Mattia Gambilonghi
La peculiare vicenda del gruppo del Manifesto – di cui Rossanda Rossanda, scomparsa pochi giorni fa, è stata una dei principali esponenti e ispiratori – si è caratterizzata, tra i vari aspetti, per il tentativo di tematizzare in maniera nuova ed originale il ruolo del partito della classe operaia all’interno del processo di trasformazione e in relazione ai meccanismi di formazione e definizione della coscienza politica da parte della classe stessa. A essere in ballo è dunque il nodo – fondamentale sin dai tempi del Che fare? leniniano – del rapporto tra spontaneità, coscienza e organizzazione.
Un rapporto la cui riformulazione vedrà emergere in seno al Manifesto, nonostante la comune ispirazione anti-giacobina, due differenti proposte strategiche: quella di Lucio Magri e quella di Rossana Rossanda. Il testo (un estratto del libro Controllo operaio e transizione al socialismo. Le sinistra italiane e la democrazia industriale tra anni Settanta e Ottanta, Aracne, 2017) si propone di ricostruire alcuni elementi di questo dibattito intellettuale.
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A partire quindi da una ricognizione solo apparentemente ottimistica del capitalismo italiano ed occidentale viene sviluppandosi in seno al futuro gruppo del Manifesto una proposta strategica che, rispetto a quella avanzata in quel momento dalla maggioranza del gruppo dirigente del Pci, si contraddistingue per una curvatura in senso maggiormente “operaista”, frutto dell’influenza esercitata sui membri del gruppo dalle tematiche e dalla tesi proprie di alcuni ambienti del socialismo di sinistra (si pensi a Panzieri e ai Quaderni rossi). Questo impianto strategico dovrebbe poggiare cioè su un rapporto tra lotte operaie e processo di transizione al socialismo diverso da quello fatto dall’impostazione “nazional-popolare” adottata dal Pci a partire del dopoguerra, attenta invece all’alleanza tra classe operaia e ceti medi in nome di una lotta diretta contro gli effetti distorsivi dei monopoli, autentico freno allo sviluppo e alla modernizzazione delle strutture economiche del paese. Una strategia considerata dall’ala sinistra come frutto della stagione frontista, ma inadeguata dinnanzi al dinamico neocapitalismo del boom economico, rispetto al quale sarebbe totalmente inefficace la tradizionale lotta antimonopolistica emanazione della strategia democratica ed antifascista. A parere di Magri infatti, la natura totalitaria del controllo esercitato dai monopoli sull’insieme degli aspetti della vita associata, rende sempre più evidente come:
«[…] ogni tentativo di limitare i poteri di un gruppo monopolistico particolare o dei monopoli nel loro insieme, che non proceda da una critica generale e radicale delle leggi dell’accumulazione capitalista, da una critica del sistema in quanto tale, e che non tenti di definire un altro tipo di organizzazione sociale, […] rischia di non avere altro effetto che mettere in moto resistenze corporative e settoriali rispetto al funzionamento del sistema […].»[1]
Nell'analisi sviluppata dalla sinistra del Pci, le lotte operaie di inizio Sessanta, centrate non più sul solo aspetto salariale, ma orientate alle tematiche inerenti al controllo operaio dell’organizzazione produttiva, vengono viste dunque come lo strumento per caratterizzare il blocco storico alternativo in senso sempre meno genericamente “popolare” e sempre più specificatamente “operaio”.
Al peso che il nascente gruppo del Manifesto attribuisce alle lotte operaie all'interno della propria prospettiva strategica, corrisponde poi una differente ed originale concezione del partito. La necessità, infatti, di affrontare la tematica del partito e di ridefinire le sue formule organizzative si può comprendere solo se si tiene conto dello stretto legame che nell'elaborazione del Manifesto viene a stabilirsi tra la strutturazione della soggettività politica della classe e la prospettiva strategica di trasformazione della società e delle sue strutture: «una teoria del partito non è infatti che il corollario di una teoria della rivoluzione[2]», affermeranno qualche anno più tardi (agli albori dell'attività della rivista) Magri e Maone.
Pur restando fermamente avversa allo spontaneismo, nel cui grembo si anniderebbero tanto l'evoluzionismo riformista à la Bernestein (negatore della natura dialettica del processo storico in nome di astratti valori etici) quanto l'anarchismo (oscillante tra «un comunismo primitivo e l'esplosione individualistica»[3]), la sinistra Pci sembra intenzionata a stabilire nei confronti di Lenin e della concezione del partito che da questi era stata a suo tempo elaborata un rapporto meno “reverenziale” e finalizzato metterne a nudo i limiti, le incrostazioni giacobine e i rischi di involuzione burocratica.
