Giovanni Sgro’

 

Il profilo di biografia intellettuale di Marx a firma di Roberto Fineschi (Marx, Brescia, Scholé, 2021, 183 pp., ISBN 978-88-284-0296-1) si presenta esteriormente come un volumetto agile e “leggero” ma, già a una prima lettura, si rivela essere una miniera di spunti critici e di proposte ermeneutiche, in cui si condensa un confronto più che ventennale con l’opera di Marx e con la relativa letteratura critica.

      Alla base di questo così come di tutti gli altri lavori di Fineschi vi è quel «fondamentale passaggio storico-esegetico» (p. 13) rappresentato dalla nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels in lingua tedesca, la Marx-Engels-Gesamtausgabe, di cui Fineschi stesso è stato ed è in Italia uno dei maggiori conoscitori e “divulgatori”.

      In quel «corpus vasto e multiforme» che è l’opera di Marx, caratterizzata da «fasi, stili e intenti molto diversi», Fineschi ha individuato ‒ correttamente ‒ uno «snodo fondamentale» (p. 13) nell’anno 1857, vero e proprio “punto di non ritorno” nella produzione teorica marxiana, anno in cui Marx incomincia per la prima volta a esporre in modo autonomo e organico quel progetto di critica dell’economia politica che lo ha impegnato ‒ tra letture, estratti, manoscritti, tentativi di pubblicazione ed edizioni a stampa ‒ per tutta la vita.

      A partire dall’assunto del 1857 come “punto di svolta” nella parabola intellettuale di Marx, Fineschi articola la sua esposizione in due parti: un primo capitolo dedicato alla formazione teorica di Marx fino alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento (pp. 15-46) e un secondo ampio capitolo dedicato alla «costruzione della teoria del capitale» (pp. 47-112), in cui, dopo aver brevemente presentato lo “stato delle fonti”, ovvero tutti i manoscritti “economici” e le edizioni a stampa di cui disponiamo (pp. 47-54), analizza dettagliatamente ‒ anche se non in misura uniforme ‒ i tre libri de Il capitale (pp. 55-112). Completano il volume una sezione (pp. 113-146) dedicata all’approfondimento teorico di alcuni concetti chiave (materialismo storico/materialismo dialettico, lotta di classe/rivoluzione, comunismo, metodo dialettico, alienazione e feticismo della merce, valore-lavoro e trasformazione) e una breve storia della ricezione dell’opera di Marx nel Novecento (pp. 147-170).

      Non potendo in questa sede ripercorrere l’ampia gamma di temi trattata da Fineschi, preferisco soffermarmi su alcuni nuclei tematici, a mio avviso, di grande rilievo esegetico.

      Per quanto riguarda il cosiddetto “giovane” Marx, Fineschi ha il merito di aver mostrato come l’approccio di Marx a Hegel sia stato fortemente influenzato dal contesto giovane-hegeliano in cui fu recepito (cfr. pp. 37 e 135-136). La critica giovanile di Hegel, contenuta nelle opere del 1843-1844, viene così a configurarsi come una critica rivolta, in realtà, non tanto contro lo “Hegel storico”, bensì contro la lettura baueriana e feuerbachiana di Hegel: è la critica dell’alienazione (e riconquista) dell’essenza di specie (Gattungswesen), che darebbe luogo, secondo Fineschi, a una sorta di «escatologia laica, in cui il mito della caduta e resurrezione viene reinterpretato in chiave storico-antropologica, “materialista”» (p. 25; vedi anche pp. 44-45).

      Anche se l’idea di essenza di specie sarà presto criticata e abbandonata nel manoscritto dell’Ideologia tedesca (1845/1847) per essere sostituita con una prima formulazione (ancora provvisoria) del modo di produzione e della divisione del lavoro, resterebbero però ancora alcuni «elementi dell’intelaiatura concettuale» delle opere del 1843-1844, in particolare «l’idea di una palingenesi sociale in cui i rapporti pratici reali corrispondono al concetto universale di umanità», anche se adesso il concetto universale di essere umano non è più «una mera essenza di specie proiettata fuori di sé in quanto tale, ma un processo reale di trasformazione del lavoro e delle relazioni che produce quella umanità astratta come un fatto reale» (p. 31). Incomincia qui a farsi strada la concezione secondo cui «l’universalità umana non sia affatto un dato ab origine che è stato estraniato e di cui riappropriarsi, ma un prodotto della dinamica storica stessa del modo di produzione» (p. 31).

      Ciononostante, l’idea di una «palingenesi storicamente reale e definitiva», derivante dall’idea di «estraniazione dell’autocoscienza di matrice baueriana/feuerbachiana (non certo hegeliana)» non sarebbe abbandonata né nell’Ideologia tedesca né nelle opere successive, andando a configurarsi, secondo Fineschi, come una «potenziale aporia tra una teoria della processualità storica articolata in fasi […] e l’idea di un momento culminante che porti a compimento tale processualità» (p. 32; vedi anche p. 131).

