Natalia Gaboardi
Una teoria politica radicale tra antagonismo ed egemonia
L'interesse di Chantal Mouffe per la costruzione di una proposta teorica che raccolga l'eredità della tradizione culturale marxista con l'intento di un suo superamento risale al saggio scritto a quattro mani con Ernesto Laclau Egemonia e strategia socialista, pubblicato per la prima volta nel 1985. Questo interesse teorico l'ha accompagnata nell'arco della sua produzione intellettuale e il suo più recente risultato è la raccolta di saggi intitolata Agonistics. Thinking the World politically (Verso, Londra 2013).
All'interno di essa è presente un'intervista rilasciata dalla pensatrice belga ad Elke Wagner nel 2007 e pubblicata per la prima volta nell'antologia Und jetzt? Politik, Protest und Propaganda (ed. Heinrich Geiselberger, Suhrkamp, Berlin 2007). Chantal Mouffe ripercorre in questa intervista il suo cammino teorico precisandone i punti fondamentali. E dall'apprensione che la pensatrice belga ha di sé vorrei partire per passare poi all'analisi dei due saggi maggiormente originali presenti in questa raccolta dedicandomi, infine, ad un confronto con le categorie gramsciane che vengono in essi chiamate in causa.
Nella ricostruzione del suo percorso intellettuale durante l'intervista del 2007 un posto centrale è riservato all'opera scritta a quattro mani con Ernesto Laclau, Egemonia e strategia socialista (1985; 2001), che ha fatto dei due autori i fondatori del post-marxismo.
A quest'opera Mouffe attribuisce due fondamentali finalità:
1. la riformulazione del progetto socialista di fronte alla sconfitta del socialismo reale e come risposta alla conseguente crisi della sinistra (sia comunista che social-democratica);
2. l'elaborazione di una teoria politica che dia ragione delle rivendicazioni di quei movimenti non immediatamente basati sullo scontro tra classi (i movimenti ambientalisti, femministi e per il riconoscimento dei diritti civili per gli omossessuali).
Deridda, Lacan, Foucault, Wittgenstein e il concetto gramsciano di “egemonia” vengono individuati dall'autrice come i punti di riferimento per l'abbandono dell'essenzialismo economico e i motivi ispiratori della “Discourse Theory” dei due fondatori del post-marxismo. Contestualmente alla critica dell'essenzialismo economico, i due autori propongono un abbandono della dialettica, retaggio di un irrisolto rapporto con l'hegelismo e del marxismo-leninismo sovietico diffuso negli anni staliniani.
Mouffe riprende poi i due concetti fondamentali dell'opera del 1985, l'antagonismo e l'egemonia.
La nozione di antagonismo aveva permesso ai due autori di sottolineare l'irriducibile negatività che connota il loro approccio alla politica e che impedisce, a loro detta, una soluzione razionale dei conflitti. Scrive Mouffe nell'Introduzione suo ultimo lavoro teorico: «to think politically requires recognizing the ontological dimension of negativity»[1]. La distinzione “the political”-“politics” proposta da Mouffe nel saggio del 1993 The Return of the Political, ribadita nell'articolo del 1995 Post-Marxism and Identity e nel saggio del 2000 The Democratic Paradox è l'ulteriore elaborazione del concetto di antagonismo (corrispondente a “the political”) e le pratiche tese ad organizzare la coesistenza umana (“politics”). Nel saggio del 2005 On the political Mouffe elabora ulteriormente queste due categorie chiarendo il significato dell'antagonismo in agonismo. Con quest'ultima nozione essa infatti intende distinguere la propria posizione da quella di Carl Schmitt, affermando che «per “agonismo” si intende una relazione opposizionale “noi-loro” in cui le parti in conflitto, sebbene riconoscano l'impossibilità di una ricomposizione razionale del loro scontro, comunque sono consapevoli della legittimità dell'esistenza dell'altro»[2].
