Andrea Catone *
Questo volume di “MarxVentuno” intende fornire strumenti di conoscenza, riflessione, analisi sulla guerra in corso e sulla nuova fase della storia mondiale che si è con essa avviata. Non esaurisce certamente il tema; alcuni aspetti del quale non sono qui ancora trattati; diverse questioni vanno riprese e approfondite. Ci impegniamo a farlo nei prossimi numeri, cercando di utilizzare al meglio quella “cassetta degli attrezzi” del marxismo, cui esplicitamente si richiama la nostra rivista.
L’intervento militare russo in Ucraina è oggetto di valutazioni diverse e contrastanti tra i partiti e gruppi di ispirazione comunista, socialista, marxista, sia a livello internazionale che in Italia. È di grande utilità a questo proposito l’ampio contributo di Fausto Sorini (datato a metà maggio), che, basandosi esclusivamente sulle risoluzioni e documenti ufficiali, traccia il quadro delle valutazioni e prese di posizione dei principali partiti comunisti nel mondo, concludendo, in estrema sintesi, che “la stragrande maggioranza dei comunisti a livello mondiale (tenendo conto del numero di iscritti, del consenso politico-elettorale, dell’influenza sui rapporti di forza mondiali) – oltre il 90% della forza complessiva – si è schierata dalla parte della Russia e ha fatto propria l’analisi strategica del quadro mondiale affine a quella del Pcfr. Ma tra questi, pochissimi hanno sostenuto apertamente l’intervento militare. Una piccola minoranza, con argomenti assai diversi al suo interno, ha assunto invece una posizione apertamente critica e/o di divergenza strategica”.
Anche in Italia vi sono state a sinistra posizioni articolate. I tre partiti comunisti che fanno capo alla rete Solidnet – Pci (segretario Mauro Alboresi), Prc (segretario Maurizio Acerbo), Pc (segretario Marco Rizzo) – e le diverse altre organizzazioni o gruppi della troppo frammentata galassia della sinistra italiana condividono la critica all’espansione ad est dell’Alleanza militare a guida Usa, di cui riconoscono il ruolo aggressivo. Anche la segreteria nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (Anpi), nell’Appello rivolto il 22 febbraio ha sostenuto che “il riconoscimento dell’indipendenza del Donbass da parte della Russia può portare il mondo a un passo dalla guerra ed è l’ultimo, drammatico atto di una sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della Nato ad Est vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia” [corsivo mio, AC]. Ma la critica della Nato non significa piena condivisione dell’azione russa. Il Prc ha manifestato il 25 aprile con striscioni per la pace, “contro Putin e contro la Nato”. All’interno della sinistra italiana si riflettono gli stessi problemi di valutazione dell’intervento militare russo e, conseguentemente, di presa di posizione, che incontriamo a livello internazionale, individuati nel saggio di Fausto Sorini.
Come affrontare la questione della guerra ucraina
Qui è fondamentale definire il metodo con cui si affronta la questione: se essa viene collocata e contestualizzata all’interno di un processo storico, oppure se un singolo fatto viene estrapolato dal contesto e assolutizzato. Ora, non c’è bisogno di essere marxisti che si fondano sul materialismo storico per riconoscere che l’approccio corretto per comprendere e valutare i fatti sia il primo, quello della contestualizzazione storica: ai primi di maggio Marco Tarquinio, direttore del quotidiano cattolico “Avvenire”, durante la sua settimana di conduzione della rubrica radiofonica di Radio3 “Prima pagina”, iniziava contando quanti giorni fossero passati dal 24 febbraio, ma poi aggiungeva anche il conto dei giorni di guerra dal 2014, dall’inizio degli scontri militari in Donbass, la “guerra fantasma nel cuore d’Europa” – come suona il titolo del libro di Sara Reginella – che ha causato in 8 anni 14.000 morti, in buona parte tra la popolazione civile. E a questo approccio si richiamavano storici di professione quali Luciano Canfora, Angelo d’Orsi, Franco Cardini, quando, nelle prime settimane dall’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina, venivano invitati nei talk show (che oggi sono del tutto scomparsi dai palinsesti televisivi, in ossequio alla censura di guerra invocata dagli oltranzisti euro-atlantici e supportata da articoli degni del peggior maccartismo, come l’ormai tristemente celebre La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca, a firma di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini, nel “Corriere della sera” del 5 giugno). Per i propagandisti mediatici del partito Usa/Nato tutta la storia ha inizio solo il 24 febbraio; degli eventi precedenti, essenziali per comprendere il processo storico, fanno tabula rasa. La distruzione della ragione realizzata dal pensiero unico passa oggi attraverso la distruzione della cultura storica.
