Andre’ Tosel

 

La tradizione italiana marxista di riflessione sulle scienze e il loro uso sociale è sempre stata reticente nei confronti del realismo epistemologico, marcata dallo storicismo e dall’idealismo soggettivo: bisogna risalire alle opere troppo trascurate e notevoli di Ludovico Geymonat (e di certi dei suoi alunni) – come tra l’altro Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1970) e la monumentale Storia del pensiero scientifico e filosofico - per vedere proposta un’interpretazione materialista e dialettica della storia della conoscenza scientifica, che difenda del tutto l’obbiettività di questa conoscenza e la sua necessaria utilizzazione da parte delle forze desiderose di trasformare la società capitalista. Bisogna anche tenere conto del materialismo leopardiano di Sebastiano Timpanaro, critico di qualunque progressismo.

Il riferimento al materialismo dialettico, ispirato all’Engels della Dialettica della natura ed a Lenin, è ancora più rara, tanto fu compromessa dal percorso del dia-mat sovietico. È un segno del tempo che alcuni filosofi, Roberto Sidoli, Massimo Leoni e Daniele Burgio, osino ritornare su questo problema riferendosi ancora a Marx, Engels, Lenin, pur sempre rimanendo consapevoli che la prospettiva di un’ontologia materialista generale, dall’atomo alla Storia, ha perso qualunque giustificazione e che il sogno della filosofia che si trasforma in una scienza enciclopedica delle scienze è o impossibile o da incubo.

  1. Non si tratta pertanto di un ritorno, ma di una nuova proposta fondata su una storia di lunghissima durata storica, che ha per oggetto il dimostrare che il complesso formato dalle scienze e dalle tecniche deve essere considerato a partire dalle proto-scienze e dalle proto-tecniche, che hanno permesso all’umanità di prodursi come specie distinta da tutte le altre in seno alla natura, e così dall’età del paleolitico e del neolitico. La lunga durata dimostra l’effettività delle conoscenze della natura soprattutto quando si accoppia con l’invenzione tecnica (uso dei metalli, tessitura, ceramica, sperimentazione di piante, perfezionamento di attrezzi). Una lunga indagine, minuziosa e precisa – che copre la prima metà dell’opera – socializza così i lavori specializzati, poco noti al pubblico, dei paleontologi, degli antropologi, degli storici delle tecniche e delle scienze di tutte le aree del mondo, offrendo una sintesi utile e stimolante. Appare in definitiva che questa preistoria sia marcata dalla soglia del 9000 a.C., quando si sviluppa un insieme di scoperte teoriche e tecniche fino ad ora poco consultate. Si può osservare che, fino ai grandi imperi antichi, la situazione non è contraddistinta dall’esistenza di numerose società già sedentarie e urbanizzate, che svilupparono e arricchirono il patrimonio scientifico mettendolo al servizio della classe dominante – re, preti, capi militari. Inversamente, in effetti, altre società dell’Asia minore risultarono egualitarie e si caratterizzarono con una pratica cooperativa e popolare della conoscenza e delle tecniche, mettendo risultati e metodi al servizio delle comunità.

 A quel punto si formò quello che gli autori chiamano un effetto di sdoppiamento fra una “linea nera” e una “linea rossa”, fra un uso del “patrimonio scientifico-tecnico” (nozione che prendo in prestito da Geymonat) al servizio delle classi dominanti e un altro al servizio della massa dominata. La linea nera ha generalmente riportato la vittoria nella storia con i grandi imperi, e dopo il Rinascimento ha dominato pure durante la Rivoluzione scientifica dei tempi moderni. La linea rossa non è tuttavia sparita: come un fiume carsico, riappare in diversi periodi, specialmente durante i periodi rivoluzionari e non cessò di preoccupare la sua antagonista. Diderot, Condorcet, gli Enciclopedisti hanno sorpassato l’orientamento che li legava alla borghesia colta e hanno popolarizzato questo patrimonio in nome dell’uso comune. I movimenti dei lavoratori, socialisti e comunisti, hanno avuto il merito di risollevare il problema con risultati diversi, come indicò Lenin nella sua definizione del comunismo sovietico: “il socialismo = i soviet + l’elettricità”.

