Donatello Santarone*
Gli studi interculturali sono molto vasti, un enorme contenitore dove convivono prospettive scientifiche e culturali spesso opposte. C’è un’intercultura “aziendalista” (e persino “militarista”) che vuole conoscere il cosiddetto “altro” per meglio colonizzarlo (un po’ come i primi antropologi al servizio degli eserciti coloniali nell’800): è una visione tutta strumentale della relazione con i paesi e i popoli del Terzo e Quarto Mondo, finalizzata esclusivamente alla dimensione mercantile del rapporto.
C’è poi un’intercultura apparentemente più ecumenica, che fa appello ai buoni sentimenti, che proclama i diritti umani, che, insomma, vuole mettere una pezza ai disastri provocati dal capitale globale (prima facciamo le “guerre umanitarie” poi ricostruiamo con le ong e le donazioni). Tale intercultura si presenta meno aggressiva dell’altra, ma, nella sostanza, è confermatoria dei rapporti di potere esistenti. Detto in altre parole, i diritti umani vanno bene a patto che non mettano in discussione i processi di accumulazione globale del capitale e il comando delle nuove oligarchie planetarie della finanza, della produzione, del commercio. Un esempio eclatante è quello del Delta del Niger, in Nigeria, dove da anni si combatte una lotta sanguinosa contro la corrotta borghesia autoctona e contro le multinazionali del petrolio (Shell, Texaco, Eni, ecc.) che hanno ridotto a un inferno quei territori causando immani sofferenze ambientali e sociali, ma su cui i cosiddetti diritti umani sono, per dir così, sospesi. Chi, come lo scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa e tanti anonimi militanti hanno combattuto contro tutto questo, sono stati brutalmente impiccati con la complicità della Shell, dell’Eni e di tutti i governi dell’occidente “democratico”.
C’è da dire che i due tipi di intercultura quasi sempre si presentano intrecciati e che l’uno è di sostegno all’altro.
Esiste, infine, una prospettiva interculturale – la potremmo definire internazionalista - che sostiene essere la relazione paritaria tra soggetti, società, culture, popoli, paesi diversi, al centro dei rapporti umani e storici. Tale relazione prende atto dei conflitti di potere, ad esempio tra lavoro e capitale, tra immigrati e quella parte degli autoctoni che li vorrebbero invisibili, tra maschi autoritari e violenti e donne, ecc. Si tratta di un filone di ricerca e di azione educativa che si articola in studi storici, letterari, sociologici, pedagogici, economici, scientifici ecc. presenti in tante università e centri di ricerca del mondo e collegati agli studi su Marx e Gramsci, sul postcolonialismo, sulla subalternità (in India), sull’educazione come bene in sé e come processo di coscientizzazione (Freire in Brasile), sulla teologia della liberazione, sul pensiero femminista ed ecologista (Vandana Shiva), sui gruppi che lottano per difendere l’accesso libero alla rete contro gli attacchi delle imprese multinazionali o che lottano per la difesa dell’acqua come bene comune, sui movimenti contrari alla globalizzazione neoliberista ecc.
All’interno di questo ultimo filone, la prospettiva marxista sull’educazione interculturale riveste un ruolo significativo. Rispetto al “culturalismo” dominante nei discorsi sull’educazione interculturale, discorsi che assumono le “culture” molto spesso in modo statico, generico e separato dai concreti processi storici, il marxismo pedagogico attribuisce una particolare importanza alla dialettica cultura/rapporti di produzione, dimensioni cognitivo-simboliche/strutture socio-economiche. Una dialettica al centro della riflessione di Marx quando scrive che gli uomini prendono coscienza della loro condizione sul piano delle idee. Il filosofo tedesco sostiene, infatti, che attraverso le forme ideologiche gli uomini prendono coscienza del mondo, proponendo così un rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura. L’educazione, quindi, come forma ideologica, è anche fattore di emancipazione, luogo di coscientizzazione, avrebbe detto il teorico della “pedagogia degli oppressi”, il brasiliano Paulo Freire.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente [corsivo nostro, n.d.r.] tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre [corsivo nostro, n.d.r.] fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo1.
Dove va notata l’assenza di qualsiasi determinismo, più volte ribadita da Marx ed Engels. Così scrive, ad esempio, Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch:
Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura […] le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali. […] Vorrei del resto pregarla di studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano, è veramente molto più semplice. […] Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx e io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca2.
Tra le critiche più ricorrenti che da oltre un secolo vengono rivolte a Marx vi è quella relativa a un certo determinismo economicistico secondo il quale le idee, la cultura, l’arte, la religione, l’educazione, insomma l’intera dimensione cognitivo-simbolica dell’attività umana, sarebbero un mero riflesso della struttura economica. Ma questa accanita insistenza sulla dimensione economica, come abbiamo visto nella lettera di Engels, nasceva dal fatto che nessuno, prima di loro, aveva dato il giusto rilievo all’economia, “anatomia della società civile”, e che questo enorme dispendio di energie intellettuali aveva impedito loro di dedicare altrettante energie al resto. Questo tuttavia, aggiungeva Engels, non significa alcuna meccanica dipendenza della coscienza dall’economia, della “sovrastruttura” dalla “struttura”. Solo che una compiuta realizzazione “spirituale” degli uomini non potrà avverarsi se non verranno spezzate le catene alienanti con cui il capitale tiene legati a sé gli individui. Marx, da autentico umanista-scienziato, studia l’economia politica non per ridurre l’uomo a “uomo economico”, ma per l’esatto contrario: restituire l’essenza umana fatta di relazioni, affetti, intelletto, creatività, a un uomo che il capitalismo ha reificato.