La posizione che Magri si caratterizza dunque per il tentativo di storicizzare il pensiero di Lenin, cogliendo sia i pregi della sua teorizzazione rispetto alle altre concezioni ad esso contemporanee, sia le radici “idealistiche” degli elementi maggiormente giacobini che in esso sono presenti, tentando infine di porre rimedio a queste antinomie attraverso un pieno dispiegamento del contributo intellettuale fornito in tal senso da Gramsci. Pur riconoscendo a Lenin il merito di avere condotto a fondo la lotta teorica contro lo spontaneismo e di avere ribadito, nel Che fare?, l'importanza decisiva della dialettica proletariato-scienza e quindi della «ricerca della verità» nell'ambito del processo di «affermazione della classe» e di passaggio da “classe in sé” a “classe per sé”, Magri rileva però come l'intera costruzione teorica leninista sia viziata in origine e derivi i suoi eccessi avanguardistici dal fatto di porre a proprio fondamento l'idea kautskyiana del rapporto spontaneità-coscienza. Kautsky infatti, considerando socialismo e lotta di classe come due elementi originati da fonti differenti, giungeva alla conclusione per cui questa “scienza socialista” sarebbe detenuta dagli “intellettuali borghesi” e che solo da questi potesse essere importata nel vivo della lotta di classe. A parere di Magri, una simile concezione, in base alla quale la coscienza socialista viene ridotta a scienza oggettivizzata, «separata dal movimento della storia» e «definibile indipendentemente dalla classe e dalla sua prassi», si pone in netta e decisa contraddizione con l'elaborazione marxiana, la quale al contrario afferma l'assoluta necessità di un rapporto dialettico tra scienza e soggetto (ovvero: tra socialismo e proletariato) e concepisce la “scienza socialista” come un «parto, espressione di un soggetto attivo e presente nella realtà indagata».[4] Risulta chiaro come da simili premesse non potesse che derivarne l'ennesima versione evoluzionistica del socialismo, in base alla quale il proletariato, essendo nient'altro che il ricettore di una scienza elaborata altrove, si limiterebbe ad una semplice sanzione di un processo già in atto per contro proprio. Magri tiene comunque a precisare come Lenin, pur partendo da un presupposto erroneo quale quello kautskyiano, «non accettò mai una siffatta concezione» evoluzionistica, rimanendo per lui indispensabile l'immissione cosciente del proletariato e del suo partito nel processo storico. Il problema diviene, semmai, quello di una «concezione generale del partito» che finisce per produrre la subalternità della classe, ridotta a semplice strumento, all'interno del processo rivoluzionario.
Il superamento di questi limiti, la risoluzione delle antinomie della teorizzazione leniniana viene rintracciata a questo punto da Magri non tanto nell'esaltazione dello spontaneismo compiuta da Rosa Luxemburg[5], quanto, piuttosto, nel pensiero di Antonio Gramsci e nella sua concezione del partito come “intellettuale collettivo”. Gramsci rimarrebbe infatti fedele tanto all'idea marxiana (ripresa e resa centrale dal Lukacs di Storia e coscienza di classe) del partito proletario come strumento di autosoppressione e trascendimento globale dell'immediatezza sociale della classe, quanto a quella leniniana della necessità di un “elemento esterno” ai fini di questa autosoppressione. La novità dell'elaborazione gramsciana rispetto ai contributi che precedentemente avevano interessato la tematica del partito consiste però nel fatto che il pensatore sardo riesca a conciliare la presenza dell'elemento esterno con il necessario rapporto dialettico che deve instaurarsi tra soggetto e scienza: gli intellettuali cessano infatti di essere i “trasmettitori” della scienza socialista, divenendo piuttosto degli elementi di mediazione tra «l'immediatezza sociale proletaria e [la] cultura nel senso più vasto del termine[6]». Il partito si configura quindi come il prodotto della «dialettica tra [questi] due elementi», e l'ideologia rivoluzionaria che ne ha origine non è una verità definitiva, data una volta per tutte e adattabile a tutte le situazioni storiche, ma, in virtù della “storicità” che Gramsci attribuisce al marxismo, una «verità continuamente autocriticantesi» e in continua trasformazione. La classe, insomma, non riceve dal partito una scienza, una verità preconfezionata, ma trova nel partito lo strumento attraverso cui avviare un processo conoscitivo, di scoperta del sensibile e di comprensione profonda dei meccanismi sociali che reggono il modo di produzione: viene insomma recuperata la dialettica soggetto/oggetto delle Tesi su Feuerbach. Ed è proprio questo rapporto dialettico teso verso l'universalità che fa dell'intellettuale collettivo gramsciano una prefigurazione della società futura, in quanto lo rende in grado di eliminare qualsiasi residuo di giacobinismo, di far venir meno l'elemento «machiavellico»[7] implicito nel concetto di “conquista del potere”, di sopprimere la differenziazione tra dirigenti e diretti: sintesi superiore, ma al tempo stesso prodotto della classe e proprio per questo costantemente contestabile e controllabile.
