Domenico Moro
Gli Usa rappresentano non solo l’economia più grande ma anche il paese leader a livello mondiale. La loro leadership si fonda, oltre che sul potere militare, soprattutto sul dollaro, la valuta di riserva e transazione internazionale, che gli permette di sostenere un enorme deficit commerciale, oltre che un ampio debito pubblico. In questo ruolo di leadership rientra, quindi, un altro ruolo fondamentale nel sistema di relazioni internazionali, quello di “compratore di ultima istanza”.
Questo significa che le importazioni statunitensi sono un fattore trainante della crescita del commercio globale e quindi del Pil globale. Molti Paesi, tra questi la Germania e l’Italia, si reggono anche sulle importazioni statunitensi. Uno degli aspetti di Trump più importanti e in discontinuità con le amministrazioni precedenti è l’apparente messa in discussione di questo ruolo attraverso l’imposizione di alti dazi sulle importazioni.
In campagna elettorale Trump aveva promesso dazi del 60% sulle importazioni statunitensi dalla Cina e del 10-20% su quelle dagli altri paesi. Le motivazioni addotte erano principalmente due. In primo luogo, la riduzione dell’enorme deficit commerciale statunitense che nel 2023 aveva raggiunto il dato impressionante di 1.151 miliardi di dollari. In secondo luogo, Trump, tramite i dazi, ha dichiarato di voler ricostruire la capacità manifatturiera degli Usa che si è contratta negli ultimi decenni a causa della delocalizzazione all’estero di molta produzione statunitense, che ha ridotto la fucina industriale del Paese a quella che viene definita la rust belt, la cintura della ruggine.
Dal momento dell’insediamento Trump si è messo in moto per applicare quanto aveva promesso in campagna elettorale. Ad oggi, l’amministrazione statunitense ha elevato dazi del 10% aggiuntivo sulle importazioni dalla Cina, e dazi del 25%, per tutti i paesi, su acciaio e alluminio. Ma soprattutto Trump si sta adoperando per introdurre dazi “reciproci”, cioè tariffe commisurate a quelle che vengono imposte dai rispettivi partner commerciali. Quindi, al posto di dazi generalizzati al 10%-20%, verrebbero applicate tariffe modulate in base al paese e al prodotto importato.
I dazi colpiranno anche la Ue che, secondo quanto ha affermato Trump, “ci tratta male sul commercio”. I dazi statunitensi sarebbero la classica pioggia che cade sul bagnato per la Ue, visto che si dibatte in una stagnazione causata proprio dal calo della produzione manifatturiera. La Ue e soprattutto l’area euro negli ultimi due decenni si era modellata sul modello mercantilistico della Germania, basato sulle esportazioni.
Oggi, però, la competitività sui mercati internazionali della Germania e quindi della Ue è in crisi, essendoci una tendenza al calo delle esportazioni e alla riduzione della quota del mercato mondiale detenuta dai paesi europei. Questo calo è dovuto a due fattori. In primo luogo, la guerra in Ucraina che ha determinato, con le sanzioni, la fine dei rifornimenti di gas russo a basso prezzo, su cui la Germania e l’Italia avevano costruito il boom delle loro esportazioni. I prezzi del gas oggi sono a 58 euro contro la media di 15-18 euro di quando l’Europa si riforniva dalla Russia. In questo modo, le imprese europee pagano l’energia cinque volte più cara di quelle statunitensi. In secondo luogo, l’Europa è messa in difficoltà dalla concorrenza cinese, che si è estesa dalle produzioni a bassa tecnologia anche a quelle a medio-alta e alta tecnologia.
Quindi, i dazi colpirebbero la Ue già indebolita da altri fattori. Rimane, però, da vedere se il ruolo di “compratore di ultima istanza” degli Usa verrà effettivamente meno e se lo scopo dei dazi è solo o eminentemente economico. Bisogna tenere conto, per dare una risposta, che l’economia mondiale è fortemente integrata, dal momento che le varie parti dei beni manifatturieri vengono prodotte in paesi diversi prima di venire assemblate. Ad esempio, le auto Usa vengono assemblate con componenti prodotti in Messico e Canada. I dazi, soprattutto quelli del 25% annunciati, e poi sospesi, contro il Messico e il Canada finirebbero per danneggiare l’industria statunitense. Oltre a questo, i paesi colpiti dai dazi, per rappresaglia, possono imporre dazi sui beni provenienti dagli Usa. Per queste ragioni, molti istituti di ricerca sono concordi sul fatto che a essere colpito dai dazi, così come proposti in campagna elettorale, sarebbe anche il Pil degli Usa, oltre che quello di Cina e Ue.
