Lelio La Porta
Isaiah Berlin scrisse una biografia di Karl Marx, la cui quinta edizione viene oggi pubblicata in Italia (I. Berlin, Karl Marx, a cura di H. Hardy, Adelphi, Milano, 2021, pp. 309, € 28,00). Vale la pena di rammentare che non è del tutto esatto scrivere (si veda Robinson del 21 agosto) che il lavoro «appare soltanto adesso in italiano» in quanto la prima traduzione, di Paolo Battino Vittorelli, nella nostra lingua risale al 1967, per La Nuova Italia (che ripubblicò il testo nel 1994 con una revisione della traduzione condotta sulla base della quarta edizione del 1978), ed è la stessa riproposta oggi, con l’aggiunta, come sottolinea il curatore Hardy, di «note autoriali», che risalgono alla revisione del testo operata da Berlin nel 1978, e «note redazionali» in cui sono inseriti anche i rimandi alle opere di Marx in italiano alle quali l’autore fa riferimento.
Nel corso della sua lunghissima attività, lo studioso anglo-lettone, scomparso nel 1997, ha pubblicato in volume una quantità sterminata di saggi ma ha scritto soltanto questa monografia (il libro su Hamann del 1993, intitolato Il mago del Nord, può essere soltanto parzialmente catalogato come monografia in quanto frutto di scritti sul filosofo prussiano, concittadino di Kant, elaborati in momenti diversi e poi riuniti in volume). La biografia marxiana fu, di fatto, commissionata; infatti nel 1933 lo storico H.A.L. Fisher gli chiese di scrivere il libro nel quadro di una collana di divulgazione per la Home University Library. A quella data, Berlin conosceva solo in parte l'opera di Marx ed aveva avuto modo, in quanto inserito in un programma d'esame, di leggere solo Il Capitale, in aggiunta ai testi di Smith e di Ricardo, ma per lui era importante sapere perché i marxisti andavano crescendo di numero in ogni parte del mondo. Se non avesse deciso di scrivere su di lui, mai, probabilmente, Berlin avrebbe letto Marx, in specie quelle parti delle sue opere definite illeggibili. Aiutandosi con la lingua tedesca, l'inglese e, anche, la lingua russa, iniziò il lavoro che fu portato a termine nel 1937 e pubblicato due anni dopo.
La lettura di Marx spinse Berlin ad allargare ulteriormente il suo sguardo puntandolo su quelli che, secondo lui, ne erano stati i precursori: gli Enciclopedisti, Helvétius, d'Holbach, Diderot, lo stesso Rousseau. Poi i socialisti utopisti (Saint-Simon, Fourier, Owen), ed ancora Rodbertus, Louis Blanc, Moses Hess; ed infine la scoperta di colui che, nell'universo del marxismo, viene considerato da Berlin uno scrittore brillante, pieno di spirito e di facile lettura: Plekhanov. Il vero padre del marxismo russo, secondo Berlin, fu Plekhanov nei confronti del quale, prima di entrare in insanabile dissidio, lo stesso Lenin dovette riconoscere un grande debito.
L'approfondimento dell'ambiente russo portò Berlin alla scoperta di quello che sarebbe diventato il suo autore par excellance: Alexander Herzen, scrittore meraviglioso, come lo definisce, pensatore politico onesto ed originale, il vero ponte fra la filosofia in quanto tale e la storia delle idee.
E Karl Marx? Chi era? per Isaiah Berlin è stato «un precursore della austera generazione dei rivoluzionari di professione (…); tra i grandi fondatori autoritari di nuove religioni, tra gli spietati sovvertitori e innovatori di un mondo che interpretano in funzione di un unico, chiaro principio, appassionatamente difeso, smascherando e distruggendo tutto ciò che contrasta con esso». Non può non venire alla mente, per analogia, quanto Berlin scriverà in uno dei suoi testi più famosi (Il riccio e la volpe del 1951), usando parole pressoché identiche, quando, dividendo scrittori, pensatori e gli uomini stessi in due grandi categorie, i ricci e le volpi, sosterrà che alla prima di esse appartengono quanti «riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire - un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono», mentre alla seconda appartengono coloro che «perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto, per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificati da un principio morale o estetico». Eppure, elencando i ricci, fra i quali Dante, Platone, Hegel, Dostoevskij, Berlin non inserisce proprio Marx. Semplice dimenticanza oppure tentativo di rimozione di un protagonista comunque scomodo, vista l'attualità e la diffusione del pensiero marxiano negli anni Cinquanta, quantomeno in rapporto ad un'analisi, quale quella proposta da Berlin nella sua monografia, che per essere divulgativa corre spesso il rischio di sconfinare nel didascalico dimenticando l'acribia filologica che, oggettivamente, è utilizzata in maniera molto ridotta?
Ma la mente del lettore disincantato, ma di certo incantato dalla prosa affascinante dell’autore, si risveglia quando legge le parole fatidiche pronunciate dallo storico delle idee nel corso di un’intervista del 1992 che aveva come riferimento una conferenza del 1958 sulla libertà nella quale viene indicato a chiare lettere il motivo conduttore della ricerca, già a partire dal 1933: l’«indignazione per tutti gli inganni dei marxisti, per tutte quelle chiacchiere sulla “vera libertà”, per il gergo stalinista e comunista della “libertà autentica” (…) È il nemico che mi interessa». Il nemico è Marx e, per quanto ne volesse fare degli “indipendenti seguaci”, quindi non proprio da demonizzare, anche Gramsci e Lukács seguono lo stesso destino in quanto «sapendo in quale direzione si muove l’evoluzione del mondo, si può identificarsi o non identificarsi con essa»; insomma, pura e semplice filosofia della storia che nulla avrebbe da invidiare a quella agostiniana che sfocia nella “città di Dio”. Infatti, mentre si interroga su “che cosa avrebbe pensato” Marx se avesse vista realizzata la rivoluzione da lui teorizzata in un paese arretrato, sostiene che Gramsci “credeva” che questo fosse avvenuto in Russia soltanto in virtù di un atto della volontà. A Berlin risponde proprio il “volontarista” Gramsci in termini marxiani (altro che indipendente seguace!) sintetizzando e riconducendo ad unità l’XI delle Tesi su Feuerbach e la Prefazione del ’59 a Per la critica dell’economia politica: «Occorre (…) violentemente attirare l’attenzione sul presente così come è, se si vuole trasformarlo».
Nella parte finale del suo lavoro, quasi come in una sorta di bilancio consuntivo, Berlin nota che la figura di Marx, al contrario degli scrittori suoi contemporanei passionali e romantici, molto più ricchi intellettualmente di lui, disposti ad esami di coscienza che ne mettevano in evidenza una sensibilità che il pensatore di Treviri non possedeva, non aveva mai attirato «l’immaginazione del pubblico e degli autori di biografie»: allora perché Berlin dedicò a lui una monografia, mentre a loro concesse attenzione soltanto in saggi e scritti vari? Soltanto perché l'opera su Marx gli era stata commissionata? «De omnibus dubitandum» («Si deve dubitare di tutto»), avrebbe risposto il Moro con il motto preferito; un motto da vera volpe, avrebbe chiosato Berlin.