Elena Fabrizio*

La parola/è un condottiero/della forza umana, scriveva Majakovskij nel 1926 in uno dei suoi magistrali versi, con i quali reagiva furioso al suicidio del poeta Sergèj Esénin, un gesto di insopportabile rinuncia a combattere con la parola e quindi a esaltare la vita dopo che si sia contribuito anche a trasformarla. Majakovskij è stato il più grande poeta rivoluzionario, per aver trasformato se stesso nel proprio tempo mentre questo tempo lavorava al progresso della civiltà con un dinamismo che non ha pari nella storia mondiale. Un dinamismo ciclopico, per parafrasare Pasternak, che travolge o stravolge, in cui «tutti si sentono grandi nel loro disorientamento», «come se ognuno fosse oppresso […] da una natura eroica rivelatasi in lui» (Il dottor Živago).

È con la parola quale condottiero della forza umana e delle sue debolezze che Guido Carpi, profondo conoscitore dell’universo culturale e politico russo, ha scelto di narrare la rivoluzione nel suo Centenario, interpellando protagonisti e testimoni attivi che ne registrano le fasi, gli umori, le illusioni e disillusioni, le attese di palingenesi o le angosce apocalittiche. La ricchezza delle loro testimonianze biografiche, letterarie, poetiche, artistiche, filosofiche e politiche, le diverse emotività che essi esprimono o i diversi destini che essi incarnano, le loro diverse posizioni  rispetto agli eventi e le conseguenti scelte politiche restituiscono l’immagine di un periodo storico drammatico ed esaltante, in cui forte è la coscienza del tramonto di un’epoca, che alcuni cercano di ritardare, o di transizione e trasformazione verso una società altra che invece altri vogliono contribuire a progettare.

Carpi valorizza un doppio registro narrativo. Da una parte la narrazione storica, a partire dalla rivoluzione del 1905, passando per i disastri della guerra mondiale, le scelte miopi e autoritarie dello zar che conduce il proprio regime alla sua dissoluzione, e la Russia, tra caos istituzionale e crisi economica, «a gran velocità verso l’abisso». Passando poi per gli eventi di Febbraio, la formazione dei soviet e del governo provvisorio, di cui si registrano tutte le oscillazioni, le incertezze, le ambiguità, accanto al ruolo svolto dai partiti anche attraverso le divisioni interne e le involuzioni o evoluzioni ideologiche. Come quelle del partito cadetto-borghese che da posizioni liberali si spinge verso il sostegno dell’azione bonapartista di Kornilov; come quelle del partito socialista rivoluzionario che tra posizioni moderate e più radicali, nonostante il forte consenso elettorale e l’iniziale sostegno dei soviet, risulterà incapace di guidare l’azione politica e finirà per maturare una scissione dell’ala più radicale a sostegno del potere bolscevico dopo l’Ottobre. Come quelle dei menscevichi bloccati nella concezione meccanica e gradualista del processo rivoluzionario e imbrigliati in astratti dilemmi (quali tempi, quale intervallo tra la fase borghese e quella socialista della rivoluzione, quale sostegno alle forze liberali, quali posizioni sulla pace e sulla guerra, ecc.) che indeboliranno questo gruppo politico fino a farlo sparire dalla scena. Al contrario dei bolscevichi che, con il modello di partito teorizzato da Lenin - fondato sulla democratica «fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari» che lo tenesse al riparo dalle facili deviazioni di opportunismo, codismo e anarchismo; organizzato intorno ad una falange di professionisti decisi a sviluppare e organizzare la coscienza e l’azione politica di un movimento operaio che deve farsi classe generale, e quindi a coordinare intorno a sé le rivendicazioni e le lotte degli altri soggetti sociali (contadini, ceti subalterni, minoranze etniche) -, finirà col candidarsi quale unica forza politica capace di orientare la lotta. L’unica che sulla base di un chiaro programma politico, matura un processo di apprendimento capace di cogliere il kairós della storia, di ricostruire in ogni momento e in forma politicamente lucida le contraddizioni del processo in corso, di cogliere le debolezze dell’avversario e di misurare con realistica e oggettiva precisione la soglia della forza politico-rivoluzionaria di volta in volta raggiunta.