A questo proposito il saggio, presente in questo volume, di Francesco Galofaro analizza alcune modalità della propaganda per rendere accettabile a livello di massa la cobelligeranza italiana nella guerra contro la Federazione russa. Come si effettua, tecnicamente, la manipolazione del consenso? La guerra in Ucraina è un caso studio ideale. In Italia il governo Draghi e la stragrande maggioranza dei media hanno cercato di escludere il punto di vista del “nemico esterno”, la Federazione Russa, e hanno stigmatizzato il “nemico interno”, i pacifisti. L’intenzionalità della costruzione propagandistica appare chiara nella trasformazione della guerra in un gioco, in intrattenimento, che fa del cittadino un giocatore, infantilizzandolo, per abolire ogni distanza critica e ottenere una “tifoseria” amorale a caccia di emozioni, schierata con una parte senza la possibilità di ragionare sul conflitto stesso e di prenderne le distanze. La campagna russofobica scatenatasi in Italia, legittimata e incoraggiata direttamente dalla Commissione europea, mira ad annichilire il punto di vista del “nemico”.
Samir Amin e la Russia nella lunga durata
Per leggere le vicende in corso all’interno di un quadro più ampio, in modo da osservare la foresta e non il singolo albero, proponiamo la traduzione di ampi stralci tratti da La Russie dans la longue durée, il libro, inedito in Italia, che Samir Amin, il prestigioso intellettuale militante marxista scomparso qualche anno fa, pubblicò con le edizioni Les Indes Savantes nel 2016. Esso ci dà la chiave per comprendere le radici profonde della grande crisi attuale, dello scontro violentissimo ed epocale che contrappone oggi la Russia all’imperialismo Usa/Nato. Samir Amin ci fornisce sia l’approccio metodologico, che integra l’analisi della lotta di classe con l’analisi del sistema-mondo, la storia e la geografia, il marxismo e la geopolitica, sia la lettura di una storia della longue durée della formazione e del ruolo dello stato e della nazione russi dalle sue origini alla rivoluzione e costituzione dell’Urss, fino all’attuale fase post-sovietica, e del posto che oggettivamente occupa il Paese più esteso al mondo nel sistema economico-politico mondiale, con le sue insopprimibili specificità, con l’essere insieme e inestricabilmente Europa e Asia. Scriveva allora Samir Amin, riferendosi alla crisi aperta dal colpo di stato di Euromajdan, che essa “apre gli occhi sulla storia della Russia (e dell’Ucraina, ovviamente) fino ad oggi”. Il conflitto ucraino va inserito, secondo Samir Amin, “nel quadro più ampio del conflitto tra la strategia messa in atto da Washington e dai suoi alleati europei subalterni, da un lato, e le aspirazioni – per quanto confuse – dei popoli, delle nazioni e persino degli stati delle periferie contemporanee, la Russia e gli altri Paesi dell’ex Unione Sovietica, così come tutti quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, dall’altro”.
Lo scontro tra unipolarismo imperialista e multipolarismo dell’emancipazione dei popoli
Lo scontro in atto tra Russia e Ucraina, iniziato con il colpo di stato di Euromajdan (come indirettamente faceva notare il direttore di “Avvenire”), proseguito nella forma di una guerra di medio-bassa intensità, con picchi di acutizzazione e fasi di relativa stasi, e divenuto guerra di medio-alta intensità dal 24 febbraio 2022, non si comprende se non nel quadro più ampio del conflitto tra l’imperialismo centrale Usa/Nato, con i suoi satelliti, e i Paesi della periferia del sistema mondo, che cercano una propria strada di emancipazione e sviluppo. O, se ricorriamo ad un’altra coppia concettuale, scontro tra mondo unipolare a direzione Usa e tendenza al multipolarismo. Quest’ultima, secondo Danny Haiphong, co-editore di “Friends of Socialist China”, è definita dalla lotta di classe, dalla lotta per l’emancipazione dei popoli dal dominio imperialistico, come scrive nel testo che qui ospitiamo. Per mantenere il loro dominio unipolare e il loro impero finanziario gli Usa hanno accerchiato militarmente la Russia e la Cina e sono disposti a usare le forme più letali di guerra economica, politica e militare. Le forze progressiste e di sinistra in Occidente, scrive Haiphong, dovrebbero comprendere la reale posta in gioco dello scontro in atto.
La Repubblica popolare cinese è il Paese che con la sua straordinaria crescita economica nel trentennio post-sovietico rende oggettivamente proponibile e e concretamente raggiungibile l’obiettivo del passaggio a un nuovo ordine mondiale fondato sul multipolarismo di contro all’unipolarismo imperialistico a base Usa e su rapporti internazionali reciprocamente vantaggiosi. La Rpc – scrive Francesco Maringiò – di fronte al precipitare della situazione in Ucraina e ai forti venti che da Occidente soffiano sul fuoco della guerra, propone una Iniziativa di Sicurezza Globale. Dopo l’impegno a “costruire una comunità dal destino condiviso per l’umanità”, si disegnano i tratti di una iniziativa politica in grado di definire i prodromi di una nuova governance globale. Essa – scrive Yang Jiechi, membro dell’Ufficio politico del CC del Pcc e direttore dell’Ufficio della Commissione centrale per gli affari esteri – si basa su una serie di nuove importanti riflessioni e proposte che il Segretario generale Xi Jinping ha elaborato di fronte alle nuove caratteristiche della situazione internazionale e dello scenario esterno alla Cina, fornendo una guida all’azione per indirizzare i grandi cambiamenti del mondo nella giusta direzione, risolvere il dilemma della sicurezza internazionale, realizzare lo sviluppo comune in tutto il mondo, salvaguardare la vita e la salute delle persone e sostenere il vero multilateralismo.