 Oggigiorno siamo in un periodo di rischi maggiori, di ogni tipo, prodotti dalla mondializzazione capitalista, nella quale la disconnessione delle conoscenze e delle tecniche attraverso la loro incorporazione nel capitale costante diventa un’emergenza. La lunga durata permette di fare apparire ciò che un’altra scala nasconderebbe, permettendo di orientarsi nel presente: basti pensare a quello che diventò questo patrimonio durante gli anni oscuri della sparizione dell’Impero romano e dell’alto Medioevo.

 È tempo di cambiare linea, per trattare senza irrazionalismi alcuni problemi cruciali. Così la penuria di energie fossili può essere compensata dalla creazione di energie nuove, messe a disposizione degli uomini, come dimostrano le prospettive della fusione termonucleare che, una volta controllata, darà all’umanità la potenza di piccoli soli artificiali. Così via, le trasformazioni dei modi bioetici di produrre artificialmente l’umano assicureranno la cura di malattie incurabili, modificando la parentalità e la filiazione nel senso di una più ampia libertà, che ovviamente dovrà essere controllata. I progressi dell’intelligenza materializzata in dispositivi meccanizzati rivoluzionano i modi di leggere, di apprendere e di lavorare intellettualmente, producendo una democratizzazione dei saperi e universalizzando le reti di comunicazione mondiali, base di un’opinione pubblica cosciente su scala globale.

È a questo proposito che gli autori ci danno l’esempio di questo sdoppiamento, diventato urgente, costruendo due idealtipi riguardo al sapere e alle tecniche proprie alla rivoluzione informatica e delle comunicazioni. Contrappongono così il “modello Linux” emergente, che si iscrive nella linea rossa, al “modello Microsoft” che rientra nella linea nera ancora dominante. L’esistenza stessa di Linux può essere considerata come portatrice di un uso alternativo delle nuove potenzialità, di una forma collettivista di utilizzazione generale del lavoro universale, sollevato dalla reale sottomissione esercitata dal capitalismo alla Bill Gates, da una ricchezza in eccesso in rapporto alla mercificazione universale: indica l’emergere di un nuovo bene comune per l’umanità, di un elemento di comunismo.

Riprendiamo l’analisi delle pagine contenute nel capitolo quinto del libro.

Il modello Microsoft è caratteristico di una società di classe. Presenta i caratteri seguenti, che sono espressivi dell’incorporazione capitalista del patrimonio scientifico-tecnologico:

  1. l’uso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche si effettua a vantaggio della classe egemone dal punto di vista socio-produttivo o delle sue frazioni; e si tratta di un’attività capitalistica altamente redditizia, a forte plusvalenza aggiunta;
  2. queste conoscenze sono di fatto non riproducibili per il bene comune, perché gioca il monopolio dei mezzi di produzione e delle condizioni di produzione: e questo monopolio è sanzionato dall’istituzione dei brevetti e dalla proprietà privata sul lavoro intellettuale;
  3. regna un’assenza di libertà e di potere, che impedisce il miglioramento in funzione del vantaggio comune degli elementi che formano l’insieme del lavoro universale; Il processo di utilizzo del lavoro universale ha in maggior parte come scopo la produzione di beni di lusso e per destinatario la soddisfazione del narcisismo delle classi possidenti, senza riguardo per bisogni altrimenti più urgenti;
  4. l’utilizzo di questo patrimonio è condizionato dalla sua sottomissione agli interessi materiali della classe dominante ed è retta dalla produzione di benefici esclusivi di natura durevole: esclude il ricorso a conoscenze e tecnologie che modificherebbero l’ampiezza dei suoi benefici e darebbero profitto alla comunità con un costo minore (è il caso per i farmaci generici);
  5. il lavoro universale è strutturalmente finalizzato a un uso offensivo e militarista, alla produzione infinitamente avanzata di mezzi di distruzione.