A parere di Magri, questa attività di mediazione tra l'immediatezza del proletariato e la cultura diviene nel capitalismo maturo sempre più necessaria, perché se pur è vero che lo sviluppo che questo è capace di ingenerare, staglia al tempo stesso in maniera ancora più chiara «la contraddizione fondamentale, quella tra valore d'uso e valore [di scambio]», i meccanismi di integrazione e manipolazione della «coscienza personale del proletariato» che mette in atto (consumi condizionati, cultura di massa, differenziazioni professionali e di reddito), dando vita ad una profonda disgregazione tanto sul piano individuale e della persona quanto su quello sociale, rendono comunque impossibile la realizzazione dell'unità della classe ed il raggiungimento da parte di questa di una reale coscienza rivoluzionaria ad un «livello immediato e sociologico[8]».
Se dunque quello di Magri può essere considerato un “leninismo creativo”, conscio cioè delle possibili degenerazioni giacobine che il Che fare? porta con sé, ma al tempo stesso convinto della necessità di porvi argine senza nulla concedere allo spontaneismo e anzi preservando il ruolo strategico dell’organizzazione di avanguardia, la posizione di Rossanda si caratterizza al contrario per la convinzione che la dinamica propria delle società di capitalismo maturo spinga in maniera inequivocabile verso una liquidazione dell’impostazione leninista a favore, pertanto, di una riscoperta di Marx anche sul terreno dell’organizzazione (quando, al contrario, Magri nega risolutamente che possa essere rintracciata in Marx un’organica e coerente elaborazione in tal senso).
Infatti, le concezioni del partito del proletariato dei due pensatori in questione divergerebbero, a parere di Rossanda, in maniera netta: in luogo dell’organizzazione di stampo leninista, cioè centralizzata, imposta dall’esterno e per giunta posta in posizione sovraordinata rispetto alla classe, Marx, ci dice Rossanda, farebbe propria un’idea di partito estremamente duttile e mutevole in quanto semplice «riflesso di quel che è il solo soggetto reale della rivoluzione, il proletariato»[9]. Per Marx insomma non ha senso quella rigida distinzione fra l’essere sociale e l’essere politico della classe consolidatasi nel corso del Novecento nella prassi dei partiti comunisti, poiché tra i due termini altro non vi dovrebbe essere che un rapporto d’identità. E questo perché, secondo l’esponente del «Manifesto», nel pensiero del filosofo tedesco il vero anello di congiunzione tra l’immediatezza sociale e la coscienza, ciò che permette alla classe di divenire da in sé a per sé, non è tanto l’azione pedagogica dell’intellettuale di estrazione borghese, bensì la concreta prassi del soggetto, la lotta di classe[10]. Non dunque il processo avanguardia-scienza-coscienza, che Kautsky prima e Lenin poi hanno messo a base dell’attività dei partiti operai, ma piuttosto un processo che vede come primo momento la classe, secondariamente la lotta di classe, ed infine quello della coscienza. La terza glossa delle Tesi su Feuerbach, che già Magri aveva utilizzato per la propria critica all’impianto concettuale leniniano, viene ora riproposta da Rossanda con una radicalità decisamente superiore. Partito e proletariato, all’interno della lettura che di Marx dà Rossanda, diventano dunque termini intercambiabili: tutte le forme politiche, distinte dall’immediatezza della classe, che il proletariato produce e a cui dà vita nel corso del processo rivoluzionario non possono che essere transitorie, si tratti dello Stato come del partito. Teoricamente, rappresenta una svolta radicale rispetto alla concezione cristallizzatasi nella vita dei partiti comunisti, proprio perché si tenta di riaffermare la «dialettica marxiana, dove il soggetto è il proletariato e l’oggetto la società dal rapporto capitalistico di produzione» a scapito della leniniana dialettica tra classe e avanguardia, in cui la prima ha l’opacità del “dato obiettivo”, la seconda, il partito, è il soggetto, la sede della “iniziativa” rivoluzionaria»[11]. Si cerca insomma di combattere ed arginare quello spostamento del soggetto dalla classe al partito, il quale non poteva che portare a una visione strumentale della classe da un lato, e ad una concezione irresponsabile del partito (perché autolegittimantesi ed autoregolantesi) dall’altro.