La direttrice principale del trentennio post-sovietico
La lotta di classe sul piano internazionale si svolge oggi principalmente sul terreno dello scontro tra polo imperialista a guida Usa e i Paesi e popoli che lo contrastano e vogliono liberarsi dal suo dominio politico-militare ed economico-finanziario. Tutte le guerre americane del trentennio post-sovietico diventano incomprensibili (a meno che non si voglia credere alle narrazioni della “guerra umanitaria”, della “guerra per la democrazia”, della “guerra al terrorismo”, ecc.) se non le si colloca nel quadro più ampio della volontà Usa – del resto esplicitamente dichiarata nei documenti sulla sicurezza strategica pubblicati dalla Casa Bianca negli anni Novanta – di mantenersi come unica potenza mondiale dopo la disfatta dell’Urss nel 1991. Dall’Iraq alla Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, alla Siria, gli Usa e i loro satelliti europei subalterni e complici, hanno portato la guerra, o hanno promosso la sovversione interna per imporre un cambio di regime, come in Georgia nel 2003 o in Ucraina nel 2014.
La direttrice principale che emerge nella storia mondiale del trentennio post-sovietico è definita dallo scontro tra imperialismo Usa per mantenere il primato assoluto (possiamo parlare anche di “globalizzazione imperialista”, “dominio unipolare”), e Paesi e popoli che lo contrastano e avviano nuove vie di sviluppo autonomo. Tra questi l’ascesa della Repubblica popolare cinese, con i suoi straordinari ritmi di sviluppo, e la Russia della presidenza Putin.
La Russia: semiperiferia capitalista
Impiegando le due categorie correlate di borghesia nazionale e borghesia compradora collochiamo la Russia all’interno di un sistema mondiale in cui essa è parte del gruppo di Paesi di capitalismo periferico dipendente. Per questi Paesi, un obiettivo avanzato, progressista e riconosciuto come tale dal movimento operaio internazionale, è la fuoriuscita dallo stato di dipendenza (economica, o economico-politica) con l’affermazione di una propria via di sviluppo autonomo. È questa una questione, al contempo, nazionale e di classe. La liberazione dalle catene dello sfruttamento dei lavoratori nei Paesi di capitalismo periferico dipendente richiede la costituzione di una stato nazionale autonomo. Finchè permane lo stato di dipendenza di periferia sfruttata dalla borghesia compradora a sua volta dipendente dall’imperialismo centrale, il lavoratore è sfruttato due volte, dai comprador e dagli imperialisti, come ci spiega Ho Chi Minh nel suo pamphlet giovanile, Il processo della colonizzazione francese[1].
Ci è sembrato utile proporre qui lo studio di Renfrey Clarke e Roger Annis, animatori del sito New Cold War. Guidati dalle categorie leniniste dell’imperialismo, e sulla base di un’analisi della struttura economica, ampiamente corredata di dati e comparazioni statistiche – dal complesso industriale al settore bancario, dalla composizione della bilancia commerciale agli investimenti diretti all’estero – gli autori smontano la tesi secondo cui l’attuale Federazione russa post sovietica è un Paese imperialista. “Per i marxisti – scrivono gli autori – la capacità di discernere tra centro imperialista e Paesi della periferia e semi-periferia, – ovvero tra il capitalismo avanzato e la sua preda – rappresenta uno strumento indispensabile”. La Russia presenta un denso raggruppamento delle caratteristiche necessarie ad identificarla come parte della semi-periferia capitalista.
Il ruolo di Putin nella storia russa
A ben guardare, è proprio la valutazione della Russia di Putin una delle questioni più controverse all’interno del movimento operaio. Si sconta qui il mancato approfondimento, attraverso categorie marxiste, sulla crisi e implosione dell’Urss. Dopo una prima fase, immediatamente seguente al 1991, di conferenze, dibattiti, studi, la questione fu archiviata e scomparve dalla scena politico-culturale. Ma ancor peggio è accaduto per lo studio della Russia post-sovietica, sulla quale spesso e volentieri la sinistra ha assunto acriticamente narrazioni e categorie interpretative della liberaldemocrazia. In diversi casi si marchia il regime sociale russo come dominato dagli oligarchi, senza soluzione di continuità tra la fase della presidenza El’cin e quelle successive della presidenza Putin. Né si prova ad entrare nel merito del rapporto dialettico tra struttura economico-sociale e sovrastruttura politica nella Russia d’oggi. Né ancora si cerca di indagare con le lenti di Marx e di Lenin, di Mao e di Gramsci, sull’effettivo sistema della politica russa, sul processo di mediazioni ed equilibri interni dell’attuale gruppo dirigente della Federazione russa. Abbandonato il terreno dell’analisi marxista, si ricicla la pappa bell’e pronta degli apologeti della liberaldemocrazia, secondo cui la Russia sarebbe un Paese imperialista retto da un autocrate animato dall’ambizione neozarista di ricostruzione dell’Impero…
Per una valutazione non estemporanea del ruolo di Vladimir Putin nel processo della storia russa e mondiale, occorre una premessa metodologica, elementare ma spesso trascurata, che vale anche per tutti i leader dei Paesi aggrediti nell’ultimo trentennio dall’imperialismo Usa, da Saddam Hussein a Slobodan Milošević, a Mu’ammar Gheddafi: il metro di misura non può essere assoluto e destoricizzato, l’Idea, o il Mito della grande, nobile e pura guida del popolo. Oggi, ex post, undici anni dopo l’aggressione dell’Occidente e la vile esecuzione del suo capo, la Libia, in pieno caos politico, economico, sociale, sconvolta dagli scontri tribali, rivela con evidenza incontrovertibile quanto fosse storicamente progressiva la direzione del “dittatore” Gheddafi, che aveva riscattato il Paese dal dominio coloniale e costruito un ordine sociale e politico in cui la popolazione conviveva dignitosamente e godeva di un alto livello di welfare.