Il modello Linux è proprio di una società contraddistinta da solidarietà collettiva e iscritto nella problematica del bene comune. Presenta le caratteristiche alternative seguenti:

  1. l’uso delle conoscenze scientifiche risulta a vantaggio comune degli uomini e soddisfa gli interessi generali, senza nessuna esclusione preliminare di qualunque frazione della popolazione;
  2. implica una loro riproducibilità completa e gratuita, senza limite, con l’eccezione parziale del settore militare;
  3. il patrimonio scientifico-tecnico è aperto – quanto alla sua disponibilità – a tutti, compreso i “dilettanti” che trovano l’occasione di manifestare le loro attitudini creative;
  4. la destinazione del processo di utilizzazione di questo patrimonio si regola solo su fini produttivi utili, oltre che sulla produzione di beni di consumo tendenzialmente accessibili ai membri delle società collettiviste;
  5. l’utilizzo di conoscenze scientifiche e tecniche risulta illimitato, perché il progresso illimitato della conoscenza e del potere di controllo della natura è orientato sull’interesse generale della collettività;
  6. nel campo militare questo utilizzo può essere solo difensivo.

Questo chiarimento dovrebbe risultare un punto di riferimento negli attuali dibattiti. L’ipotesi dello sdoppiamento delle due linee – la nera e la rossa – ha già ricevuto da parte dei tre autori uno sviluppo pertinente riguardo alla religione, il cristianesimo in particolare, nella prospettiva di Ernst Bloch, con la loro opera “Ratzinger o Fra Dolcino?” L’effetto dello sdoppiamento nella religione occidentale (2012). Anche qui si oppongono una religione dei potenti e una religione dei subalterni. La prima prende la forma di una gerarchia ecclesiastica basata sul monopolio della parola di Dio, che serve i poteri costituiti e mantiene l’obbedienza delle masse attraverso un po’ di carità per i poveri e un’abile gestione del timore; la seconda è quella di una chiesa orizzontale dei poveri e delle comunità di base, che partecipa alla lotta politica per la giustizia reinterpretando le Sante Scritture nel senso del Sermone della montagna.

Questa proposta è simultaneamente storica, epistemologica e politica. Si oppone a tutte le proposte romantiche dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, che hanno fatto della conoscenza scientifica e tecnica un mezzo di dominazione e di devastazione della natura e dell’umano,  giustificandosi con il ricorso a una critica radicale della razionalità strumentale (Heidegger, il primo Lukàcs, i primi rappresentanti della Scuola di Francoforte, Scheler). Questa proposta riposa su presupposti teorici che sono vigorosamente affermati e argomentati, e che crediamo utili da commentare e/o discutere come approfondimento. Sono domande vive, che hanno tormentato i marxisti e che devono ancora essere esaminate.

L’opera si inscrive, in effetti, nella tradizione di un realismo materialistico che sarebbe quello di Engels nella Dialettica della natura e del Lenin di Materialismo e empiriocriticismo. Gli autori hanno ragione di non considerare queste tesi come se fossero appestate o naif perché sono state sfigurate nel Dia-Mat sovietico e trasformate in elementi di un’ontologia generale diventata una super-scienza. Ma bisogna distinguere a questo proposito la tesi materialista da quella realista che è, in un certo modo, la sua condizione preliminare. Questa tesi realista evita di richiudere la riflessione sulla conoscenza nel cerchio del soggetto e dell’oggetto e della correlazione irriducibile, senza alcun esterno, che lo caratterizza. Questa correlazione, in effetti, ripete instancabilmente che non c’è oggetto senza soggetto e che l’oggetto esiste solo in funzione dell’attività costruttiva del soggetto. L’idealismo non può, in effetti, pensare nulla al di fuori di questa circolarità incantata, per la quale qualunque posizione di realtà risulta un’ingenuità naturalista. Le scienze forniscono tuttavia una conoscenza indefinitamente avvicinata o approssimativa dei fenomeni del mondo che, per essere costruiti nella loro conoscenza, non sono semplicemente dei correlati dell’atto di conoscenza ma rinviano a delle realtà consistenti ed effettive che, una volta conosciute, potranno agire nella storia umana diversamente da quando non erano note.