Le ‘sovrastrutture’ – scrive Nicolao Merker – non sono dunque meno importanti delle ‘strutture’. Il testo del 1859 [Prefazione a Per la critica dell’economia politica] usa i sinonimi tedeschi Struktur e Basis per indicare la ‘struttura’, e Überbau per significare quel che in altre lingue è stato poi reso con ‘sovrastruttura’. La traduzione funziona a patto che al termine non venga attribuito che quel che sta ‘sopra’ sia secondario a quel che sta ‘sotto’. Struktur, Basis e Überbau sono metafore architettoniche. Überbau è la ‘costruzione’ (Bau) elevata ‘sopra’ (über) un fondamento. Ovviamente senza le fondamenta non c’è edificio, ma se l’edificio fosse secondario rispetto a quelle, tanto varrebbe abitare nelle cantine. La distinzione è dunque di ambiti, non di valore e dignità: come se spregevoli fossero le case, e degne soltanto le fondamenta. Di più: la parola ‘struttura’ o ‘base’ sta nel Marx del 1859 per un insieme che comprende ‘forze produttive’, ‘modi di produzione’ e ‘rapporti sociali’ corrispondenti. La produzione, certo, è quella di beni economici, la quale però, già trattandosi di produzione, non è ricezione passiva di una realtà materiale naturale. Per ‘produrre’ devo applicare alla realtà materiale mie iniziative indirizzate a uno scopo, immettervi quel che so fare, ovvero un mio ‘sovrastrutturale’ patrimonio teorico-pratico di abilità, raziocinio e intuito trasmessomi da generazioni di uomini pensanti e agenti. Dunque già nella produzione, essendo essa umana, sono simultaneamente presenti la ‘struttura’ e la ‘sovrastruttura’, complementari e non contrapposte3.
Questa interpretazione di Merker mi sembra di grande acume dialettico, in specie nella parte relativa al tasso di sapere contenuto nell’attività produttiva che oggi è ancor più evidente in quel variegato universo legato ai cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Va naturalmente ricordato che un enorme passo in avanti su questa spinosa questione è stato compiuto da Gramsci nei Quaderni del carcere. Ma giustamente Merker ricorda che prima di lui fu Antonio Labriola, il primo autentico teorico marxista italiano, a cogliere il nesso dialettico tra idee e mondo, tra economia e forme della coscienza.
Labriola sottolineava la nozione di “psicologia sociale”, spiegava come ogni fatto dell’‘anatomia economica’ fosse “preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme di coscienza”: sicché la storia delle forme della coscienza acquistava pari dignità di quella dell’economia. Rimise in circolazione concetti che i marxisti dogmatici aborrivano: a cominciare da una ridefinizione del termine di ‘metafisica’ circa il quale distingueva tra un uso aprioristico-speculativo e un significato invece positivo, di “dottrina generale della conoscenza o delle forme fondamentali del pensiero”4.
Così come il marxismo assegna un posto centrale all’individuo, alla persona umana.
Come il marxismo è una componente determinante (è forse troppo dire decisiva?) della storia moderna, così la formazione dell’uomo in esso implicita (o esplicita) non ha rilevanza minore al suo interno: vi si pone come la tematica specifica dell’individuo nel complesso più vasto della tematica della società. E qui devo subito ammonire, di fronte alle ricorrenti distorsioni del qualunquismo politico e della faciloneria culturale – così comode, così credibili! -, che forse nessuna teoria sociale mai ha, come il marxismo, dato valore all’individuo o, se si vuole, alla persona umana; solo che esso ha sottratto l’individuo all’astrazione monistica, e lo ha considerato per quello che è, e solo può essere: un individuo che esiste soltanto nella società con altri individui. E invero, non si può capire nulla di Marx e del suo pensiero socio-economico e antropologico, se si dimentica che l’opposizione fondamentale per lui non è davvero tra l’individuale e il sociale, in modo tale che la cura esclusiva dell’individuale apparterebbe ad altre correnti di pensiero, e al marxismo solo quella sociale (lo spauracchio del collettivismo!): in realtà, l’opposizione è in Marx tra privato e individuale [corsivo nostro, n.d.r.], tra il possesso e il godimento di beni materiali e spirituali da parte del singolo che, per ciò stesso, ne esclude gli altri, e il loro possesso e godimento da parte di tutti gli individui come complesso sociale: è l’appropriazione privata che nega l’appropriazione individuale di ogni “ricchezza”, ivi compresa la cultura, mentre l’appropriazione individuale, cioè del singolo individuo e di tutti gli individui, è la vera ricchezza, materiale e spirituale, dell’intera collettività sociale5.
Nella nuova premessa del 2008 ad un’antologia su Marx e l’educazione, Manacorda sostiene che “nel momento in cui Marx è quasi scomparso dal dibattito culturale, ma il mondo sta sperimentando l’esasperazione del sistema capitalistico di appropriazione privata dei beni comuni, contro cui egli ha combattuto, un ritorno a lui possa esserci utile”6. Ciò che caratterizza, infatti, l’odierna fase del capitale globalizzato è – come ha scritto Vladimiro Giacché in un’antologia di scritti marxiani sulla crisi –
la messa a profitto dei beni comuni, ossia di valori d’uso in precedenza gratuiti che si è cercato e si cerca di trasformare in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e l’ampliamento di ciò che è coperto da brevetto (a questo riguardo si spazia ormai dal genoma, a determinati tipi di piante, alla proprietà intellettuale). Da questo punto di vista, negli ultimi decenni si è manifestata con prepotenza la tendenza alla colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del capitale7.
L’educazione è uno di questi ambiti. In particolare attraverso la progressiva riduzione di risorse destinate all’istruzione e alla ricerca pubbliche, specie a quelle non destinate ad immediate ricadute produttive, ed alla contestuale crescita di centri di formazione privati per le nuove élite globalizzate. Tale processo di penetrazione del capitale nell’educazione avviene, in particolare, dentro le strutture pubbliche, che vengono, per dir così, “privatizzate” dall’interno, piegate cioè alla “razionalità” del capitale, alla sua ideologia egoistica e competitiva, ai suoi feticci mercantili della messa a profitto dei saperi e dell’immaginario. Dietro una apparente neutralità che a parole esalta la “società della conoscenza” viene in realtà proposta un’idea di formazione di tipo adattiva, in cui i saperi e le cosiddette competenze metacognitive servono, in ultima analisi, ad accompagnare le sempre eterne verità del cosiddetto “libero mercato” fatto coincidere con la libertà tout court del soggetto. Anche nell’ambito educativo la possibilità di concepire il processo di apprendimento come un fattore di emancipazione, di umanizzazione, di civilizzazione, di disalienazione, di creatività divergente, di critica, in ultima analisi, dei processi di mercificazione della vita umana e naturale e del suo superamento verso modi superiori di produzione sociale, tutto questo viene guardato come una perniciosa utopia novecentesca. Insomma, eternizzando il presente si elimina la possibilità di attingere al patrimonio critico del passato e si impedisce qualsiasi tentativo di costruire un diverso futuro.