Al riconoscimento del carattere irrimediabilmente negativo del conflitto fa seguito la teorizzazione del concetto di egemonia. Mouffe afferma che «society is always the product of a series of practices that attempt to create a certain order in a contingent context. These are the practices that we call “hegemonic practices”. […] A particular order is always the expression of a particular configuration of power relations. It is in this sense that every order is political. A given order could not exist without the power relations that give it shape»[3]. Sono dunque le relazioni di potere a dare una forma ad un particolare assetto sociale. Ogni ordine sociale è sempre “politico” ed è sempre il risultato di una configurazione egemonica delle relazioni di potere. Ad esempio l'attuale ordine globale è il risultato dell'egemonia neo-liberale e delle relazioni di potere che lo animano. Non esistono perciò forze “oggettive” (siano esse leggi economiche o leggi dello sviluppo storico o categorie dello spirito) che causano meccanicamente un inalterabile ordine sociale. Proprio perché ogni ordine sociale è il prodotto di pratiche egemoniche, esso può sempre essere l'oggetto di una sfida contro-egemonica.
In questo senso non è possibile raggiungere una situazione di perfetta democrazia che metta fine allo scontro tra due contrastanti egemonie: su questa base Laclau e Mouffe riformulavano in Egemonia e strategia socialista il progetto della sinistra nel raggiungimento di una “democrazia radicale e plurale”, concetto con cui essi intendevano una radicalizzazione delle istituzioni democratiche esistenti in modo che i principi di libertà ed uguaglianza vivificassero un sempre maggior numero di relazioni sociali. L'impossibilità di raggiungere un accordo razionale tra le egemonie a confronto porterà Mouffe ad elaborare una profonda critica delle posizioni “razionaliste” come quella di Habermas e del contrattualismo rawlsiano (nel 1993 con il saggio The Return of the Political e negli scritti successivi: anche nella raccolta di saggi in esame troviamo un riferimento alla questione[4]).
Un altro elemento centrale della teoria politica delineata in Egemonia e strategia socialista e che ritorna nell'ultima raccolta di saggi di Mouffe è la creazione di una catena di equivalenze, ossia la messa in relazione reciproca delle richieste avanzate da movimenti sociali, femministi, ecologisti e per la conquista dei diritti civili con le istanze dei sindacati e dei partiti politici di sinistra. Solo tramite la creazione di questa intersezione di istanze sarà possibile costruire una contro-egemonia, la cui azione sia politicamente significativa.
Ripercorso il cammino teorico della Mouffe tramite l'analisi che lei stessa ne ha proposto, è ora possibile prendere in esame i due saggi maggiormente originali della raccolta del 2013, Radical Politics Today e Agonistics Politics and Artistic Practices.
La sfida contro-egemonica: la critica delle istituzioni dall'interno e l'attivismo artistico
Nel primo dei due saggi, Radical Politics Today, Mouffe individua due modi di opporsi all'egemonia neo-liberale: quella proposta da Hardt e Negri e la propria.
La prima opzione, individuata da Hardt e Negri, suggerisce la diserzione dei luoghi del potere e la disobbedienza civile[5]. Le obiezioni di Mouffe a questa opzione si muovono in due direzioni: il rifiuto della democrazia rappresentativa è fondato sulla supposta unità che questi autori attribuiscono alla “Moltitudine” (il soggetto che il “capitalismo cognitivo” post-fordista coopera a creare) e alla sua capacità di auto-organizzazione politica. Le istituzioni democratiche (incapaci di rappresentare le forze del rinnovamento sociale) debbono essere rovesciate e, recuperando la concezione marxiana secondo cui il capitalismo crea i suoi stessi becchini, questi autori ritengono che il capitalismo cognitivo trovi nella “Moltitudine” l'ossimorico soggetto politico destinato a decretarne la fine.
La posizione di Mouffe si muove invece in tutt'altra direzione: la pensatrice belga ritiene infatti che sia necessaria una critica delle istituzioni dal loro interno, allo scopo di favorire la diffusione di una “contro-egemonia”. La transizione dal fordismo al post-fordismo viene letta da Mouffe nei termini di un processo di ri-articolazione discorsiva delle pratiche egemoniche vigenti. Questo processo di transizione viene definito da Mouffe utilizzando la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”[6]. Un'operazione analoga potrebbe essere svolta «lanciando un'offensiva contro-egemonica in diversi campi»[7]. L'offensiva contro-egemonica risulta articolata in due momenti: la separazione degli elementi la cui articolazione discorsiva costituisce il nucleo dell'egemonia vigente; la ri-articolazione di questi elementi in una nuova egemonia. Questo secondo momento deve essere pensato, a detta di Mouffe, nei termini di una “rivoluzione passiva” che si svolge in più ambiti (parlamentari ed extra-parlamentari) e tesa a creare una sinergia tra una pluralità di attori (la nozione di “catena di equivalenze” rientra qui in gioco), ossia movimenti sociali, partiti, sindacati.