L’utilizzo di energie e delle proprietà fisiche, chimiche, biologiche dei corpi ne è la prova lampante, non giustificando la demiurgia idealistica e la sua cerchia dell’oggetto e del soggetto. Questi fenomeni esistono davvero al di fuori di questa correlazione, anche se non sono conosciuti e anche se ricaviamo dalla conoscenza il mezzo di scoprirle e di renderle produttive. Questa tesi realistica evita qualunque ricorso a una problematica trascendentale e permette di pensare la fatticità del mondo, la sua contingenza, la contingenza della necessità. Il fatto è quello che “c’è”: c’è il mondo. Il fatto è che questo mondo è indefinitamente conoscibile nella storia della conoscenza, senza mai essere conosciuto una volta per tutte come una modalità simultanea. La conoscenza è sempre approssimativa e mai compiuta; mai compiuta, ma sempre obbiettiva a diversi gradi. Questa tesi tuttavia non è solidale con un determinismo ontologico;  afferma la necessità della contingenza, che il materialismo dialettico sovietico non ha potuto pensare, in quanto riuniva nello stesso insieme determinismo della totalità-mondo e teologia del regno dell’uomo in seno a una cosmogonia totalizzante.

Il materialismo di fatto tiene conto di questa fatticità che è iscritta nella storia della scienza. Il mondo è figlio dell’azzardo che niente ha voluto e che fa necessità, una volta che vengono prodotte certe condizioni d‘intelligibilità. Nel corso delle loro modificazioni queste condizioni si trasformano a loro volta senza poter essere anticipate. Queste nuove modificazioni producono la possibilità di un’altra emergenza contingente. Engels e Lenin hanno, con Hegel, mantenuto la tesi della libera necessità e smarrito il legame della contingenza alla necessità. Hanno connesso il realismo a una filosofia dell’essere materiale necessario, ma questa materia si qualifica solo in analisi specifiche, sempre referenziali, onde evitare di dare luogo a una metafisica dogmatica.

Marx, e con lui il materialismo storico come l’hanno concepito al loro tempo Antonio Labriola e Antonio Gramsci, ha sviluppato un materialismo che si sviluppa in due tesi:

 1) Ogni scienza presuppone un oggetto effettivo preliminare, un’esistenza indipendente alla quale si riferisce. La scienza della storia in particolare si riferisce a una particolare esistenza sociale che ha la sua propria materialità nella quale si iscrivono l’ideale, la rappresentazione, l’immaginario e il simbolico, come prova Marx con la presenza permanente nella sua opera della critica dei feticismi. Marx nel Capitale dichiara che questa esistenza rileva da una tecno-logica sociale allargata che include gli usi specifici di tecniche, forme simboliche e dei rapporti sociali che le strutturano. L’esistenza umana, la poiesis-praxis, appare nel modo proprio di questa tecnologia, come viene sostenuto dai nostri tre autori.

2) La scienza della storia coglie il movimento interno del suo oggetto perché coglie l’articolazione delle pratiche sociali che sono tutte simultaneamente pratiche di senso, di significato, irriducibili a qualunque riduzionismo naturalista e a qualunque gerarchizzazione delle forme esistenti, come prova la penetrazione dei rapporti sociali attraverso l’oggettività spettrale del feticismo. Il materialismo comprende la produzione del non materiale, degli effetti d’idealità, dei linguaggi sociali eterogenei che si iscrivono nella materialità sociale. Marx non erige la Natura come unità della materia univoca, ricoprendo la totalità dell’esistenza. Una tale tesi farebbe del pensiero e della conoscenza il riflesso del movimento materiale. Engels cede a volte a questa tentazione e fa delle leggi della dialettica leggi della globalità dell’essere, rendendo così possibile la dogmatizzazione del “dia-mat marxista-leninista”. Questo punto forse non è affrontato con i particolari, auspicabili dai nostri autori, che non definiscono con sufficiente distacco critico quello che intendono per materialismo dialettico. È anche vero che la loro lotta per l’oggettività delle scienze contro l’irrazionalismo e contro la cerchia della correlazione soggetto-oggetto rimane l’essenziale per loro: ma questa lotta sarebbe rinforzata dalla presa di coscienza rispetto a questa distinzione.