Ma l’educazione, anzi il rapporto educativo inteso in senso lato, si fonda proprio sulla scommessa di superare i vincoli ambientali, sociali, culturali che spesso impediscono a milioni di giovani di progettare un avvenire migliore. Per quanti si occupano di questioni educative, e cioè di questioni che attengono ai modi di produzione e di riproduzione del sapere sociale, è di fondamentale importanza capire i nessi tra questa dimensione dell’attività umana e le determinazioni economico-sociali che la condizionano. In un sistema quale quello regolato dal capitale, in cui la messa in valore delle cose e la perenne rincorsa a maggiori profitti confligge, per sua natura, con le dimensioni non mercantili dell’esistenza, lo spazio riservato ad attività fondate sul valore d’uso delle conoscenze, dei saperi, dell’arte, uno spazio in cui sia centrale la relazione umana e intellettuale non finalizzata all’accumulazione privata e al profitto, rischia di divenire sempre più residuale ed ininfluente.
Quando Marx parla di “uomo onnilaterale”, capace cioè di esprimere le proprie qualità nelle direzioni più diverse, quando propone la riduzione della giornata lavorativa per consentire agli operai di coltivare le amicizie, di educare i figli, di partecipare alla vita politica, di andare ad una conferenza, di ascoltare musica o di dipingere, egli tratteggia, da grande umanista, la figura di un uomo finalmente libero dalla servitù del lavoro salariato, un uomo non più schiavo delle merci e del consumo, un uomo finalmente disalienato e disposto ai più alti godimenti dello spirito.
Tutto questo, però, in forme diverse a seconda delle diverse parti del mondo, viene sistematicamente negato da un sistema che presenta una “drammatica inefficienza nell’allocazione delle risorse”8, anche di quelle educative, e che aggrava i suoi caratteri di ordine sociale escludente proprio nei momenti di crisi come quello odierno. E tutto ciò non per la cattiveria di qualche imprenditore o per l’avidità di qualche banchiere ma perché, come scrive Vladimiro Giacché, “il modo di produzione capitalistico è per sua natura orientato verso il conseguimento della massima valorizzazione del capitale nel minor tempo possibile”9.
Risulta chiaro, quindi, che tutto ciò che non è finalizzato, in forma immediata o mediata, al profitto e all’accrescimento della proprietà privata diviene un fattore marginale per il capitale che tenta in ogni modo di eliminare o contenere. Le somme immense destinate al salvataggio delle banche o all’ammodernamento degli arsenali militari se fossero destinate ad aumentare la quantità e la qualità dell’istruzione del mondo potrebbero divenire un boomerang per il capitalismo stesso, in quanto attraverso l’educazione, il metodo scientifico, l’acquisizione di un repertorio di conoscenze necessarie per capire il mondo, molto probabilmente si determinerebbe la diffusione di un pensiero critico di massa che potrebbe consentire a milioni di uomini e donne la consapevolezza dell’irrazionalità distruttiva del capitalismo. A meno che l’istruzione non sia addestramento o, ai livelli più sofisticati, apparato ideologico di sostegno e di riproduzione dell’ordine sociale esistente. Le “mosche del capitale” (Paolo Volponi) sono le migliaia di giornalisti, ricercatori, docenti stipendiati dal sistema e che ne tessono quotidianamente le lodi, oltre ad averne consistenti vantaggi economici.
Il pensiero di Marx, quindi, rappresenta uno sfondo cognitivo entro cui leggere anche i fenomeni educativi. Uno sfondo cognitivo attraverso cui comprendere, ad esempio, le caratteristiche delle istituzioni educative, il loro essere deposito e trasmissione delle idee delle classi dominanti e, insieme e dialetticamente, luogo di critica e di elaborazione di un sapere libero e non mercantile.
Attraverso Marx riusciamo a comprendere anzitutto che l’educazione, nella sua autonomia apparente, è in realtà intrinsecamente legata alla società e alla storia, di cui è una delle espressioni simboliche, culturali, ideologiche. Il capitale, infatti, non è solo un processo economico, ma un dispositivo complesso di relazioni produttive, sociali, culturali, educative, psichiche. Esso informa l’intera esistenza, l’essere umano nella sua totalità. La pervasività del capitale, la sua proposta di una sapiente e molecolare “pedagogia del consumo”, la mercificazione di ogni aspetto della vita umana e naturale producono una mutazione nei soggetti, consumatori svuotati dell’essenza umana, e costringono gli educatori a fare i conti con questa mutazione. I giovani – in particolare quelli delle metropoli capitalistiche – vivono immersi in un mondo fatto di merci, di immagini e suoni, di pubblicità, di incentivi al consumo, in cui “il prodotto produce il produttore” (Marx)10. Per comprendere e criticare questa dimensione dell’esistenza serve Marx, il suo repertorio di conoscenze e concetti, il suo lessico (capitale, classe, dialettica, alienazione, materialismo storico, lavoro, pluslavoro, plusvalore, denaro, merce, accumulazione originaria, modi di produzione, rapporti di produzione, struttura e sovrastruttura, ecc.) che si trasformano in orientamenti politico-culturali per leggere e trasformare il mondo. “Ritorna in primo piano – ha scritto Bruno Gravagnuolo – la maniera in cui tutto questo si riversa in cultura, valori, forme di coscienza”11. La “maniera”, cioè la mediazione pedagogica, nel suo doppio significato: la trasferibilità educativa del pensiero di Marx e la dimensione pedagogica di quello stesso pensiero.