Per valutare il ventennale ruolo politico dell’attuale presidente russo, i comunisti, i marxisti, e tutti coloro che con onestà intellettuale guardano alle vicende umane come un complesso e non unilineare processo storico di emancipazione e liberazione, dovrebbero porsi la questione se, nelle condizioni storiche date, nella machiavelliana “verità effettuale”, e non in una situazione ideale immaginaria, la linea direttrice dell’azione politica messa in atto abbia nel suo insieme un carattere progressivo o regressivo. La Russia attuale non può essere messa a confronto con l’Unione sovietica pre-gorbacioviana, che, nonostante i limiti del “socialismo reale”, godeva di piena occupazione, un ampio welfare, e un rapporto (oggi sembra incredibile!) tra reddito minimo e massimo di circa 1 a 3. La Russia attuale va messa a confronto con la dissestata, umiliata e offesa Russia el’ciniana degli anni Novanta, preda delle scorrerie del grande capitale occidentale e degli “oligarchi” ad esso legati – un nuovo tipo di borghesia compradora – che avevano rapinato impunemente a man bassa la grande ricchezza sociale realizzata in 70 anni dal lavoro del popolo sovietico. Un Paese a pezzi, che con la sua struttura statuale federale, rischiava, come in Jugoslavia, ma alla decima potenza, la balcanizzazione, di cui la tentata secessione cecena e quella daghestana (settembre 1999) erano concretissimi inquietanti segnali.
L’ascesa di Putin alla direzione del Paese, con l’estromissione di El’cin, in guanti bianchi e con ponti d’oro, segna un significativo punto di svolta, arresta lo sfascio, avvia una ricostruzione non solo economica e sociale, ma anche culturale. Ma non c’è né il partito bolscevico né la rivoluzione socialista alle spalle. Il “Principe” (per ritornare a Machiavelli) deve operare nella situazione storica data, deve fare, come si dice, il pane con la farina che ha, con tutte le mediazioni e i compromessi del caso con la borghesia compradora degli oligarchi, con l’ideologia neoliberista imperante che aveva guidato i “riformatori” nella demolizione dell’economia sovietica, e anche con la Chiesa ortodossa e le diverse tendenze di una cultura nazionalistica che aveva coperto il vuoto lasciato dal tracollo politico e ideologico del Pcus, sottoposto negli anni della perestrojka a un bombardamento concentrico che ne rendeva schizofrenici i messaggi, sempre più incomprensibili e lontani dal sentire della popolazione.
Giuseppe Amata, che si avvale ampiamente delle categorie marxiste, ci dà nel suo testo, incentrato sull’analisi del rapporto tra crisi capitalistica e guerra, alcuni elementi essenziali per la comprensione del crollo dell’Urss e i passaggi successivi, quando, sull’onda delle contraddizioni suscitate dalla conduzione el’ciniana della Russia, emerge la figura di Putin, con una direzione politica – che nel corso del tempo si fa sempre più chiara e delineata – di riscatto della Russia dalla dipendenza dall’Occidente e dalle sue mire che tendono a ridurla e mantenerla nelle condizioni di semicolonia. Lo studioso offre in una rapida sintesi diversi spunti di riflessione sul ruolo assunto da Putin rispetto agli oligarchi.
La questione nazionale russa
Per contestualizzare e comprendere gli eventi attuali, la data cardine non è il 2014, col golpe di Euromajdan, che pure è una svolta essenziale, ma il 1991, la disgregazione dell’Urss, “la più grande catastrofe del XX secolo”, come ebbe a dire Putin.
Vi fu allora il più grande sconvolgimento sulla carta politica degli stati europei, non minore di quel che accadde in Europa alla fine della II guerra mondiale. Ma con la differenza che allora si definirono in conferenze internazionali, da Jalta a Potsdam, gli equilibri tra le potenze vincitrici. Si ebbe allora un riconoscimento reciproco, si costituì l’Onu con le sue regole e il Consiglio di sicurezza in cui sedeva l’Urss con diritto di veto. Era l’ordine di Jalta, non il migliore dei mondi possibili, ma quello che si fondava comunque su Conferenze internazionali che, sulla base dei rapporti di forza, avevano preso in esame l’assetto del mondo e ne avevano fissato i cardini, le linee guida. Jalta poteva aprire la strada sia a una collaborazione e coesistenza pacifica, o anche ad una contrapposizione, come fu per volontà angloamericana, con la guerra fredda, che comunque era figlia di un riconoscimento reciproco.