Questa indeterminazione comporta una conseguenza: i tre autori legano l’indefinito della conoscenza e della tecnologia a una visione progressista della storia che ha il coraggio di inscriversi in controtendenza contro il nuovo senso comune post-moderno, il cui catastrofismo di fine del mondo ricusa qualunque progresso. Spingono questo coraggio fino a ritrovare il linguaggio del prometeismo moderno che prolungano in “specismo”, affermazione dell’assoluta superiorità della specie umana riguardo a tutte le altre specie viventi. È vero che Marx ha fatto di Prometeo l’eroe del suo pantheon privato, seguendo Goethe e la sua magnifica poesia, coronando così la stirpe dell’umanesimo rinascimentale (Pico della Mirandola, Bruno, Bacone). I nostri autori intitolano così il loro ultimo capitolo, il capitolo otto, “Il prometeismo marxista e i suoi avversari di sinistra”: questa posizione ci sembra avere la capacità di unificare la critica razionale di qualunque liquidazione irrazionale della scienza e della tecnofobia romantica. Ma questa unificazione si paga a un prezzo elevato, che vorremmo amichevolmente discutere: quello cioè di una sopravvalutazione, diventata storicamente impossibile, del prometeismo come tale, marxista o non.

In generale gli autori prendono in contropiede la doxa catastrofista che inscrive nella conoscenza e nella tecnica un progetto di messa a disposizione dell’essere per fermarlo meglio – il Gestell heideggeriano. Rifiutano di condannare la conoscenza, come dimenticanza dell’essere, e ricusano il primitivismo presente nella deep ecology, che sottovaluta l’indifferenza della natura riguardo alle sue creature e traveste i problemi reali posti dalla produzione per la produzione, facendone i risultati di una scienza che segue il suo impulso di sottomissione infinita degli esseri; respingono inoltre la tesi secondo quale la scienza “non pensa”.

in un modo più specifico e originale, criticano la versione di sinistra di questa corrente all’interno del marxismo, presentendone un’utile storia a grandi linee delle sue manifestazioni.

Cominciano dalla critica della corrente sovietica del proletkult, iniziata dal filosofo Bogdanov, che oppose una scienza borghese marcata dai suoi limiti di classe alla scienza proletaria, sollevata dalle sue limitazioni. Questa corrente ha trovato sia la sua conferma sia la sua squalifica nell’affare Lysenko che ha condotto, sotto Stalin, a rifiutare i principi della genetica moderna e ha ritardato la biologia sovietica durante lunghi anni. Il sapere scientifico nel suo contenuto trascende le divisioni di classe, come sapeva bene Lenin. Le tesi tecnofobiche ed epistemofobe di sinistra nel marxismo possono prendere forme più sottili, limitate all’idealismo epistemologico come nel caso dei marxisti cosiddetti occidentali. I nostri autori criticano così il kantismo dell’austro-marxista Max Adler, l’intersoggetivismo di classe che sostiene Lukàcs nella sua “Storia e coscienza di classe”, esacerbate dai teorici di Francoforte (Horkheimer, Adorno e Marcuse). Al di fuori del marxismo, queste tesi sono individuate e criticate dagli attuali sostenitori della decrescita, che siano marxisti o meno. Queste tesi svalutano le scienze, senza distinzione di tradizione, col pretesto della lotta al positivismo. Convergono con la critica irrazionalista del sapere e il ricorso romantico alle mitologie, come aveva esposto nel 1952 Lukacs nella sua opera – relativamente autocritica – così tanto denigrata ma pertinente, intitolata “La distruzione della ragione”. Ma l’argomento del prometeismo tocca più in profondità, nella misura in cui coinvolge la problematica metafisica dei rapporti dell’infinito e del finito.