Inoltre, dazi elevati avrebbero un impatto sull’inflazione statunitense e sul potere d’acquisto dei lavoratori, cioè proprio uno dei temi su cui Trump ha vinto le elezioni. Tuttavia, come abbiamo detto, gli Usa hanno il dollaro che, essendo la valuta di riserva e di transazione internazionale, tende ad apprezzarsi rispetto alle altre valute, specie in periodi di incertezza, quali quelli rappresentati dalla presidenza Trump. Dunque, il dollaro forte che si apprezza nei confronti delle altre valute, compreso l’euro, può contenere l’effetto dei dazi sui prezzi delle importazioni.
Dunque, è tutt’altro che certo che i dazi permetterebbero di raggiungere gli obiettivi dichiarati da Trump, cioè la riduzione del deficit commerciale e la reindustrializzazione degli Usa. La riduzione del deficit commerciale è difficile perché ostacolata proprio dalla forza del dollaro, che stimola la domanda per i beni provenienti dall’estero. Mentre la reindustrializzazione, che dovrebbe essere favorita dalla sostituzione delle importazioni con produzioni interne, oltre a richiedere tempi lunghi, risulta in realtà difficile a causa degli ingenti investimenti richiesti che sono scoraggiati dal tasso di risparmio statunitense estremamente ridotto[i].
Per tutte queste ragioni è, quindi, improbabile che Trump imponga alti dazi, soprattutto dazi su tutti i paesi e su tutti i prodotti del 10-20% e del 60% sulla Cina. È molto più probabile che gli Usa, come del resto stanno già facendo, impongano dazi differenziati su determinati paesi e prodotti. Allora perché l’amministrazione Trump fa tanto parlare di dazi? Per rispondere bisogna rifarsi al quadro generale che vede l’imperialismo e il ruolo centrale degli Usa in forte difficoltà dinanzi alla crescita del ruolo internazionale della Cina e alle contestazioni del Sud globale al suo dominio, specialmente al dominio del sistema valutario e finanziario internazionale attraverso il dollaro.
I dazi non rappresentano un’arma puramente economica. Per lo meno non nel senso di reindustrializzare gli Usa e di ridurre il deficit commerciale, su cui hanno un effetto limitato. I dazi rappresentano un’arma economica soprattutto nel senso che sono utilizzati per mantenere la centralità statunitense nel sistema di relazioni finanziarie e valutarie mondiali. I dazi, quindi, sono anche un’arma geopolitica, per contrastare la decadenza del ruolo più generale di leadership degli Usa. Non a caso Trump ha minacciato dazi del 100% verso questi paesi che dovessero smettere di utilizzare il dollaro come valuta di transazione internazionale. Ciò rappresenta un chiaro monito ai Brics+ che utilizzano o sono in procinto di utilizzare altre valute nelle loro transazioni internazionali.
In quest’ottica, acquista un senso l’idea di imporre dazi “reciproci” e differenziati, che si basano su una negoziazione con i singoli partner commerciali. I dazi rappresentano, quindi, un’arma di pressione sui singoli paesi e sulle aree economiche come la Ue, che, ad esempio, con la minaccia di dazi può essere costretta ad acquistare dagli Usa più gas liquefatto a prezzi molto più alti del gas proveniente da altre fonti. In questo caso, il ruolo degli Usa di “compratore di ultima istanza”, che sostiene la domanda mondiale con le sue importazioni, non viene negato bensì viene usato come arma di ricatto verso il resto del mondo.
Infine, va rilevato che i dazi si inseriscono, come un tassello importante, nel quadro più generale della politica estera dell’amministrazione Trump, che è in forte discontinuità con quella di Biden e di tutto un settore dell’establishment statunitense ed è basata principalmente sullo spostamento del baricentro politico dall’asse atlantico a quello dell’indo-pacifico, come dimostra anche il differente approccio alla Russia e alla guerra in Ucraina. Una discontinuità, che, è bene precisarlo, riguarda la messa in discussione non del ruolo imperiale statunitense ma del modo in cui questo viene esplicitato, allo scopo di rilanciarlo e contrastare la crisi di egemonia in cui versano gli Usa.
[i] Su questo aspetti vedi: Vladimiro Giacché e Michele Tonoletti, L’export italiano e la minaccia dei dazi Usa, Fucino flash, dicembre 2024. https://bancafucino.it/sites/default/files/2024-12/241204_Fucino-Flash_LExport-Italiano.pdf