Il 1989-1991, da cui scaturì una nuova carta geopolitica dell’Europa – con ripercussioni a livello globale – non dette luogo invece a nessuna conferenza mondiale che definisse le coordinate, le regole del mondo che si andava a costituire. Gli Usa, nei loro documenti strategici si definirono i vincitori assoluti, la comunità europea si riposizionò come Ue col trattato di Maastricht, gli stati ex socialisti europei e la Russia rimasero alla mercé dei vincitori. Usa e Ue avviarono la conquista dell’Est (precursore fu l’Anschluss della Repubblica democratica tedesca da parte della Repubblica federale tedesca). Lavorarono di conserva: in genere la Nato inglobava prima i Paesi dell’est ed ex sovietici, che entravano poi nella Ue.
Negli anni 90 la scelta fu consolidata, con la prospettiva di sottrarre alla Russia ogni spazio disponibile, senza escludere la possibilità di inglobare anch’essa. L’aggressione Nato alla Jugoslavia (ricordiamolo: al di fuori di qualsiasi mandato Onu) fu per la Russia il superamento della linea rossa che portò alcuni mesi dopo al cambio nella direzione della Federazione, col passaggio della presidenza da El’cin a Putin.
La questione nazionale russa sorge sin dal 1991. Circa 25 milioni di russi si ritrovano dalla sera alla mattina cittadini di serie B, o non cittadini, in altri stati. E su questo enorme problema non c’è nessuna apertura dei vincitori occidentali della guerra fredda a una qualche soluzione, un qualche riconoscimento, ma solo la conferma di una politica espansiva, che riprendeva il sogno tedesco dell’espansione a est, Drang nach Osten. Nessuna attenzione della “democratica” Ue per le popolazioni russe discriminate nei Paesi baltici (in Estonia sono una consistente minoranza, il 25 per cento). Se la Cina ha subito, ad opera delle potenze imperialiste, il “secolo delle umiliazioni” fino al riscatto della proclamazione nel 1949 della Repubblica popolare cinese, di “anni delle umiliazioni” possiamo parlare per la Russia post 1991.
Nel trentennio che ci separa dalla dissoluzione dell’Urss le classi dirigenti occidentali hanno volutamente ignorato la questione nazionale russa, hanno anzi tentato di far leva sulle molteplici e numerose etnie e nazionalità della Federazione russa nel tentativo di disgregarla ulteriormente, hanno favorito il terrorismo “islamista”, e hanno indefessamente continuato ad allargare Nato e Ue ad est verso la Russia, contro la Russia. Hanno promosso tentativi di regime change con le rivoluzioni colorate provando ad attuarle nel cuore della stessa Russia.
Il Pcfr e la questione nazionale russa
Per l’analisi della struttura economico-sociale della Russia post-sovietica riportiamo anche la traduzione del Programma del Partito comunista della Federazione russa, adottato nel 2008 e tuttora in vigore. Abbiamo inteso con questo fornire alla conoscenza e riflessione dei comunisti e dei marxisti del nostro Paese un documento ufficiale, frutto dell’elaborazione collettiva dei militanti del partito russo; un partito che ha saputo sapientemente riorganizzarsi dopo la catastrofe del 1991, quando era stato messo al bando, e riemergere nel 1993. Una riorganizzazione che si è avvalsa di una fondamentale rielaborazione teorica che ha fatto i conti con la crisi e il crollo dell’Urss, individuandone alcuni nodi fondamentali e si è dotato di una nuova linea strategica che, tenendo ben salda la bussola del marxismo-leninismo, del riconoscimento del ruolo fondamentale di Stalin nella costruzione del socialismo sovietico, ha elaborato più in profondità la questione nazionale russa.
Il Pcfr ha collegato bene questione nazionale e questione sociale, ha radicato più profondamente la prospettiva del socialismo nella storia e cultura russe. Ha individuato una via nazionale russa al socialismo. Il Pcfr e il suo segretario Zjuganov hanno radicato la prospettiva socialista nella storia e cultura russe, non diversamente da quel che cominciò a fare Mao Zedong con la sinizzazione del marxismo, o come fece Ho Chi minh, che seppe cogliere l’essenza della questione nazionale vietnamita, unificare il popolo e guidarlo alla vittoria prima contro il colonialismo francese, poi contro il più potente stato del mondo, gli Usa. Leggiamo nel Programma che “la questione russa è diventata estremamente acuta negli anni della restaurazione del capitalismo. Oggi i russi sono diventati il popolo più diviso del pianeta. È un vero e proprio genocidio di una grande nazione. Il numero di russi diminuisce. La cultura e la lingua storicamente sviluppate vengono distrutte. Il compito di risolvere la questione russa e la lotta per il socialismo coincidono nella sostanza”.