Esponiamo la difficoltà partendo dalla domanda sul concetto marxista di General intellect. Gli autori interpretano spesso questo concetto con quello di lavoro universale. Dimostrano che il capitalismo cattura e condensa, moltiplicandola, la potenza crescente di scienze e tecnologie; la limita imponendole una sottomissione reale esercitata dai rapporti di dominazione di classe e dai rapporti di assoggettamento politici e ideologici. Certamente, la connessione che si opera fra più elementi è oramai indissolubile: il prodotto sociale condensa come enorme capitale costante un grado crescente di sviluppo scientifico e tecnologico, un tasso elevato di produttività sociale del lavoro. Malgrado le distruzioni disuguali di posti di lavoro, che si impongono in maniera disuguale a seconda delle aree economiche e sociali e degli spazi geopolitici, il modo di produzione capitalista è entrato nell’età dell’eccedenza irreversibile, realizzando un salto qualitativo che è un taglio storico paragonabile a quello più importante (neolitico). Con questo lavoro universale la specie umana dimostra che è la specie vivente più potente del globo terrestre, che può fare tutto e diventare tutto.

Le attuali scarsità di energie non possono essere dichiarate definitive una volta per tutte. In effetti, ci stiamo preparando alla conquista e alla produzione di altre importantissime energie, come quella che permette la fusione termonucleare. Con loro il comunismo come società dell’abbondanza diventa una possibilità reale, che dipende dalle lotte di massa. Il comunismo stesso non è lo scopo ultimo. È la forma superiore del prometeismo, che ha per scopo la creazione infinita della specie associata attraverso l’espressione infinita delle sue capacità infinite. Si potrebbe giudicare eccesivo questo umanismo prometeico e criticare la sua mancanza di limiti, la sua hybris che utilizza la storia progressiva delle scienze e delle tecniche per farne il modello di ogni storia presente e futura. Ci torneremo. Ma non bisogna sottovalutare il fatto che nei nostri tempi di catastrofismi e di fine del mondo, quest’ottimismo ontologico e storico basato sull’acquisto del “surplus” tecno-scientifico ha un’aria di provocazione salutare, tanto più che l’opera manifesta una consapevolezza delle difficoltà imposte dal capitalismo mondializzato: disparità crescenti, divisione di ogni tipo e soprattutto  accumulazione di un potere inedito di autodistruzione della specie, a causa delle armi nucleari e delle modificazioni irreversibili del rapporto con la condizione naturale di riproduzione della vita. Il prometeismo si vuole lucido. Si fa base del cosiddetto “specismo”, la superiorità irreversibile di questa specie che può tutto e che corre oggi il rischio di essere “nulla”, “nulla del tutto”, se non evita la minaccia della sua autodistruzione.

Questa riaffermazione, incrociata all’unità marxiana e marxista dell’umanismo, del comunismo, del prometeismo e dello specismo richiama al dialogo. È vero che si può sostenere che il nostro mondo non soffre così tanto per via delle scienze e tecnologie, ma del fatto che sono troppo poco e male utilizzate, visto che le scienze e le tecnologie sviluppate secondo la “linea nera” servono l’accumulo infinito del profitto e del capitale, la distruzione delle condizioni di vita naturale, il rischio di autodistruzione. La nostra superpotenza potrebbe invertirsi in super-minaccia e in super-impotenza, in suicidio collettivo. Siamo davvero presi in una crisi della civiltà e una biforcazione maggiore ci si presenta, un “aut-aut” radicale. È proprio questa situazione che conduce ad interrogare i termini dell’unità marxiana-marxista, così come ci sono presentati.

