Sabato Danzilli
La pubblicazione della nuova edizione inglese di Die Zerstorung der Vernunft (Georg Lukács, The Destruction of the Reason, London, Verso, 2021) merita grande attenzione, perché rende nuovamente disponibile sul mercato anglosassone un testo che, come dimostra la sua traduzione tardiva (la versione di Palmer per Merlin Press, qui ripresa, è soltanto del 1980), non ha mai riscontrato grandi favori, e perché è introdotta da un lungo e interessante saggio di Enzo Traverso. Il suo contributo fornisce molte tracce per una discussione, che si cercherà qui di impostare.
Da storico di grande valore, Traverso si propone nel suo intervento, non a caso intitolato “Dialectic of Irrationalism: Historicizing Lukács The Destruction of the Reason”, di contestualizzare l’opera. Nell’apertura del suo scritto egli afferma in modo perentorio che «è arrivato il tempo di riscoprire La distruzione della ragione, senza dubbio uno dei libri più controversi di György Lukács». L’opera «merita di essere rivalutata oltre la sua aura oscura e demoniaca, e di essere collocata nel posto adeguato nella storia del pensiero critico del XX secolo». Il giudizio di valore è confermato in chiusura di intervento, dove si afferma che il libro va «incluso tra i più grandi risultati intellettuali del secolo scorso». Queste affermazioni sono da esaminare con accuratezza, perché nel suo contributo l’autore non lesina osservazioni critiche, anche taglienti, all’opera lukacsiana.
Egli colloca il volume nella terza fase della produzione intellettuale di Lukács, quella stalinista, che va nella sua datazione dagli anni ’30 al 1956, mentre la prima è quella pre-marxista, dalle prime produzioni intellettuali alla Teoria del romanzo, e la seconda quella “estremista” di Storia e coscienza di classe e degli anni ’20. Una quarta fase è poi quella post-1956, in cui Lukács pubblica capolavori come l’Ontologia dell’essere sociale e si dedica ai problemi della «democrazia della vita quotidiana». Il volume stesso è definito uno «specchio dello stalinismo». Tale affermazione, sia chiaro, si riferisce alla congerie culturale in cui esso è stato concepito e pubblicato, ricordando – ma del resto lo fa lo stesso Lukács nella sua prefazione – come il testo si distanzi dai dettami dello zdanovismo e della tradizione del marxismo-leninismo, che riduceva la storia della filosofia a uno scontro tra materialismo e idealismo. Ciò aveva contribuito a complicare la ricezione dell’opera da parte degli ambienti accademici dell’Europa orientale. La Distruzione della ragione è un testo da “fronte anti-fascista”: concepita in forma embrionale già negli anni Trenta, il clima in cui è stata elaborata è quello dell’alleanza temporanea tra liberalismo e comunismo contro la barbarie nazi-fascista. Uscito nel 1954, il volume arriva però al termine di un dibattito che era ormai pressoché esaurito e che aveva lasciato il posto al clima da guerra fredda. Tale collocazione storica spiega in ampia parte come abbia potuto ricevere giudizi negativi sostenuti da motivazioni tra loro opposte.
È preziosa la ricostruzione del dibattito dell’immediato dopoguerra sui motivi della “catastrofe tedesca” (dal titolo di un famoso libro di Friedrich Meinecke). Il Sonderweg tedesco, il cammino speciale della Germania nella modernizzazione, era stato giudicato con toni molto negativi e reinterpretato come una “colpa” (Jaspers), visto nel suo aspetto “demoniaco” (Mann), “mitico” (Cassirer), scrutinato nelle sue radici storiche o ideologiche. Traverso ricorda e condivide il giudizio di Domenico Losurdo, scettico verso la rilettura marxiana del Sonderweg operata da Lukács. Il filosofo ungherese, se ricostruisce infatti correttamente le radici del pensiero dialettico nel contesto rivoluzionario europeo, nella Distruzione della ragione e in altre opere come Il giovane Hegel, non è altrettanto esauriente nell’esame dei riferimenti internazionali del pensiero irrazionale. Egli non prende in considerazione, ad esempio, De Maistre o il pensiero razzista britannico.
La ricostruzione storica di Traverso è precisa e restituisce al pensiero dell’autore della Distruzione della ragione maggiore profondità e colore rispetto a quanto tentano di fare altri interpreti contemporanei di Lukács, che finiscono per proporre una figura “pura” del filosofo ungherese, operando un appiattimento del suo pensiero attraverso una torsione a-storica. Lukács è invece un pensatore “problematico” perché ha sempre preso posizione nelle svolte decisive del movimento comunista del ‘900. Era il punto su cui insisteva Guido Oldrini quando metteva in luce che Lukács si era posto i problemi del marxismo del ‘900. Il suo peculiare “storicismo” merita di essere considerato nella sua interezza come fa Traverso, che pure ripete molte volte di non volere “assolvere” o “reintegrare” nessuno. Onorare la figura di Lukács significa applicare a Lukács stesso il suo stesso metodo, cioè significa considerare ogni «problematica feconda, realmente filosofica […] [come] concreta; vale a dire determinata» (G. Lukács, La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959, p.99), significa individuare la funzione dell’opera di un autore nel contesto concreto della storia delle idee e dello scontro politico in filosofia, anche prescindendo dall’opinione soggettiva che egli ha di se stesso e della sua opera.