Senza la conoscenza degli effetti che il capitale determina nei corpi e nella psiche di miliardi di esseri umani attraverso lo sfruttamento, la mercificazione di ogni aspetto della vita umana, con l’alienazione dei soggetti nel lavoro e nella vita, che ha come conseguenza la creazione di un sistema di rapporti tra uomini mediati da cose, risulta difficile immaginare un’azione educativa che tenga conto delle mutazioni a livello socio-economico, cognitivo, socio-affettivo dei soggetti, minori e adulti, che partecipano ai processi formativi. I quali, appunto, sono dei processi che fanno riferimento alla materialità ed alla storicità degli attori che vi partecipano, ed esigono, di conseguenza, soluzioni educative che tengano conto dei mutevoli contesti in cui avvengono.
Pensando all’educazione come liberazione dal dominio del capitale per consentire ad ognuno il godimento dei più alti prodotti dell’intelletto, quindi pensando marxianamente ad una educazione “onnilaterale” che sviluppi, cioè, tutte le dimensioni dell’uomo, consentendogli di porsi, se non come produttore, come fruitore di tutti i superiori godimenti umani, consentendogli di accedere ai massimi livelli del sapere, secondo l’antico insegnamento di Comenio di “insegnare tutto a tutti”, pensando all’educazione come bene in sé, necessario per esercitare attivamente i diritti di cittadinanza, un posto di rilievo spetta alla riflessione educativa di Antonio Gramsci. Anch’egli, come Marx e tanti marxisti, mette in guardia dal riduzionismo panpedagogico e colloca i problemi dell’educazione nella dialettica tra determinazioni socio-economiche e costruzioni simboliche, dilatando, tra le tante cose, il “rapporto pedagogico” dalla scuola all’intera società e connettendolo alla fondamentale categoria dell’“egemonia”.
Il rapporto pedagogico – scrive Gramsci nel Quaderno 10 – non può essere limitato ai rapporti specificatamente “scolastici”, per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari “maturando” e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di “egemonia” è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali12.
Di scuola e educazione Gramsci parla in diversi luoghi dei Quaderni, ma è nel Quaderno 12 che lo fa in maniera più organica. Il pensatore comunista connette la questione dell’educazione a quella degli intellettuali: una sovrastruttura necessaria alle classi dominanti per il consenso e per la coercizione. In questa prospettiva è molto marcato il rilievo che egli assegna ai sistemi educativi come forme della riproduzione sociale (in ciò risultando forti le consonanze con un maestro della sociologia critica contemporanea: il francese Pierre Bourdieu). Di qui l’interesse di tante suggestioni gramsciane: la distinzione tra scuola attiva e scuola creativa, il nesso educazione-istruzione in polemica con l’idealismo, la rivendicazione di una scuola unitaria di base di cultura generale, la polemica contro l’oratoria e il dilettantismo, la nozione di conformismo dinamico, l’impegno dello Stato nella promozione dell’istruzione pubblica, l’educazione civile e scientifica in lotta contro le concezioni folcloristiche dell’ambiente di provenienza degli allievi, la categoria della mediazione, lo studio come lavoro necessario ad acquisire un abito di concentrazione fisico-muscolare indispensabile per la ricerca, la critica contro la concezione professionalizzante della scuola che perpetua e cristallizza le differenze sociali, la necessità di educare alla relazione con le diversità.
Tale processo di mercificazione dell’esistenza e della natura riguarda sia gli aspetti cosiddetti materiali (mangiare, bere, vestirsi, riprodursi, abitare, ecc.) sia quelli cosiddetti spirituali. Di questo Marx ebbe chiara consapevolezza fin dall’inizio del Capitale.
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce.
La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia nulla13.
Nella grande industria la scienza nel suo insieme è stata, dice Marx, “catturata al servizio del capitale”:
Lo sviluppo storico, lo sviluppo politico, l’arte, la scienza, tutto è passato dal loro lavoro [degli schiavi], ma è il capitale che per primo ha catturato il progresso storico stesso (le scienze e la tecnica) per metterlo al servizio della ricchezza […]. L’invenzione diventa allora un’attività economica e l’applicazione della scienza alla produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa.
Nella misura in cui si sviluppa la grande industria,
la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questo loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa loro la produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione14.
“La contraddizione tra uso privato e carattere sociale dei saperi […] tra crescente socializzazione del lavoro intellettuale ed appropriazione privatistica delle idee diviene esplosiva”15.
David Harvey definisce la globalizzazione capitalistica come nuova fase “d’accumulazione per spossessamento”. In essa vede una essenziale continuità con le pratiche di accumulazione “primitiva” o “originaria” poste in essere agli albori del capitalismo:
La soppressione di diritti comuni conquistati con lotte accanite durate secoli (come la protezione sociale, la salute pubblica, le pensioni), la loro riconduzione a gestioni privatistiche, costituiscono una vera e propria politica di spossessamento, la più aggressiva condotta in nome dell’ortodossia neoliberista16.
Tale “accumulazione per spossessamento” è una delle essenziali condizioni di sopravvivenza per il sistema capitalistico. Essa va oltre l’appropriazione di materie prime, di risorse energetiche, di mano d’opera a buon mercato, estendendosi allo sfruttamento commerciale (soprattutto attraverso il mercato turistico) della storia dei popoli, per arrivare al “saccheggio puro e semplice delle ricchezze culturali”17.
La “sinistra liberale e moderna” ha rotto i ponti con l’elaborazione del marxismo. Ad esempio Jeremy Rifkin, quello che qualche tempo fa aveva imprudentemente profetizzato la prossima “fine del lavoro”, nel 2000, in L’età dell’accesso aveva sostenuto che nella “nuova economia”,
la proprietà sarebbe scomparsa, soppiantata dall’“accesso”, e che il mercato sarebbe stato così inglobato dalla rete da evaporare in essa. […] Per Rifkin, insomma, il capitale starebbe “scapitalizzandosi” da solo, eliminando per vie interne la sua stessa natura capitalistica. Dopo “la fine del lavoro”, la fine del capitale? […] Le elucubrazioni di Jeremy Rifkin non hanno alcun interesse, ma sono rivelatrici – e questo a partire dall’inizio del nuovo millennio – di una certa moda culturale, in particolare incarnata dalla “terza via” blairiana e dal nuovo orientamento da essa impresso alla socialdemocrazia europea18.