Il pensiero di Marx può benissimo essere iscritto nella tradizione dell’umanismo moderno, che fa dell’uomo un creatore di mondi e di se stesso. Ma il “sicut eris Dei” del Tentatore, evocato positivamente da Ernst Bloch, deve essere criticato, soprattutto se resta acquisito il fatto che l’uomo non deve più pensarsi come creatura sottomessa a Dio e eletta da lui, nel corso di una creazione divina. Per un umanismo riflessivo, come quello di Marx o come quello di Spinoza, la specie umana non è un impero all’interno di un impero, ma una realtà modale finita espressione della potenza infinita, della produttività ontologica. Questo modo viene sempre esposto all’interazione di un’infinità di modi finiti dove si esprime questa produttività, a cominciare dagli altri modi umani identici. Se un avvenire di liberazione della potenza di agire e di pensare rimane strutturalmente aperto, nulla è assicurato o garantito: le acquisizioni della prospettiva della lunga durata non possono prendere il posto di una filosofia della storia teleologica e dogmatica.

La nostra condizione inedita è quella di un incrocio, di un’alternativa radicale; ci obbliga a non raccontarci storie a proposito di quello che oggi può il nostro potere di conoscenza e il nostro controllo tecnologico, all’epoca del capitalismo mondializzato e scatenato. L’umanismo può essere l’antidoto contro i catastrofismi a condizione di non essere “entusiasta”, nel senso di posseduto da un feticismo scientifico e tecnologico. Le lotte sociali e politiche sono necessarie, nella pratica scientifica e tecnologica stessa, per orientare nuovamente le scienze e le tecniche, per sconnettere il patrimonio scientifico e tecnologico dalla sua incorporazione in seno al capitale costante e ridefinirlo secondo il valore in uso dei bisogni umani più urgenti. Sia l’umanismo – ma non sarà un umanismo erede della teologia e senza nessuna nostalgia del posto vuoto di Dio – un umanismo che ricorderà costantemente che l’umanità non è il centro dell’universo. Così è il primo risultato della nostra discussione.

Come viene precisato da Giulio Bonali nel dialogo che chiude l’opera, questo umanismo prudente e limitato, radicale e realista, trae la sua referenza in Italia nella grandissima figura di Leopardi e del suo interprete marxista, Sebastiano Timpanaro. Aggiungeremmo, per quanto ci riguarda, Spinoza.

Il comunismo di Marx, pur essendo un naturalismo sotto certi aspetti, pretende di ereditare l’infinitezza della potenza umana disconnettendola dall’infinito dell’accumulazione capitalista e orientandola verso lo sviluppo infinito del valore d’uso, come se Aristotele si riconciliasse con Hegel in qualche modo. Il problema si sposta nel processo infinito della conoscenza tramite un incessante approfondimento e in quello della tecnica per rettificazioni permanenti che non possono incorporarsi, effettuandosi solo in azioni finite e in istituzioni finite, di cui bisogna misurare il grado di contraddizione e il peso in termine di alienazione.  La prospettiva di un’abbondanza finale rischia infine di essere un punto di fuga del pensiero, perché sarà questa abbondanza putativa a gerarchizzare i bisogni umani in funzione della massa di surplus disponibile, che varierà con la moltiplicazione della produzione e la divisione funzionale delle attività. La polivalenza dell’individuo libero in un’associazione libera avrà dei limiti, e tenderà a orientarsi in una o l’altra direzione in funzione delle competenze acquisite. L’infinito dell’abbondanza non può essere separato dalla finalità delle attività, e non possiamo eliminare l’apparizione di contro-finalità una volta che lo sfruttamento di classe e la dominazione statale e burocratica saranno sparite. L’autoproduzione umana non può essere trasformata in assoluto “per noi” senza essere riferita alla condizione finita della sua realizzazione. La metafisica moderna dell’infinito rimane presente nel pensiero di Marx, che non viene consultato. Si potrebbe formare allora, in controtendenza, il concetto programmatico di un comunismo della finitudine per significare la necessità di questo riferimento, che implica una ragione prudenziale, analisi comparative, decisioni e controlli permanenti delle decisioni e dei loro eventuali effetti controproducenti  in una società comunista.