La narrazione storica di Carpi si concentra su tutti i momenti significativi che riscaldano il periodo tra il Febbraio e l’Ottobre. La «breve luna di miele» tra governo provvisorio e soviet dell’aprile-maggio, il paradossale stallo di un governo provvisorio che non risolve le questioni più critiche provocate dalla rivoluzione: la riforma agraria, il ripristino del circuito economico, l’uscita dalla guerra, il riconoscimento delle autonomie nazionali. Tanto meno la convocazione dell’Assemblea costituente che avrebbe dovuto eventualmente risolverle, ma le cui elezioni sono difficili da organizzare in un clima di caos anarchico (crisi della produzione e circolazione delle merci, rivolta delle campagne, occupazione tedesca a ovest dell’impero, ecc.) indotto proprio dalla mancata soluzione di quelle questioni. La narrazione prosegue con la crisi e le insurrezioni di luglio, la irreversibile dissoluzione dell’esercito, il carattere eminentemente classista del governo provvisorio, teso tra concessioni agli  interessi dei ceti dominanti (cadetti, apparati dell’esercito, industriali, imprenditori, associazioni padronali)  e  tentativi di controrivoluzione militare o restaurazione controrivoluzionaria; attraversa la Conferenza di Stato fino al golpe di Kornilov bloccato da un Revkòm (Comitato militare rivoluzionario) ormai guidato dai bolscevichi e dalla loro guardia rossa, dopo il quale la marea della rivoluzione arriva al suo culmine e i tre più grandi rivolgimenti che avevano caratterizzato l’intero anno rivoluzionario (ammutinamento dell’esercito, violenta occupazione delle terre da parte dei contadini, sollevazione degli operai industriali) raggiungono il punto di non ritorno. Fallita la Conferenza democratica per la costruzione di un governo di larghe intese, il terreno politico è ormai segnato per la determinazione bolscevica in direzione di una presa diretta del potere da parte dei soviet.

Come si vede, è una narrazione concentrata, impreziosita da intervalli di scene di vita quotidiana, che rinviano al secondo registro, quello della testimonianza diretta delle persone coinvolte attraverso la costruzione del «ritratto collettivo dell’umanità che con la rivoluzione si trova faccia a faccia», assumendo atteggiamenti di volta in volta favorevoli, contrari o di semplice presa d’atto soprattutto nei confronti della svolta dell’Ottobre. Ne emerge un quadro straordinariamente ricco di riferimenti culturali, romanzi, testi poetici, interventi pubblici, articoli di giornale che coinvolgono poeti, filosofi, artisti, romanzieri, docenti universitari, giovani del ceto istruito (Achmatova, Adamovic, Blok, Cvetaeva, Mandel’stam, Pasternak, Aleksej Tolstoj, Zoščenko ecc.). Alcuni spiccano più di altri, come Majakovskij, primo tra i poeti a prendere la parola nel contesto della guerra con la sua appassionata denunzia antimilitarista (E sulla piazza, lugubremente listata di nero,/si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!); come Zinaida Gippius che nel clima bellicoso che accompagnava l’entrata in guerra della Russia denuncia nei suoi Diari il patriottismo invasato dei moscoviti ma poi, subito dopo la caduta dei Romanov, descrive il precipitare degli eventi con estrema preoccupazione - «La storia sembra andare alla velocità di un aeroplano impazzito» -, quindi da una visuale opposta a quella che invece entusiasma Prišvin, «È come se le persone si fossero non solo liberate, ma redente».