Si vedano: Lionel Jospin e Laurent Fabius in Francia, Tony Blair e Antony Giddens in Gran Bretagna, Bodo Hombart e Gerard Schroder in Germania, Romano Prodi, Massimo D’Alema e Walter Veltroni in Italia. Tutti esponenti del cosiddetto “capitalismo ben temperato” e dell’equidistanza tra capitale e lavoro.
Al di là delle uscite di una sinistra che ha voltato le spalle a se stessa, travolta dall’euforia per il mercato, l’economista Milton Friedman, maggior esponente, ora defunto, della corrente ultraliberale detta dei Chicago Boys (gente che ha lasciato e continua a lasciare sul suo passaggio molti più cadaveri di Al Capone e i suoi scagnozzi), era fin troppo consapevole di quanto la proprietà restasse il nerbo della guerra interna alla società: “la questione cruciale non sta tanto nella presenza o meno del mercato in un dato sistema sociale. Tutte le società – comuniste, socialiste, capitaliste – si servono del mercato. La questione cruciale è quella della proprietà privata”19.
Tale prospettiva consente di parlare – in campo educativo – non di un generico allievo straniero, ma di un soggetto caratterizzato da precise determinazioni di classe, da particolari condizioni socio-economiche, da distinte situazioni lavorative dei genitori, dei familiari, del gruppo dei connazionali in cui è inserito. Sembrerebbero cose scontate, ma vent’anni di egemonia culturale neo-liberale, di “pensiero unico”, hanno rimosso – perlomeno in Italia e in Europa – quasi completamente la dimensione economica dai fatti educativi (ad eccezione, si badi bene, dell’aspetto mercantile dell’istruzione come fattore di arricchimento per alcuni e discriminazione per altri). Tutto ciò ci consente di affermare che ogni innovazione didattica all’interno della scuola non può prescindere da questo contesto. Le fondamentali esperienze di accoglienza, di inserimento, di didattica interculturale, di insegnamento della L2, non possono ignorare che l’obiettivo di una eguaglianza negli esiti formativi sarà possibile soltanto attraverso un radicale rovesciamento dei meccanismi socio-economici che determinano le attuali disuguaglianze anche all’interno della scuola. E’ questo, fondamentalmente, che distingue la prospettiva marxista nell’educazione da altri, pur importanti, orientamenti pedagogici.
I dati empirici, d’altronde, confermano l’analisi qui proposta. Uno tra tanti: l’80 per cento degli allievi stranieri si iscrive, dopo la scuola media, agli istituti tecnici e professionali unicamente perché tali allievi, come quelli italiani, provengono da famiglie di lavoratori, spesso lavoratori in nero e duramente sfruttati. Non è quindi la “cultura”, la religione, il colore della pelle, la nazionalità o quant’altro a impedire loro l’iscrizione al liceo classico, bensì, molto più materialisticamente, la loro appartenenza di classe. Lo stesso vale per gli esiti scolastici degli allievi stranieri se comparati con quelli degli allievi italiani. Anche qui registriamo tassi elevatissimi di bocciature e abbandoni, specialmente nel biennio della secondaria superiore20.
Questi discorsi venivano fatti e documentati cinquant’anni fa per i figli dei nostri emigrati meridionali a Torino o Milano, ma oggi si preferisce ipocritamente evitare tali argomentazioni, forse per timore, da parte delle classi dominanti, che possa determinarsi una nuova coscienza di classe nei ceti popolari autoctoni e immigrati.
Avere chiara consapevolezza di ciò21 non vuol dire, naturalmente, chiudersi nel proprio “particulare” educativo accettando fatalisticamente l’esistente. Pur tra mille contraddizioni che, ripetiamo, sono fuori della scuola, i docenti sperimentano percorsi didattici finalizzati all’inclusione, all’acquisto di specifici apprendimenti, al progresso civile. Si ripropone anche oggi la necessità di un nuovo principio educativo su cui innestare i diversi saperi. Nella consapevolezza che metodi e contenuti sono strettamente collegati:
Per questo separare i metodi dai contenuti significa, secondo noi, ridurre i metodi a formalismi e quindi a nuovi conformismi. Per questo ci sembra che il maestro, se sceglie un metodo, una pratica educativa, un costume scolastico, è obbligato dalla logica, a scegliere anche un determinato contenuto. Che senso avrebbe esercitarsi nel lavoro a gruppi o nella forma democratica della discussione se non si andasse a fondo degli ideali democratici che la società è impegnata a raggiungere? Ricordiamoci che anche i gesuiti, nel loro metodo educativo, contemplavano le discussioni: ma si trattava di discussioni oratorie, su argomenti sempre molto lontani dal reale interesse sociale e politico del momento, tali cioè da non sollecitare nessuna scelta sostanziale e morale22.
Queste riflessioni della Bertoni Jovine richiamano quelle di un altro grande educatore del Novecento, il brasiliano Paulo Freire. In un dialogo con un collega nord-americano, Donaldo Macedo, il quale critica l’enfasi democraticista sul dialogo come mera tecnica educativa, che in realtà non modifica gli orizzonti politico-educativi del sistema capitalistico, proponendo una figura di docente come “facilitatore” apparentemente neutrale, Freire svolge una riflessione di grande rilievo sui temi del rapporto tra autorità e autoritarismo e sulla necessità, per i docenti, di determinare le condizioni del l’insegnamento/apprendimento partendo sempre da un oggetto di conoscenza. Sono temi che richiamano da vicino il pensiero di Franco Fortini23. Ma leggiamo cosa scrive Paulo Freire.