La propaganda di El’cin si basava principalmente sulla contrapposizione degli interessi nazionali russi a quelli delle altre repubbliche sovietiche, colpevoli, secondo il demagogo russo, di sottrarre risorse alla Russia. Era un’operazione di nazionalismo di destra, che contrapponeva la propria nazione alle altre, in funzione antisovietica. Il nazionalismo antisovietico fu il grimaldello per rompere l’Urss. Totalmente diverso è il patriottismo del Pcfr che non ha mai contrapposto la Russia agli altri popoli. Il Pcfr è profondamente internazionalista, e proprio in quanto tale profondamente radicato sul terreno nazionale. Da alcuni anni è stata costituita l’Unione dei Partiti Comunisti – Skp-Kpss – associazione di partiti comunisti operanti negli Stati costituiti sul territorio di quella che fu l’Unione sovietica.
Nell’attuale duro scontro di classe in campo internazionale, che vede contrapporsi i Paesi che guardano a un nuovo ordine mondiale fondato sul riconoscimento della compresenza di diversi poli, e l’Occidente abbarbicato nella difesa dei suoi privilegi economici e finanziari, derivanti dal precedente colonialismo e dall’attuale dominio imperialistico, la Russia è oggi schierata sulla prima linea del fronte. Al suo interno, il Pcfr svolge un ruolo fondamentale di azione politica e orientamento ideologico-culturale. Le posizioni del Pcfr – che, con i suoi 160mila iscritti (dati del 2019), e gli oltre 10 milioni e mezzo di voti (quasi il 19%) e 57 deputati su 450 nelle elezioni del 2021, è il più grande partito comunista del continente europeo (dato che l’Europa non si riduce alla Ue posta sotto tutela e controllo Usa) – non sono molto note in Italia, o, quando ci si riferisce ad esse, vengono il più delle volte riportate in modo deformato o erroneo, salvo alcune meritorie eccezioni. Per colmare parzialmente questa lacuna, presentiamo qui in traduzione italiana risoluzioni e interventi politici del Partito, a partire dal documento base, il Programma. Seguono poi documenti più recenti, quali l’Appello delle forze patriottiche di sinistra russe (novembre 2021); Venti misure urgenti per trasformare la Russia (marzo 2022); In Ucraina la Russia combatte il neonazismo. Note in merito all’articolo del Dipartimento Internazionale del CC del KKE (16 maggio); e tre interventi di G. Zjuganov: Dobbiamo fare di tutto per avere successo in Ucraina (6 giugno), Combattiamo per gli ideali del potere sovietico (7 giugno), Propongo un dialogo costruttivo! (21 giugno).
L’impatto della guerra economica
Una sezione importante di questo volume è dedicata all’esame dell’altro fronte di guerra, quello economico, dove l’Occidente ha intrapreso “la guerra nucleare finanziaria” – l’espressione è di Gal Luft, consulente senior del Consiglio per la sicurezza energetica degli Stati Uniti – contro la Russia e il nuovo ordine finanziario globale. La Ue si è lanciata a corpo morto – e anche qui il ruolo di Draghi è stato particolarmente influente – nella risoluzione (fortemente caldeggiata da Zelensky e dai suoi padrini americani) di troncare quanto prima ogni acquisto di petrolio e gas dalla Russia. Sul tema, l’Associazione Marx21 organizzò un webinar con Demostenes Floros, Senior Energy Economist presso il Centro Europa Ricerche di Roma. Il testo preparato per la Conferenza, nonostante siano trascorsi alcuni mesi dal momento in cui fu presentato, non ha perso un briciolo di attualità. Dati e tabelle illustrati e commentati dall’autore mostravano implacabilmente il vicolo cieco in cui la servile politica verso gli Usa degli oltranzisti euro-atlantici nostrani avrebbe portato l’Italia e i Paesi Ue. Emergeva chiaramente come le dichiarazioni dei principali governi dei Paesi della Ue, e in particolare del governo italiano, di sottrarsi in tempi brevi alla dipendenza dalle importazioni del gas russo fossero ad un tempo velleitarie e mistificanti. L’annunciato ricorso ad importazioni del gas liquefatto dagli Usa sarebbe assolutamente insufficiente, oltre ad incidere con maggiori costi economici (si ipotizza un 30% in più) ed ecologici (i gravi danni che la tecnica di estrazione del fracking provoca all’ecosistema).