Sono passaggi con i quali Carpi coinvolge e appassiona il lettore così da rendergli fruibile gli stimoli che gli attori socio-culturali hanno tratto da un anno rivoluzionario che, per caotica intensità e concentrato continuo rivolgimento delle parti, richiedeva una eccezionale duttilità mentale. Si pensi solo alle posizioni disarticolate nei confronti della guerra, tra dardanellismo a destra, ovvero prosecuzione della guerra imperialista per il controllo dei Balcani e degli Stretti, difensismo rivoluzionario tra le fila dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, l’irrealistica posizione dei soviet di una pace senza indennità e senza annessioni, e la sola netta e coerente posizione, politicamente fondata e argomentata, della guerra contro la guerra imperialista come base del programma rivoluzionario, quale fu quella di Lenin e dei bolscevichi. Si pensi ancora all’eccezionale spontaneità del flusso rivoluzionario di Febbraio, che tra l’apporto degli operai e delle donne fonde immediatamente istanze di lotta politica a riscatto sociale.

Si pensi ancora ai soviet, ai consigli dei delegati degli operai, dei soldati e dei contadini, che sebbene attraversino tutta la storia moderna - per l’aspirazione che essi promuovevano alla partecipazione dell’individuo alla vita pubblica attraverso forme di autogoverno animate da una volontà di trasformazione rivoluzionaria della società -, è solo in Russia che trovano, come Carpi rimarca con fermezza, un proletariato sempre lucido nel valutare i propri interessi di classe contro un padronato borghese passato alla storia per la sua brutalità e gretta miopia. Organizzazione nata spontaneamente nelle fabbriche già nel corso della precedente ondata rivoluzionaria del 1905, i soviet, tra cui spicca quello di Pietroburgo (Petrosovét), seppero rispondere alle esigenze di un proletariato disperso e disorganizzato, che in tale contesto imparò ad esercitare la democrazia con l’elezione a suffragio universale dei delegati controllabili e revocabili. Da questo proletariato sempre più organizzato e istruito partono le maggiori spinte di avanzamento democratico e di giustizia sociale: la soppressione della prassi padronale nelle fabbriche, la richiesta del controllo operaio delle imprese, l’aumento dei salari, la giornata lavorativa di 8 ore, l’equiparazione dei diritti civili e politici dei soldati a quelli di tutti i cittadini, l’abolizione dei titoli ufficiali, della censura, della gendarmeria, per citare solo alcuni esempi. «Sua maestà il proletariato» con le sue posizioni sulla guerra e le proposte di pace stimolerà la disgregazione dell’esercito e gli episodi di insubordinazione, diventando il sismografo dell’intero andamento rivoluzionario.

  

Particolarmente significative ed entusiasmanti sono le testimonianze che descrivono il coinvolgimento rivoluzionario successivo agli eventi di febbraio, di singoli e gruppi decisi ad esprimersi sul piano pubblico, ad associarsi per rivendicare riforme (gli insegnanti chiedono una riforma della scuola), a manifestare per esprimere il proprio dissenso (gli attori protestano contro l’amministrazione del Piccolo teatro di Pietroburgo per aver loro proibito di allestire spettacoli di orientamento democratico e di irridere la famiglia imperiale) o il proprio sostegno alla rivoluzione (persino i sordomuti si riuniscono in assemblea per discutere la proposta di riservare ad uno di loro un seggio nel Petrosovét). Manifestano i ladri e rapinatori che rivendicano l’accesso al lavoro onesto, le donne che rivendicano il riconoscimento dei diritti civili e politici, persino gli orfani che chiedono dignità e istruzione. Dappertutto si discute, dappertutto vi sono comizi e assemblee, in una sorta di «bulimia comunicativa» il cui senso, secondo Carpi, è magistralmente espresso da Pasternak: «Sembrava che insieme alle persone facessero assemblee e comizi anche le strade, gli alberi e le stelle».  E a questo proposito, come non evocare l’intenso ed esaltante discorso di Jurij Andrèevich Živago a Larisa Fëdorovna che ha immortalato Pasternak? «Uno spettacolo straordinario. La Russia, la nostra Russia si è mossa, non ce la faceva più a star ferma; cammina e non si stanca di camminare, parla e non si stanca di parlare. E non è nemmeno che parlino solo gli uomini. Gi alberi e le stelle si sono incontrati e discorrono, i fiori notturni filosofeggiano e le case di pietra comiziano. […]. Ognuno si è rianimato, è rinato; dappertutto trasformazioni, rivolgimenti. Si potrebbe dire che in ciascuno sono avvenute due rivoluzioni: una propria, individuale, e l'altra generale. Mi sembra che il socialismo sia un mare nel quale devono confluire come rivoli tutte queste singole rivoluzioni individuali, il mare della vita, il mare dell'originalità di ognuno».