Io mi considero prima di tutto e sempre un insegnante. Non ho mai fatto finta di essere un facilitatore. E ciò che voglio chiarire è che, nell’essere un insegnante, insegno sempre per facilitare. […] Quando si toglie enfasi al potere dell’insegnante affermando che è un facilitatore, si è tutt’altro che sinceri, in quanto l’insegnate che si trasforma in facilitatore mantiene comunque il potere prodotto istituzionalmente dalla sua posizione. […] Il facilitatore dà ancora voti, ha ancora un certo controllo sul curriculum, e negare tutto questo significa essere in malafede. Penso che ciò che produce questo bisogno di essere un facilitatore sia la confusione tra autoritarismo e autorità. Ciò che non si può fare nel tentativo di spogliarsi dell’autoritarismo è liberarsi anche della propria autorità di insegnanti. Gli insegnanti mantengono un certo grado di autorità attraverso la profondità e l’ampiezza della conoscenza della materia che insegnano. […] In realtà, l’insegnante che diventa facilitatore rifiuta il compito straordinario di porre un oggetto come mediatore fra sé e gli studenti. […] Sono convinto che, quando parliamo di dialogo ed educazione, stiamo parlando soprattutto di pratiche che ci permettono di avvicinarci a un oggetto di conoscenza. Per iniziare a comprendere il significato di una pratica dialogica, dobbiamo mettere da parte un’idea semplicistica di dialogo come mera tecnica.[…] [Esiste una] differenza tra il dialogo come processo di apprendimento e conoscenza e il dialogo come conversazione che si focalizza meccanicamente sull’esperienza vissuta dell’individuo, e che rimane completamente all’interno della sfera psicologica24.
Anche la didattica interculturale, di conseguenza, non può prescindere dai contenuti di una prospettiva internazionale e internazionalista nell’educazione, dai contenuti di uno studio delle diverse discipline che tenga conto dei paesi e dei popoli ex coloniali e delle periferie del capitale globale, oltreché dei poveri, degli esclusi, dei proletari, degli immigrati, delle donne, dei lavoratori del sud e del nord del mondo. Insomma, la didattica interculturale non può prescindere dai contenuti di classe, di genere, di nazionalità. Per queste ragioni essa è dentro una prospettiva marxista sull’educazione.
Discutendo con i sostenitori dell’attivismo, così scrive Bertoni Jovine:
Una battaglia per la trasformazione del metodo e del costume scolastico è attuale anche oggi, anzi, direi, più che mai attuale per il ritorno a posizioni politico-sociali di schietto conformismo. Tuttavia risalendo alla storia stessa di questa battaglia pedagogica, noi troviamo che essa è legata all’affermazione di certi contenuti, alla nascita cioè di una cultura nuova e di nuovi rapporti umani: i metodi basati sull’intuizione (esperienza individuale), sulla osservazione (indagine personale), sull’esperimento (necessità di verifica), nascono per le esigenze di una esatta conoscenza del mondo della natura, di una scienza nuova, cioè, che ripudia, in certo senso, le definizioni trasmesse da una tradizione basata sull’autorità dei testi. L’attivismo comincia quando alla retorica e alla eloquenza sottentra la scienza della natura; e all’autoritarismo della praelectio, si sostituisce il razionalismo della verità chiara e distinta; quando il senso dell’eguaglianza tra gli uomini comincia a frantumare la compatta crosta dei privilegi. Qui è da porsi la domanda: sono i metodi attivi che nascono da contenuti nuovi o viceversa? E forse è da rispondere che contenuti e metodi nascono insieme25.
A questo, aggiunge la Bertoni Jovine, è necessario aggiungere l’importanza che deve assumere il punto di vista dell’educatore, la necessità, per lui, di avere una prospettiva da proporre agli allievi, di offrire un punto di vista sul mondo, una filosofia:
un vero costume di discussione, il riconoscimento al fanciullo del diritto di non accettare le opinioni del maestro e, se ne è capace, di controbatterle, si realizza soltanto quando il maestro ha le sue convinzioni, quando partecipa, impegnandosi, nella lotta ideale del suo tempo ed ha una linea di pensiero, direi una moralità, chiara per il fanciullo. Se il maestro si sottrae a questo dovere umano, tutto l’insegnamento sarà diretto da influenze incontrollate, nelle quali avrà il sopravvento proprio il conformismo. La democrazia non può impostare la sua battaglia sulla difesa di una libertà astratta, sulla formazione di un costume formalmente corretto, ma opponendo contenuti nuovi, democratici, a contenuti vecchi, antidemocratici; lottando contro gli autoritarismi (basati sempre su privilegi tradizionali) con la soppressione dei privilegi, interpretando gli ideali di giustizia, di chiarezza, di razionalità che scaturiscono dalle forze nuove della società; e che non sempre i fanciulli possono scoprire nel loro ambiente. […] I marxisti […] pensano che se il metodo non è indifferente a maggior ragione non è indifferente il contenuto. […] E per contenuto intendono non soltanto il corpo di dottrine definiti dai programmi, ma quell’insieme di aspirazioni, quelle prospettive culturali e sociali che danno significato alla vita umana, e che rappresentano la molla della vera attività; dell’attività cioè che esalta tutto l’uomo26.