      Nel complesso, ci troviamo di fonte a un «generale ridimensionamento» (p. 43) delle opere del giovane Marx, che si costituiscono ancora “di riflesso”, ovvero mediante la critica di singoli autori (Bauer, Feuerbach, Stirner, Proudhon ecc.) e di precedenti posizioni filosofiche e politiche. Anche se incominciano a comparire in esse alcuni «concetti chiave» della maturità, manca ancora uno «sviluppo coerente e organico di una teoria vera e propria che possa adeguatamente supportarli» (p. 44).

      A tale «teoria sistematica del modo di produzione capitalistico» (p. 44) Marx lavorerà in modo maturo e autonomo a partire dal 1857, annus mirabilis della produzione teorica marxiana. Ed è proprio alle opere della “maturità” che Fineschi dedica maggiore e particolare attenzione, analizzando dettagliatamente soprattutto il primo libro (pp. 55-91) de Il capitale, riservando minor spazio al terzo libro (pp. 96-112) e ancor di meno al secondo libro (pp. 92-96).

      Da raffinato conoscitore dell’opera “economica” di Marx, in particolare del primo libro de Il capitale ‒ di cui ha curato una nuova e innovativa edizione italiana (Napoli, La Città del Sole, 2011, 2 tomi) ‒, Fineschi si sofferma acutamente sulla natura “sociale” della merce, ovvero sul fatto che la singola merce è, a rigore, un’astrazione, in quanto dire merce significa dire (immediatamente e per sua intima natura) merci: «merce significa merci in rapporto» (p. 57) e, di conseguenza, il valore stesso, a ben vedere, esiste solo «nel rapporto reciproco di tutte le merci e nella loro universale scambiabilità» (p. 60; vedi anche pp. 143-144).

      Riservando particolare attenzione ai diversi livelli di astrazione presenti nell’esposizione del concetto di capitale generale/universale, Fineschi “scende” anche ai livelli più “bassi” dell’esposizione, rappresentati dalle sfere della concorrenza, del credito, del capitale fittizio e della rendita, mostrando come il plusvalore si “trasformi” in profitto e il profitto in profitto medio. Anche a questi livelli più “concreti” è importante ricordare la natura “sociale” del capitale (forma “sviluppata” e “concreta” della merce e del denaro). Anche a questo livello più “basso” di esposizione, dire capitale significa dire capitali in azione reciproca, che compiono i cicli di produzione e di valorizzazione in azione reciproca, andando così a demistificare la parvenza di autonomia e di “anarchia” dei singoli capitali, che sembrano agire come se il processo di valorizzazione, che deve necessariamente includere la totalità delle fasi, fosse «frammentato e diviso, come se ciascuno si valorizzasse per conto proprio» (p. 108).

      Nell’ambito dell’analisi del feticismo della merce (e quindi delle sue forme “sviluppate” e “concrete”: feticismo del denaro e feticismo del capitale), Fineschi offre, a mio avviso, una lettura molto originale e innovativa dei rapporti esistenti tra la critica giovanile dell’alienazione dell’essenza di specie e la critica delle forme feticistiche inerenti al modo di produzione capitalistico.

      Piuttosto che rappresentare un elemento di continuità con la concezione giovanile dell’alienazione, il feticismo delle merci ne rappresenta invece la critica e ne mette in luce la discontinuità. Il soggetto che adesso si aliena non è più, infatti, «l’essere umano in generale (che storicamente non esiste mai)», bensì «la persona, vale a dire una figura di soggettività storica prodotta dallo scambio di merci». Proiettare sull’essere umano in generale le qualità specifiche della persona significa, paradossalmente, «cadere vittime del feticismo della merce dal lato soggettivo, cioè considerare naturali le qualità storicamente determinate di una figura storica» (p. 64, corsivi miei).

      Come ha spiegato egregiamente lo stesso Fineschi, nel modo di produzione capitalistico e nella sua esposizione critica, rappresentata da Il capitale, «sono gli individui dello scambio, cioè una forma storicamente determinata degli attori sociali, che oggettivano nelle cose il loro rapporto sociale di scambianti (non la loro essenza umana). La astratta persona, cioè l’idea di un individuo in generale libero, uguale, assoluto, non solo non esiste come premessa astorica a questo processo, ma è essa stessa suo risultato. È questa “persona” il soggetto effettivo del processo di alienazione/reificazione; credere che essa sia identica con l’essere umano significa esattamente essere vittime del feticismo della merce, ovvero prendere per sostanziale, eterna e astorica una delle forme di soggettività storicamente determinate prodotte dal sistema “circolazione delle merci”. La persona astratta è l’alter ego soggettivo di ciò che il denaro è dal lato oggettivo. È dunque l’antropologia filosofica essenzialista a configurarsi essa stessa come feticcio» (pp. 140-141, corsivi miei).

      In conclusione, concordo pienamente con Fineschi quando scrive che «Marx è per molti aspetti un autore nuovo, che solo oggi è possibile leggere “nelle sue stesse parole”» (p. 14). Ed è possibile “riscoprirlo”, aggiungo io, anche grazie agli studi critici della più attenta Marx-Forschung internazionale, di cui Roberto Fineschi è indubbiamente un esponente di primo livello.

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