Poco dediti alla produzione letteraria, in questo anno rivoluzionario gli intellettuali riversano sulle pagine delle riviste programmi culturali tesi all’istruzione delle masse, al sostegno di percorsi che sappiano stimolare nel proletariato la formazione di avanguardie capaci di far transitare la rivoluzione alla fase del socialismo come organizzazione pianificata e centralizzata della produzione, anche rinunciando alla presa violenta del potere. Secondo gli intellettuali che gravitano intorno alla rivista socialista “Vovaja žizn” (Gor’kij, Majakovskij, Bazarov tra i più noti) la costruzione dell’egemonia proletaria non deve limitarsi alla sola diffusione del sapere più avanzato, ma all’educazione del gusto, del sentimento estetico, fino alla formazione di una cultura nuova e di un’arte propria che siano universalmente popolari. Gli intellettuali oscillano così tra il sostegno a politiche progressiste finalizzate alla pace democratica senza annessioni, alla formazione di una repubblica sociale e democratica, al programma di educazione «cosmopolita e civilizzatore», e il sostegno a iniziative più radicali, come quelle avanzate dagli intellettuali della sinistra rivoluzionaria, che si riconoscono nel gruppo letterario degli Sciti, con le quali essi cercano di coniugare primitivo spirito di ribellione e riscatto contadino nella dinamica di una rivoluzione che deve superare la sua fase borghese. Dal primo gruppo prenderà forma dopo l’Ottobre il Movimento per la cultura proletaria (Proletktul’t) guidato dal Commissario del popolo all’istruzione Lunaĉarskij, dal secondo si svilupperà la poetica messianica di Blok e quella contadina di Esenin. Ma al di là delle divergenze, il dato rilevante è il fermento culturale delle masse, che tra oscillazioni e contraddizioni attesta una progressiva democratizzazione del paese che va dalle industrializzate città ai più periferici villaggi.  Cooperative, soviet, leghe, poi sostenute da associazioni di insegnanti e studenti, vedono impegnate élite alfabetizzate e istruite in programmi di organizzazione economica, corsi di alfabetizzazione, aperture di biblioteche, visite guidate nei musei, cinema itineranti.

Tra l’entusiasmo rivoluzionario, il caos politico, le incertezze e le misure confuse dell’esecutivo borghese, la democrazia organizzata che si erige a concreta direttrice politica del corso storico; tra contadini affamati di terra, soldati stremati dalla guerra e desiderosi di pace, nazionalità oppresse in cerca di autodeterminazione, continue ondate di scioperi, si staglia sullo sfondo la vicenda di Lenin, il leader bolscevico che porterà la rivoluzione dalla fase borghese alla definitiva svolta comunista.