Il prometeismo incontra difficoltà, non per via del suo senso eroico e critico “odio tutti gli dei” – ma per via della sua ambizione autoreferenziale – “formo l’uomo” e mi formo attraverso questa auto trasformazione, senza alterità. Rimane il fatto che il comunismo, questo momento che è un mezzo di tale prometeismo, può essere portatore d’illusioni di superpotenza e di controllo, quando la nostra situazione che fa epoca ci chiede invece di conquistare e di esercitare la potenza di controllare, o addirittura di limitare la nostra superpotenza, superando il capitalismo – quella che è la condizione indispensabile del divenire di ogni civilizzazione, dell’uscita della barbarie della produzione della speculazione – che è l’attuale maschera della barbarie della riflessione che preoccupava tanto Vico. La questione ecologica almeno possiede il merito, senza dover affondare necessariamente nella mistica della Deep Ecology.

L’esaltazione del carattere singolare e unico della specie umana corrisponde a un livello di realtà della vita sul nostro pianeta. È facile fare dell’umano l’altro del non umano, di tutto quello che può essere ridotto nella posizione di dato e di posto, e che non accede mai al posto di soggetto autorealizzato. Il materialismo dialettico, fieramente rivendicato, si trasforma allora in idealismo della praxis autonomizzata. La specie umana è in ogni caso la sola ad avere potuto, e sempre a poter sviluppare  le scienze, la tecnica, il linguaggio, il simbolico, la città, il diritto, perché è l’unica ad attualizzare in sé e da sé la potenza della produzione. Questa specificità dello specifico è in realtà solo la maniera umana di esistere nella natura, e la sua singolarità non deve farci girare la testa in un delirio di onnipotenza. La specie non dovrebbe cessare di pensare alla superstizione della sua originalità assoluta? Spinoza l’aveva capito e teneva le due estremità della catena. Affermava allo stesso tempo: l’uomo è un lupo per l’uomo, come può essere un dio per l’uomo; è simultaneamente un modo finito, dotato di un corpo che non sa ancora tutto quello che può, di uno spirito che non coincide ancora con l’intendimento infinito di dio, di cui è parte e che può riflettere, ma non è pertanto un impero nell’impero.

È il mantenimento della tensione fra queste tesi opposte che costituisce per noi la linea di separazione e che ci conduce a temperare l’umanismo con l’anti-antropocentrismo, il comunismo dell’abbondanza con il comunismo della finitudine e della misura, il prometeismo che ci rende padroni della natura con un pensiero senza illusioni dell’individuazione razionale, e infine lo specismo entusiasta dell’autoproduzione infinita dell’uomo con la condizione finita del relazionismo solidale in un mondo condiviso maggiormente in comune, con un “interspecismo” da definire.

La problematica che si pone finalmente è quella della plasticità umana indefinita e della sua cattura dal solo modo di produzione capitalista. Il recupero critico dell’idea di progresso può operare solo se la critica marxista o marxiana, o di qualunque altro pensiero critico, cessino di trovarsi sovraccaricate dalle iniziative di mutazioni rese possibili e dirette secondo la logica del modo di produzione capitalista. È il paradosso storico della nostra situazione, quello che tentano di scongiurare i nostri tre autori. Hanno capito che si tratta di operare una distinzione fra storicità ed emancipazione; cosicché oggi appare conservazione tutto quello che resiste, come conservatori tutti quelli che intendono conservare e quello che merita di esserlo, nella resistenza all’egemonia della produzione per l’accumulazione.

Da questo punto di vista il modello Linux risponde alla provocazione, e indica una via feconda in seno alle discussioni che tentano di fissare le condizioni di possibilità della sua affermazione. Siamo persuasi che questo libro audace, pertinente, coinvolgente e discutibile sarà di grande utilità per far capire che le forze di emancipazione e del lavoro si confrontano rispetto al compito di catturare, nel loro senso comune, la plasticità umana espropriata e diretta secondo la logica dittatoriale del capitale.

(http://www.robertosidoli.net/pubblicazioni/patrimonio-scientifico-tecnologico-fra-lunga-durata-e-attuale-emergenza/)

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