all’Io della libido oggettuale, e il suo tramutarsi in narcisismo, rappresenta in certo qual modo la restaurazione di un amore felice, d’altra parte un amore felice vero e proprio corrisponde all’originaria situazione in cui non è possibile distinguere tra libido d’oggetto e libido dell’Io” (Freud, 1976: 57).

[30] Anche parlasse, un animale non potrebbe mai pronunciare la celebre frase: “Nihil mihi humanum alienum puto”.

[31] Veramente, essendo vissuta a lungo in una comunità di minatori, ho appreso che il lavoro in miniera è considerato “l’ultimo pane”, nel senso che esso rappresenta la possibilità peggiore per sopravvivere, accettata quando non si ha altra scelta.

 

[33] Così Marx analizza a fondo questo tema: «la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza lavoro deve comprendere i mezzi necessari alla sostituzione del lavoratore, cioè dei suoi figli… Il proprietario della forza‑lavoro è mortale. Dunque, se la sua presenza sul mercato dev’essere continuativa, come presuppone la trasformazione continuativa del denaro in capitale, il venditore della forza‑lavoro si deve perpetuare, “come si perpetua ogni individuo vivente, con la procreazione. Le forze‑lavoro sottratte al mercato dalla morte e dal logoramento debbono esser continuamente reintegrate per lo meno con lo stesso numero di forze‑lavoro nuove. Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza‑lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato›› (cap, IV 204-205 http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_04.htm). Da parte sua, Engels esamina le conseguenze morali dell’incorporamento della donna nell’attività produttiva, osservando che il lavoro femminile in fabbrica dissolve del tutto e inevitabilmente la famiglia e questo processo ha, nello stato attuale della società, le conseguenze più demoralizzanti sia per i genitori che per i figli. Inoltre, a suo dire i bambini, che crescono in tali condizioni, non sono preparati per una futura vita familiare e, pertanto, essi stessi contribuiscono complessivo indebolimento della famiglia nella classe operaia». (cit. in Bruegel 1978: 6).

[34] Secondo la CES (Confederazione europea dei sindacati), questi stanno perdendo affiliati, tuttavia le donne iscritte sono, invece cresciute del 2,5% secondo un’indagine pubblicata nel 2010 (https://www.etuc.org/sites/default/files/TURKISH_5I_1.pdf).

[35] Ho dedicato un articolo a questa corrente, mostrando il suo falso aspetto radicale https://core.ac.uk/download/pdf/153368697.pdf. Negli ultimi anni sono stati declassificati documenti che mostrano come la sua diffusione sia stata fomentata dai servizi segreti statunitensi. Mi riprometto di sviluppare questo secondo tema in una prossima pubblicazione.

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