Di arma a doppio taglio delle sanzioni, che provocano enormi danni ai Paesi europei, accentuando la crisi dei sistemi politici, con la crescente separazione tra dirigenti e diretti, parla esplicitamente Vladimir Putin nel suo importante intervento al XXV Forum economico internazionale tenutosi a giugno a San Pietroburgo. Ne pubblichiamo la traduzione integrale (basandoci sulle versioni ufficiali in lingua russa e inglese), per la rilevanza dei temi trattati, che travalicano la sfera puramente economica, per delineare una strategia globale dei Paesi e popoli che cercano una propria via autonoma di sviluppo non subalterna ai diktat dell’imperialismo Usa e dei suoi satelliti. Il presidente russo inizia con un’affermazione netta: è finita l’era dell’ordine mondiale unipolare. Ma le classi dirigenti dell’Occidente cercano di invertire il corso della storia e utilizzano ogni mezzo per punire e cancellare chi non si sottomette ai loro diktat. Ieri Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, oggi la Russia, attaccata da una campagna russofobica e da molteplici e pesantissime sanzioni, che il Paese ha però saputo fronteggiare, stabilizzando relativamente il quadro economico. Le cause dell’attuale crisi inflazionistica mondiale risiedono non nella politica russa e nell’operazione militare in Donbass (“Forse sarebbe anche bello sentirsi dire che siamo così potenti e onnipotenti da poter far esplodere l’inflazione in Occidente”, dice ironicamente), ma nelle politiche macroeconomiche irresponsabili perseguite dai Paesi del G7, con l’emissione incontrollata di un’enorme massa di moneta riversatasi nell’acquisto di beni dei Paesi terzi. In opposizione a questa più sofisticata politica neocoloniale predatoria si avviano percorsi di de-dollarizzazione. Putin illustra poi le linee strategiche di sviluppo dell’economia russa nelle condizioni della “nuova era”, con l’individuazione delle priorità. In conclusione, egli afferma, “la tendenza a favore di un modello di crescita multipolare al posto della globalizzazione è sempre più marcata”.
Anche il webinar di Marx21 con Vladimiro Giacché, filosofo-economista marxista, risale al mese di aprile, e anche in questo caso contraddizioni, implicazioni, linee di tendenza risultano chiaramente delineate. La “bomba nucleare” del blocco dello SWIFT ha innescato un processo di “disaccoppiamento” che può accelerare la costruzione di sistemi multilaterali o bilaterali di pagamento alternativi. L’euro, presentato nel 2000 come potenziale alternativa al dollaro, registra il suo fallimento, a causa dell’appiattirsi – antistorico e contrario agli interessi strategici dei Paesi europei – della Ue sugli Usa. Per strangolarla economicamente, gli Usa hanno congelato le riserve della Russia in dollari detenute all’estero, ponendo però una seria ipoteca sul ruolo del dollaro come moneta fiduciaria, grazie a cui essi vivono al di sopra delle loro capacità economiche. Al momento, la manovra degli Usa (sanzioni alla Russia; stop alle ambizioni della Germania di fare da cerniera tra Europa e Asia; cuneo tra Europa e Russia) pare aver successo, ma si è innescato un processo al termine del quale uno degli elementi chiave della dominanza statunitense, quello finanziario, potrebbe risultare fortemente ridimensionato. La vittoria tattica è probabilmente degli Usa, ma essa potrebbe preparare una sconfitta strategica. La Ue, invece, appare destinata a subire sia la sconfitta tattica che quella strategica.
Così, schiacciata sull’oltranzismo Usa, la Ue, nata col peccato originale di un europeismo subordinato all’atlantismo, si suicida. Le sue classi dirigenti sembrano essersi poste masochisticamente al servizio di Washington. Alle politiche oltranziste del blocco euro-atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti – scrive nel suo articolo Ruggero Giacomini – “va opposto un fronte comune delle forze comuniste, progressiste e pacifiste, che trovi la sua base nell’unione dei lavoratori europei. La prospettiva della comune distruzione delle classi in lotta non è la nostra. Ci sono temi e battaglie che richiedono un coordinamento propulsivo sovranazionale, a partire da un confronto e da un impegno comune dei partiti comunisti e delle forze progressiste e pacifiste. L’Europa della Finanza e della Nato non ha niente a che vedere con gli ideali europeisti, spesso a sproposito evocati, di Altiero Spinelli. È auspicabile che sorga su quelle radici e prenda piede un europeismo antimperialista, per un’Europa dei lavoratori, fuori dai blocchi, aperta a relazioni su un piano di uguaglianza con tutti i Paesi, che sia fattore di pace. Il che postula un ribaltamento delle attuali classi dirigenti asservite all’imperialismo nord-americano”.
La cronologia 1989-2022 occupa un numero di pagine molto consistente di questo volume. Si tratta di una cronologia ragionata, che non si limita ad indicare solo date ed eventi, ma ha selezionato anche alcuni passaggi fondamentali nei rapporti internazionali, nella politica interna ucraina (ad esempio le leggi di discriminazione della popolazione russa e russofona dell’Ucraina; le leggi di privatizzazione e svendita della terra su cui mettono le mani le grandi multinazionali come Monsanto; le misure di messa al bando degli oppositori – in primis il Partito comunista ucraino, che prima del golpe del 2014 aveva un peso elettorale con punte del 25% – e poi anche tutti gli altri partiti che non appartenessero al nucleo dirigente di Zelensky). Il lettore può seguire i momenti fondamentali e i passaggi attraverso cui, sin dai primi anni 90, l’Ucraina – che era nell’Urss la repubblica più ricca e popolosa dopo la Russia – entra nel mirino della strategia Usa di farne l’avamposto principale di contrapposizione e attacco alla Federazione russa. È un crescendo di interventi, che portano al colpo di stato di Majdan, dopo il quale la Nato è di fatto sempre più presente nel Paese. Un focus particolare in questa cronologia è dedicato agli eventi politici, diplomatici, economici che precedono la decisione russa del 24 febbraio di intervenire militarmente in Ucraina. Il lettore potrà seguire come vengano seccamente respinte da Usa e Nato le proposte russe, presentate il 15 dicembre 2021, di un trattato complessivo sulle garanzie di sicurezza. Si è prestata attenzione anche ai passaggi parlamentari che hanno reso – a stragrande maggioranza, salvo una piccola, meritoria, e purtroppo anche divisa in diversi microgruppi, pattuglia di opposizione – l’Italia de facto cobelligerante contro la Russia. La cronologia del 2022 (fino a metà agosto), è per ovvie ragioni, particolareggiata e dettagliata e occupa da sola quasi la metà dell’intera sezione.