I suoi interventi ai congressi dei soviet e del partito, le sue apparizioni tra un esilio e l’altro, l’incessante lavoro di organizzazione e di critica al moderatismo, di condanna incondizionata della guerra imperialistica e del difensismo rivoluzionario; il programma teorico e politico che indicava nel passaggio del potere rivoluzionario dalla borghesia al proletariato, e quindi nel controllo della produzione da parte dei soviet operai, la soluzione della questione del potere, tutto ciò non ha solo un senso politico e storico di portata epocale, ma finisce con l’assumere agli occhi della cultura impegnata persino il senso di un caso letterario. Quando la tecnica comunicativa di Lenin, caratterizzata come è da una straordinaria forza argomentativa, riceve l’attenzione della critica letteraria, grazie alla rivista del “Fronte di sinistra delle arti” diretta da Majakovskij, che nel primo numero del 1924 ne studia lo stile, «minimalista e pratico»; ne loda la «sobrietà lessicale», «compensata dall’espressività delle sue costruzioni»; vi ravvisa «il principio artistico di rinnovamento della parola», contro i tentativi politici di livellarla e quindi di decontestualizzarla, per farle assumere concretezza storica e significati specifici. È una parola nuova che rifugge astrazioni emotive e significati consolidati affinché si cali nel concreto di situazioni che dovranno realizzarla a tal punto che, come fa notare Carpi, Majakovskij, nel suo noto poema funebre, la assimila a quella dei futuristi: La critica di Lenin/corrode la vernice di frasi eleganti/e mette a nudo la sua rapace realtà. È, potremmo dire, il compimento del circolo virtuoso tra il poeta che vuole ergersi a creatore di un’arte nuova, che tragga la repubblica dal fango (Ordine n.2 all’Armata delle Arti, 1921) e la concretezza di Lenin, l’uomo più terrestre/che sulla terra abbia mai camminato, cui occorre adeguare il verso, come a tutta la sua visione politica, per esempio al capitalismo che si vuole rovesciare, L’unica via d’uscita/è quella di farlo saltare. Un’adesione del verso, baionetta che rende abbagliante, alla realtà-storia talmente possente da riuscire persino a evocare la liberazione dei popoli coloniali che la rivoluzione incoraggia, come in Giù le mani dalla Cina!

Inutile sottolineare che la rivoluzione non stimola solo straordinari circoli virtuosi, soprattutto dopo l’Ottobre (e ancora di più dopo lo scioglimento dell’Assemblea Costituente), quando una parte dell’intelligencija  che non si riconosce nel Prolektul’t, nelle avanguardie e nella poetizzazione della barbarie del gruppo degli Sciti, muta le rispettive posizioni passando dall’adesione o dallo smarrimento all’ostilità più o meno aperta (Gippius, Mandel’stam, Zamjatin Cvetaeva, Nabokov Achmatova ecc.).

È l’uscita della rivoluzione dalle sue oscillazioni e dai suoi stalli, ma anche l’inizio di una nuova dialettica storica che pronuncia decreto dopo decreto i suoi principi di portata universale  (sulla pace, sulla terra, sull’uguaglianza e autodeterminazione dei popoli, sul controllo operaio delle fabbriche, sulle previdenza sociale e l’istruzione, sull’abolizione della proprietà privata, la nazionalizzazione delle banche, la socializzazione degli immobili, la rinuncia alla diplomazia dei trattati segreti, la normativa sulla categoria di rifugiato politico, fino alla Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, preambolo della futura Costituzione del luglio 1918).

È un passaggio al contempo esaltante e tragico che apre le porte alla fase eroica della rivoluzione dove il caos regna dappertutto e ha molte cause. L’amministrazione di un proletariato che privo di esperienza non può che improvvisare; la scarsa produzione che impone il razionamento militare e poi il comunismo di guerra; la disoccupazione industriale causata dalla fine della guerra; l’esercito dove dilagano crimine e anarchia; le galere che si riempiono di sabotatori e intellettuali vicini ai partiti moderati; la sanguinosa guerra civile che subito si scatena con le forze bianche capeggiate tra gli altri da Kornilov che avanzano dalla Siberia, dall’Ucraina, dall’Estonia; il supporto che le forze alleate danno alla controrivoluzione, militarmente ed economicamente; l’ammutinamento controrivoluzionario della legione cecoslovacca; i contadini in rivolta contro le requisizioni forzate che impegna l’Armata rossa anche su questo fronte. In questa situazione drammatica si sigla la pace di Brest Litovsk, il saggio compromesso funzionale al successo della rivoluzione raggiunto grazie allo sforzo di Lenin, che infatti consentì di smobilitare il vecchio esercito e di rinforzare l’Armata rossa e quindi di raccogliere le forze per la lotta controrivoluzionaria; si decide di eliminare lo zar e la sua famiglia; il V Congresso dei Soviet approva la Costituzione sovietica; dopo l’attentato a Lenin e l’assassinio del capo della Ceka si inasprisce  il terrore rosso non meno violento del terrore bianco contro i bolscevichi o presunti simpatizzanti o esponenti dei movimenti nazionalisti.