In un serrato confronto con John Dewey, l’autrice individua infine quelli che, secondo il marxismo pedagogico, sono i limiti della prospettiva educativa del grande pedagogista americano:
Al rinnovamento della società, alla distruzione dei pregiudizi sociali, delle discriminazioni che avrebbero postulato una rivoluzione, un mutamento di rapporti sociali, il pedagogista [Dewey, n.d.r.] preferisce l’azione educativa affidata alla scuola. Capovolgendo il rapporto di interazione società-individuo, affidando l’iniziativa alla scuola, si sarebbe potuto sottrarre il fanciullo alla pressione dell’ambiente liberandolo in virtù del senso critico e dell’indipendenza mentale acquisita. “È necessario – scrisse – preparare la prossima generazione ad una società nuova, più giusta e più umana che certo sorgerà e che senza cuori e menti preparati dall’educazione sorgerà probabilmente con tutti i mali che risultano da mutamenti sociali attuati con la violenza.”. Fermandoci su questa espressione ed esaminandola con criteri marxisti dobbiamo constatare, per prima cosa, che il pedagogista americano non pone in primo piano l’esigenza pedagogica di preparare una generazione capace di rivoluzionare, essa, la società distruggendo non soltanto pregiudizi ed idola ma trasformando anche le istituzioni da cui essi derivano; e si limita alla cura di una generazione che si dimostri capace di collocarsi e di fruire di una società rinnovata, lasciando alla indeterminatezza il come e il quando e per opera di chi o di quali forze questo natale di giustizia si compirà nel mondo. La sola cosa chiara è che il compito di creare un ideale e un costume di democrazia è affidato alla scuola il cui contenuto ideologico sarà dunque un certo tipo di democrazia; una democrazia che procederà senza violenza modificando i costumi, che non intaccherà i rapporti economici, non sovvertirà l’ordine costituito, si concreterà nella formula libertà, attività, socialità, e si realizzerà (entro questi limiti) col metodo della ricerca, del colloquio, del dubbio e della critica. Quando si afferma che l’insegnamento non deve essere ispirato a ideologie precostituite all’atto educativo si dimenticano queste impostazioni di fondo, si dimentica che anche la scuola che si autodefinisce la più democratica e quindi la più svincolata da contenuti ideologici predeterminati non può sottrarsi alla necessità di informarsi ad un suo ideale. Noi teniamo ad affermare francamente che ogni tipo di educazione è sorretto da una prospettiva diretta in un senso o nell’altro. […] In quanto ai marxisti giudicano un grande passo in avanti l’ideologia democratica che si realizza nell’opera educativa secondo la formula libertà, attività, socialità; ma trovano che essa è insufficiente poiché non elabora una prospettiva in cui queste formule trovino concretezza stabilendo un più stimolante rapporto tra scuola e società. Questo è il punto fondamentale che divide i marxisti dai democratici non marxisti in campo educativo; ed è un punto dal quale nascono molte divergenze quando scendiamo a considerare come filiazione dei contenuti ideali, quei contenuti che Dewey chiama “informazioni” e che noi siamo abituati a definire nozioni. Qui la divergenza di prospettiva sociale si complica con una diversa interpretazione che marxisti e democratici non marxisti danno alla dialettica della storia. I democratici nel rapporto individuo-società sono preoccupati, soprattutto, di salvaguardare la libera iniziativa dell’individuo, facendo derivare da essa ogni moto di progresso; i marxisti vedono questo moto dialettico praticamente influenzato dal formarsi di classi e gruppi, per cui non è indifferente appartenere socialmente all’uno o all’altro gruppo ai fini della stessa libertà di iniziativa personale. Se la scuola non tiene conto che lo sviluppo della personalità di un fanciullo incontra, nella società, per l’appartenenza ad una classe o all’altra, difficoltà assai diverse, la sua opera perde il suo valore correttivo della società stessa27.
Abbiamo voluto ampiamente documentare il nesso dialettico metodi/contenuti, didattica/prospettiva, perché ci sembra di grande attualità ancora oggi per affrontare le tematiche relative alla didattica interculturale. Resta ancora centrale, in una prospettiva marxista sull’educazione, la questione dei contenuti, dei valori, dei principi morali sui cui innervare l’insegnamento e il relativi saperi. Essa non può presentarsi in maniera ecumenica, generica, “neutrale”, ma costringe ogni educatore a prendere parte, ad assumere un punto di vista.
Nel 1960 Lamberto Borghi, ci ricorda Bertoni Jovine, includerà l’antirazzismo e l’anticolonialismo tra i contenuti centrali dell’educazione. Una suggestione accolta dalla studiosa marxista che aggiunse:
Accettiamo di fare una scuola antirazzista e anticolonialista, ma non basta: dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo andare a ricercare le origini del razzismo e del colonialismo, che non sono nati come funghi per caso, ma sono espressione di interessi nati sulla base di una società capitalista28.
E parlando della scuola di quegli anni (prima metà dei Sessanta), così afferma la Bertoni Jovine:
Non si può opporre ad una scuola confessionale un laicismo generico o un qualunquismo culturale: la società di oggi, a saperla analizzare, esprime ideali abbastanza stimolanti per la vita dei nostri giovani. Lamberto Borghi ne ha identificato uno: l’internazionalismo che di per sé già costituisce una ragione sufficiente per dare vita al nostro insegnamento: un internazionalismo che supera europeismo e atlantismo; che si collega quindi necessariamente con l’anticolonialismo e con l’antirazzismo e con la battaglia contro ogni discriminazione di carattere religioso. Aggiungeremo, per conto nostro, che vediamo questo internazionalismo collegato anche con una battaglia per una maggiore giustizia sociale all’interno di ogni paese29.
Purtroppo l’ipocrita ideologia liberal, il pensiero soft di questi nostri anni, il mito del politically correct hanno sottratto a tanti giovani il gusto della critica serrata, dell’approfondimento non generico, della demistificazione della società capitalistica. Il tutto in nome della naturalità dell’ordine esistente e dei suoi valori, visti come immutabili e immodificabili.
Anche l’internazionalismo, come nuovo principio educativo, implica una gerarchia di contenuti, una scelta tra diversi principi morali. Così, oggi, nelle scuole andrebbero studiati, con il concorso di tutte le discipline, i fondamenti economici del capitale globale, il ruolo dei grandi organismi finanziari (Fmi, Banca Mondiale, Bce, le tesorerie delle maggiori multinazionali, le “cinque Sim, Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P. Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa, e cinque banche, Deutsche Bank, Ubs, Credit-Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas, le quali controllano oltre il 90% del totale dei titoli derivati”30), la questione del nucleare e della smisurata spesa militare, le politiche aggressive della Nato e dei governi europei e statunitense nei confronti di determinati paesi (ex Jugoslavia, Somalia, Iraq, Afganistan, Libia, Palestina, Cuba, Iran, Venezuela, Siria…), che richiamano le vicende quanto mai attuali del neocolonialismo e dell’imperialismo otto-novecentesco, la distruzione ambientale (e umana) operata dai processi distruttivi di accumulazione del capitale per accaparrarsi ovunque risorse a basso costo, l’aspirazione ad una maggiore giustizia sociale da parte dei lavoratori di tante parti del mondo come risposta alle gigantesche sperequazioni sociali presenti oggi non solo nei paesi del Sud del mondo ma anche, e sempre più, nei paesi maggiormente industrializzati, le ormai storiche lotte delle donne per l’affermazione della propria soggettività. Ognuno di questi temi, per evitare che si trasformi in discorso propagandistico, necessita delle necessarie mediazioni didattiche e culturali, di un’adeguata formazione interculturale del corpo docente, oggi sempre più logorato, invece, da una continua proliferazione autoritaria e burocratica di regolamenti, norme, programmi e da una condizione socio-economica sempre più marginale. Ancora una volta, dunque, per i marxisti il lavoro culturale si trasforma in lavoro politico e l’impegno nella trasformazione democratica della scuola diviene impegno politico per la trasformazione della società. L’intercultura così, in questa prospettiva, cessa di essere il regno di un relativismo eurocentrico e diviene figura di un processo di conquista dell’uguaglianza come valore supremo.