In tal senso si può condividere quanto afferma Traverso, che invita a leggere il «libro come lo specchio filosofico della guerra civile europea» e considerare «questo lavoro evitando approcci unilaterali: da un lato sottoponendolo a una severa critica; dall’altro riconoscendo tra righe delle sue asserzioni perentorie l’eco di Stalingrado». Questo punto imprescindibile era stato già compreso dagli operaisti, che per tale ragione non guardavano con favore al testo, il quale in Italia, come ricorda anche Traverso, era stato accolto in maniera più favorevole che nel resto dell’Europa Occidentale perché ritenuto affine alla “via italiana al socialismo”.
Sul piano contenutistico l’introduzione mette ampiamente in risalto gli unilateralismi e le omissioni del volume lukacsiano. Evidenzia il carattere a suo avviso teleologico dell’idea di ragione del libro, che sembra una linea progressiva da Hegel al socialismo sovietico, e non considera nessun’altra via, sia essa il neokantismo liberale della scuola di Marburgo (Natorp, Cassirer) o qualche corrente del marxismo eretico. In particolare Traverso condivide, seppure in termini molto più sfumati delle stroncature adorniane, la critica di matrice francofortese per cui Lukács non considera dialetticamente la ragione stessa, la dinamica complessa di barbarie e cultura esaminata in un’opera come la Dialettica dell’illuminismo. Questo non permette all’autore della Distruzione della ragione di considerare elementi utilizzabili per una critica anti-capitalista anche in filosofie non progressive, cosa che invece Adorno tenta in Prismi. L’obiezione è fondata, ma esula da quello che è l’obiettivo originale del libro, che, come afferma Lukács, non è scrivere una «storia della filosofia». Si spiega forse con motivi analoghi la mancata presenza, rilevata da Traverso, di una storicizzazione del razionalismo parallela a quella dell’irrazionalismo. Inoltre, se è vero che per Lukács, a torto o a ragione, esso si riduce alla linea da Hegel a Marx, riferimenti – certo, davvero troppo scarni – possono essere trovati nelle primissime pagine del capitolo sul neohegelismo. Qui, prima di passare all’esame del neohegelismo novecentesco, l’autore ungherese ripercorre infatti in breve l’evoluzione dell’hegelismo ottocentesco e accenna al salto qualitativo presente tra la dialettica hegeliana e quella marxiana.
È interessante anche l’analisi di Traverso sulle correnti di pensiero contemporanee. Il neoliberalismo è visto da lui come un ritorno al conservatorismo classico, che cancella il futuro, ma non è irrazionalista stricto sensu, col suo insistere sui diritti umani e su una difesa formalistica della democrazia contro nemici esterni, quali possono essere il comunismo cinese o il fondamentalismo islamico. Egli paragona questa destra al Kulturpessimismus novecentesco. Molto probabilmente Lukács vedrebbe anche in questa forma di pessimismo un elemento disperante e irrazionale.
Da studioso dei movimenti della destra e del neo/post-fascismo, Traverso vede una debolezza teorica e strutturale di queste frange nella loro disorganicità. Alt-right e QAnon sono chiaramente una forma di irrazionalismo, ma allo stesso tempo non esprimono un’ideologia coerente. Resta però da chiedersi se questo milieu non possa però fare da incubatore a un futuro sistema di pensiero più strutturato, o se tale sistema di pensiero non sia superfluo al livello ideologico attuale dello sviluppo del tardo capitalismo.
L’autore dell’introduzione denuncia nelle ultime pagine anche i limiti del pensiero critico degli ultimi decenni, che, se privato di un’idea di emancipazione, rischia di fornire una visione dell’Occidente monolitica, quasi opposta all’orientalismo studiato da Edward Said. Post-moderno, Decostruzione, post-colonial studies, alcune correnti del femminismo, se criticano gli elementi di sopraffazione presenti nel pensiero occidentale dominante, rischiano per contro di darne una visione piatta e priva di sfumature.
Egli sembra proporre una lettura “ecumenica” che, partendo da una visione del mondo marxista, riconosca gli elementi oggettivi di altre correnti critiche del capitalismo, come il forte elemento ecologista dell’anti-capitalismo romantico, che, a suo avviso, non può essere rifiutato a priori. Ma al di là delle possibili divergenze di vedute, Traverso ha senza dubbio il merito di porre sui giusti binari la discussione su un’opera come la Distruzione della ragione, strappandola alle facili scomuniche e ponendola tra i classici del marxismo. In un ambiente come quello anglosassone questo punto è più che sufficiente ad apprezzare pienamente il suo contributo.