Una fase lunga e difficile che si concluderà solo con la fine della guerra civile e l’introduzione della Nep, ma che caratterizza, secondo Carpi, la «catastrofica duplicità della rivoluzione», testimoniata da come i diversi attori socio-culturali rappresentano una realtà oggettiva in termini antitetici. Se, infatti, da una parte gli artisti dell’avanguardia, in onore delle prime ricorrenze rivoluzionarie, colorano le strade di Pietroburgo e Mosca di manifesti e di installazioni; se i futuristi con il loro Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti proclamano «Tutta l’arte al popolo!» e Majakovskij chiama alla lotta con le sue famose Marce; dall’altra la repubblica dei Soviet appare a Zamjatin come «spelonca mortifera», e a Mandel’stam come «trionfo del “corazzato assassino” e del “mitragliere dalla bassa fronte”». Tra i filosofi religiosi, Berdjaev vede nella rivoluzione la realizzazione della letteratura russa: «il tragismo comico di Gogol», «il nichilismo apocalittico di Dostoevskij», «il moralismo collettivistico di Tolstoj»; Bulgakov un tradimento della Russia verso la propria missione provvidenziale e nel rovesciamento del principio monarchico l’inizio dell’Apocalisse. Al contrario di Blok, per il quale l’artista deve saper ascoltare con tutto il corpo, il cuore, la coscienza lo spirito della musica che albeggia nella nuova cultura di cui sono portatrici le masse barbariche: «La rivoluzione come un turbine di bufera, come una tempesta di neve, porta sempre con sé il nuovo e l’inatteso; inganna crudelmente molti; mutila nel suo vortice il degno; porta spesso incolumi a terra gli indegni; ma questi sono particolari, questo non cambia né il corso generale del torrente, né quel minaccioso rombo assordante che ne scaturisce […]. Pace e fratellanza dei popoli: ecco il segno sotto il quale procede la rivoluzione russa. Di questo romba il torrente. Chi ha orecchie per intendere deve intendere quella musica» (Intelligencija e rivoluzione).

Sono punti di vista del tutto coerenti con un evento che mentre distrugge edifica, mentre compie un salto epocale deve confrontarsi con la concreta situazione oggettiva e i suoi rapporti di forza. Carpi sa registrarli con puntualità in un libro che si distingue per la ricerca perfettamente riuscita di adattare la citazione e la testimonianza verbale e scritta ad ogni fase e ad ogni protagonista dell’iter rivoluzionario: dalle voci politiche a quelle delle classi coinvolte, delle donne, dei movimenti nazionalisti, pacifisti, antiimperialisti, ogni avanzamento della rivoluzione trova espressione in un testo, una parola, un appello, una riflessione, una testimonianza. Come quella riportata per dimostrare quanto fosse autentico il credito crescente che i bolscevichi si stavano conquistando, in particolare nelle lezioni dei municipi di quartiere di Pietrogrado di fine maggio.

Dileggiato da alcuni operai non bolscevichi: «Quanto ti ha dato Lenin, dell’oro che si è portato dietro dalla Germania?», un operaio risponde: «Sì, Lenin mi ha dato molto, ma non dell’oro che egli disprezza e non possiede. Lenin mi ha insegnato a battermi con onore per la classe operaia e a capire cosa devo fare».

 

* A proposito del libro di Guido Carpi, Russia 1917. Un anno rivoluzionario, Carocci, Roma 2017, pp. 199.

 

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