Quanti oggi, – ha scritto la sinologa Edoarda Masi – con le migliori intenzioni, vanno cercando il “rapporto col diverso”, “l’interculturalità”, e così via, non immaginano come nella universale koiné del socialismo l’uguaglianza fosse non un fine da raggiungere né un’opzione morale, ma un presupposto così intimamente vissuto da risultare scontato, in nessun modo incrinato dalla specificità delle vicende e delle culture dei diversi popoli31.
* Coordinatore del Cesme (Centro studi sul marxismo e l’educazione, www.cesme.it)
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1 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5 (K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. XXX, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 299).
2 K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. XLVIII, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 492-494.
3 Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 105.
4 Ivi, p. 176.
5 Mario Alighiero Manacorda, Momenti di storia della pedagogia, Loescher, Torino 1977, p. 261.
6 Mario Alighiero Manacorda, Marx e l’educazione, Armando, Roma 2008, p. 13.
7 Vladimiro Giacché, Karl Marx e le crisi del XXI secolo, in Karl Marx, Il capitalismo e la crisi, scritti scelti a cura di V. Giacché, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 32.
8 Ivi, p. 7.
9 Ivi, p. 17.
10 Questa affermazione di Marx fu posta da Franco Fortini come didascalia di una foto inedita del 1955 che ritraeva una bottega stracolma di merci ad Hong Kong con un bambino dormiente in primo piano.
11 Bruno Gravagnuolo, Marx superstar del 2009, in “l’Unità”, 7 gennaio 2009.
12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1331.
13 Karl Marx, Il Capitale. Libro primo, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974, pag. 67.
14 Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-58, trad. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1971, pp. 399-400, in Daniel Bensaid, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, ombre corte, Verona 2009 (ed. or. Les dépossédés. Karl Marx, les voleurs de bois e le droit des pauvres, 2007. È curioso che nella traduzione italiana del titolo venga omesso il nome di Karl Marx: è ancora la provinciale rimozione a nominare il Moro per non apparire “vecchi”?). Le riflessioni di Daniel Bensaid partono da una rilettura degli articoli di Marx sulla “Rheinische Zeitung” (1842) sui Dibattiti sulla legge contro i furti di legna.
15 Bensaid, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, cit., pp. 64-65.
16 David Harvey, Spaces of global Capitalism, Verso, London 2006, p. 45.
17 Bensaid, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, cit., pp. 72-73.
18 Ivi, pp. 78-80.
19 Milton Friedman, “Le Monde”, 20 luglio 1999, in Bensaid, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, cit., p. 81.
20 Per una visione analitica e complessiva, rinviamo ad una sintesi dei dati più significativi relativi agli allievi stranieri nella scuola sintetizzati ed elaborati da Massimiliano Fiorucci nel volume a sua cura Una scuola per tutti. Idee e proposte per una didattica interculturale delle discipline, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 33-35. I dati periodicamente aggiornati sulla presenza degli allievi con cittadinanza non italiana nella scuola sono anche reperibili nel sito del MIUR (Ministero Istruzione Università Ricerca).
21 “La conquista di una consapevolezza teorica, di una prospettiva ideale non utopica, di un saldo inquadramento, politico è imprescindibile per superare i rischi dell’empirismo, del “far politica” secondo le spinte del momento.” (Mario Alighiero Manacorda, Momenti di storia della pedagogia, Loescher, Torino 1977, p. 259).
22 Dina Bertoni Jovine, Storia della didattica, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 466.
23 Nel ’69, cioè nel pieno della contestazione studentesca, quando Fortini insegnava negli istituti tecnici, prendendo spunto da un’appassionata lettera di una studentessa che lamenta incomprensioni affettive da parte del docente, Fortini esplicita con grande chiarezza la sua concezione pedagogica che mette al centro di ogni relazione educativa non astratte anime che si compenetrano ma oggetti di studio, di lavoro, di manipolazione, “cose” da fare insieme, solo dalle quali è possibile ricavare qualcosa. Il tutto con una lucida consapevolezza della distinzione di funzioni tra docente e allievo. Cfr. Donatello Santarone, La dimensione educativa in Franco Fortini, in “L’ospite ingrato. Società, conoscenza, educazione”, anno VIII, 2005/1, Quodlibet, Macerata 2005.
24 Paulo Freire, Donaldo Macedo, Cultura, lingua, razza. Un dialogo, Forum – Editrice Universitaria Udinese, Udine 2008, pp. 8-9, 13, 19.
25 Ivi, pp. 465-466.
26 Ivi, pp. 467-468, 471.
27 Ivi, pp. 489-490.
28 Ivi, p. 500.
29 Ivi, pp. 415-416.
30 Andrea Fumagalli, Il diritto alla bancarotta come contropotere finanziario, in “il manifesto”, 1° settembre 2011. E sempre per quanto concerne il potere della finanza, l’autore aggiunge: “Se il Pil del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. […] La speculazione finanziaria è un meccanismo che nulla ha di parassitario, anzi. […] La pervasività dei mercati finanziari sulla vita economica e sociale degli abitanti della terra è tale che l’accesso a porzioni (sempre più decrescenti) di ricchezza sia condizionato direttamente e indirettamente dagli effetti distributivi e distorsivi che gli stessi mercati finanziari generano. […] Ogni euro di plusvalenza generata virtualmente nell’attività speculativa ha effetti reali sull’economia per circa un 30% (secondo i dati della Bri)”. Su questi temi cfr. anche Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011.
31 Edoarda Masi, Postfazione, in Franco Fortini, Asia Maggiore. Viaggio nella Cina e altri scritti, a cura di Donatello Santarone, manifestolibri, Roma 2007, p. 265.