Una nuova fase della storia mondiale. La guerra è la questione principale del nostro tempo [2]
Dagli inizi del 2022 siamo entrati in una nuova fase della storia mondiale, caratterizzata da quella che papa Francesco ha definito la “guerra mondiale a pezzi”, di cui la guerra ucraina è il centro. Essa si svolge su diversi campi. Uno è sicuramente quello militare, ma coinvolge anche il piano economico-finanziario (sanzioni ed economia di guerra) e quello ideologico-culturale, che serve a nascondere la violenta competizione internazionale lanciata dagli Usa contro i Paesi emergenti, ammantata da scontro tra democrazia ed autocrazia.
Proprio perché figlia della fine del mondo unipolare, questa nuova fase può portare con sé ad uno sbocco progressivo: il riconoscimento e l’accettazione del multipolarismo, promosso da un insieme di Paesi che propone la coesistenza pacifica, la cooperazione win win ed il rispetto dei sistemi e della storia di ciascun Paese. Promotori di questa visione sono soprattutto i Brics (Cina, India, Russia, Sudafrica, Brasile) e i Paesi a loro affini, che lavorano alla costruzione di un mondo e di regole capaci di guardare all’interesse generale dell’umanità.
Tuttavia, lo sbocco progressivo non è l’unico possibile, anzi: oggi l’Occidente sembra aver imboccato la strada di uno sbocco reazionario ed estremamente pericoloso: crescono nella borghesia italiana le frazioni interventiste e belliciste a sostegno della guerra permanente che l’imperialismo Usa, potenza economica in declino, alimenta nel tentativo anacronistico di mantenere il dominio unipolare e fermare il corso della storia.
L’Italia, con il governo Draghi, ha perseguito lo sbocco regressivo, adottando la linea più oltranzista tra i Paesi fondatori della Ue, scegliendo – a qualunque prezzo – di intraprendere una guerra di lunga durata e a tutto campo contro la Russia, con l’obbiettivo irrinunciabile della piena “vittoria delle democrazie” e la disfatta e punizione delle “autocrazie”. È una linea che il governo italiano sta portando avanti anche ora, nonostante sia in carica solo “per gli affari correnti”.
Tutto questo avviene mentre all’orizzonte già si intravede una nuova escalation che ha come obbiettivo la guerra alla Cina. Per alcuni settori delle classi dirigenti atlantiche è iniziata una fase caratterizzata dalla guerra come elemento strutturale del presente e del futuro.
Infatti, oggi, la questione della guerra è la questione principale, da cui dipendono tutte le altre scelte politiche sul terreno economico, sociale e istituzionale. In guerra anche l’economia diventa economia di guerra e viene sacrificata ogni scelta in tema ambientale o economico-sociale, togliendo risorse alle spese sociali per dirottarle sulle spese militari. Questa strategia viene portata avanti, nonostante il prezzo sia l’aumento della povertà, deindustrializzazione e pesanti nuove esclusioni sociali. Infine, la guerra giustifica uno stato di emergenza, la trasformazione delle istituzioni, il passaggio a uno stato autoritario attraverso un esecutivo dotato di pieni poteri. Già oggi viene pesantemente stravolta la Carta costituzionale, non solo con riferimento all’art.11 ed all’uso (ripudiato in Costituzione) della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma anche nella parte relativa alle questioni sociali e del lavoro. Inoltre, vengono ridotti gli spazi e l’agibilità democratica sia sul piano pubblico e politico, sia su quello sindacale e sociale. Non è affatto un’eventualità remota la trasformazione in senso presidenzialistico della nostra Costituzione.
Occorre dunque lavorare per la costruzione di un fronte ampio di forze che ponga come elemento centrale la questione dell’uscita dalla guerra e della neutralità italiana: un “partito della pace” contrapposto al “partito unico dell’atlantismo”, costituito da tutti i partiti – dal Pd di Enrico Letta a FdI di Giorgia Meloni – che si sono posti saldamente all’interno del campo dell’oltranzismo atlantico (l’essenza della “Agenda Draghi”).
Fuori l’Italia dalla guerra!
30 agosto 2022
* Introduzione al volume La guerra ucraina. Cause, impatto, conseguenze, a cura di Andrea Catone, Marx Ventuno edizioni, Bari 2022.
[1] Pubblicato in italiano per la prima volta da MarxVentuno edizioni, Bari 2022.
[2] Cfr. il Contributo di Marx21 in vista delle elezioni del 25 settembre: https://www.marx21.it/editoriali/alle-prossime-elezioni-fuori-litalia-dalla-guerra/.