Significativa è poi la differente valutazione che Rossanda dà rispetto a Magri riguardo il contributo luxemburghiano alla problematica della dialettica classe/coscienza: mentre il secondo, come abbiamo visto, tende a ritenere di scarsa utilità la riflessione della Luxemburg in quanto, a suo parere, espressione sia di un’esaltazione acritica dello spontaneismo che di una concezione eccessivamente semplicistica e meccanicista della crisi del capitalismo, l’ex-responsabile della commissione culturale del PCI rifiuta energicamente la condanna di spontaneismo sentenziata in maniera pressoché definitiva dalla Terza Internazionale. A suo parere, infatti, «la Luxemburg non teorizzò in alcun momento la possibilità delle masse di prescindere da un’avanguardia organizzata»[12]. Semplicemente, rintracciò una differente origine nel processo che conduce dalla necessità del partito e dell’organizzazione alla sua costruzione: il problema non risiederebbe infatti nell’incapacità del soggetto sociale proletario di concepire la sua lotta in maniera esclusivamente economicistica e non politica, semmai nella frantumazione che affligge questa lotta e nella necessità di darle, attraverso lo strumento del partito, «una strategia unificante», una «saldatura strategica»[13].
Infine, secondo Rossanda, la risoluzione delle antinomie proprie delle teorizzazioni post-marxiane sul partito e sulla coscienza di classe non può sbrigativamente avvenire per il tramite del pensiero gramsciano, poiché se è senz’altro vero che nella fase torinese e ordinovista dei consigli di fabbrica il pensatore sardo mostra un lato di sé decisamente anti-giacobino e fermamente favorevole alla possibilità che attraverso i consigli la classe diventi protagonista di un processo di autonoma affermazione e crescita politica, la tarda elaborazione gramsciana (quella antecedente alla sconfitta storica del movimento operaio rivoluzionario nel corso degli anni Venti) si caratterizza al contrario per la entusiastica rivalutazione della «autonomia del momento politico» implicita nell’idea del “moderno Principe”. Differentemente da quanto ritiene Magri, l’intellettuale collettivo rappresenta per Rossanda non un momento più alto di mediazione tra l’immediatezza sociale e la coscienza a cui può portare la dimensione della cultura, bensì l’ennesimo disancoraggio dell’iniziativa politica rispetto alla propria base materiale, l’ennesima negazione del rapporto dialettico tra classe e coscienza[14].
La conclusione che Rossanda deriva da questa ricostruzione storica delle soluzioni teoriche fornite via via dal movimento comunista alla problematica del rapporto tra soggetto sociale e sua organizzazione, è che il complesso intreccio di bisogni e lotte che lo sviluppo delle forze produttive (tipico del neocapitalismo – keynesiano, consumistico e organizzato – vigente nelle affluent societies) porta con sé, rende profondamente inadeguato il rapporto di soggezione delle masse al partito che l’approccio leniniano – non a caso elaborato in situazioni di profonda immaturità sul piano della soggettività – aveva proposto. E ciò accade per via della profonda politicizzazione che l’essere sociale, la classe viene conoscendo nel corso della lotta quotidiana, una politicizzazione che «accorcia [in maniera drastica] la distanza fra avanguardia e classe»[15], generando tensioni profondissime nelle istituzioni storiche del movimento operaio. La risoluzione ed il superamento dei problemi organizzativi che affliggono il movimento rivoluzionario può quindi avvenire solamente attraverso un pieno recupero dell’originaria ispirazione marxiana, riportando al centro dell’iniziativa politica la sua autonoma e creativa capacità di prefigurare già nel corso della lotta la società nuova. Non, dunque, dirigendosi da Marx verso Lenin, o spostandosi da Marx a Gramsci, ma piuttosto “da Marx a Marx”.
[1] L. Magri, Le novità del neocapitalismo, in Id, Alla ricerca di un altro comunismo. Saggi sulla sinistra italiana, Milano, Il Saggiatore, 2012, cit., p. 145
[2] L. Magri, F. Maone, Problemi di organizzazione nell'esperienza del PCI, in Il manifesto, n. 4, 1969; ora in Classe, consigli, partito, Quaderno n.2 di il manifesto, Roma, Alfani, 1974, p.196
[3] L. Magri, Problemi della teoria marxista, in Classe, consigli, partito, cit., p. 144
[4] Ivi, p. 138
[5] Ivi, pp. 149-151
[6] Ivi, p. 156
[7] Ivi, p. 157
[8] Ivi, p. 159
[9] R. Rossanda, Da Marx a Marx, in R. Rossanda, F. Maone, L. Magri, Classe, consigli, partito, cit., p. 100.
[10] Ivi, p. 102.
[11] Ivi, p. 107.
[12] Ivi, p. 108.
[13] Ibid.
[14] Ivi, p. 110.
[15] Ivi, p. 114.