Le divergenze nell'ambito dell'azione politica tra le due opzioni proposte (la diserzione delle istituzioni e il loro rovesciamento da un lato e dall'altro la critica delle istituzioni dal loro interno) sono, a detta di Mouffe, dovute ad una radicale divergenza a proposito dei postulati filosofici sottostanti.
La strategia della diserzione sostenuta da Hardt e Negri si basa su un'ontologia dell'immanenza incapace di render conto della negatività radicale. I due autori ritengono, su questa base, che lo Stato sia un monolitico apparato di dominio che non può essere modificato. La democrazia assoluta che la Moltitudine può raggiungere sarà caratterizzata da una società oltre la politica ed oltre la sovranità, una società in cui l'antagonismo sarà del tutto scomparso.
Mouffe (riferendosi a Egemonia e strategia socialista) sottolinea l'incompatibilità di un'ontologia immanentista (secondo cui lo spazio sociale è omogeneo e saturo) con l'irriducibile eterogeneità che il concetto di negatività radicale sottende[8]. I due poli dell'antagonismo (l'egemonia vigente e la contro-egemonia) non appartengono allo stesso spazio della rappresentazione e sono incompatibili l'uno con l'altro. Lo scontro tra progetti egemonici non potrà mai avere come esito una soluzione razionale, ma la ri-articolazione di una situazione data in una nuova configurazione dei rapporti di potere. In questo senso l'obiettivo finale della lotta contro-egemonica è individuato nella radicalizzazione della democrazia, un obiettivo mobile, passibile di un continuo miglioramento.
La sfida contro-egemonica, il cui campo di attuazione concreta risulta poco chiaro dal saggio Radical Politics Today, trova un approfondimento nel saggio successivo, Agonisitics Politics and Artistic Practices. Il saggio si apre con la domanda relativa al ruolo critico che l'arte può esercitare nella nostra società. La risposta si fonda sulla pervasività dell'estetica all'interno della nostra società e sul ruolo che l'arte può giocare nell'immaginario democratico[9]. Lo scambio incessante tra attività intellettuale, azione politica e lavoro istituisce nuove relazioni sociali entro cui l'arte può svolgere un dirompente ruolo critico. L'egemonia neo-liberale è letta da Mouffe in termini di “rivoluzione passiva”: in questo senso la società civile, la cui area di azione tende continuamente a dilatarsi, assume un ruolo centrale nella lotta contro-egemonica[10]. L'egemonia neo-liberale si struttura, come Mouffe ha precedentemente sostenuto, in una serie di pratiche contingenti che vengono tuttavia percepite come “naturali” e alla base di processi di identificazione cristallizzati. Lo scontro politico non si limita perciò alle tradizionali istituzioni politiche, ma si estende anche alla società civile, indicata da Mouffe come il luogo in cui si forma il senso comune. Con le parole di Mouffe:
[Civil society] is where, as Antonio Gramsci has argued, a particular conception of the world is established and a specific understanding of reality is defined – what he refers to as “common sense”, which provides the terrain in which specific forms of subjectivity are constructed [11].
Il riferimento a Gramsci è rapido e non rende affatto giustizia alla complessità della concezione gramsciana di tutto quel nodo problematico riconducibile alla nozione di “intellettualità”: nelle conclusioni cercherò di mostrare come quest'uso disinvolto dei concetti gramsciani, in questo e in altri casi, sia dannoso allo stesso pensiero politico di Mouffe.
Tornando al tema della società civile, quest'ultima, in virtù della sua estensione, diventa il campo in cui l'arte deve svolgere il suo ruolo critico nei confronti dell'egemonia neo-liberale, intervenendo sul senso comune. L'arte deve rendere visibile quelle contraddizioni che l'egemonia vigente tende ad oscurare e deve far proprie le rivendicazioni di quanti non hanno voce.
Mouffe ritiene che qualsiasi trasformazione delle identità politiche possa avvenire soltanto a patto che siano coinvolti anche gli elementi passionali e non solo quelli razionali[12]. Le installazioni milanesi di Alfredo Jaar nel 2008 (un progetto artistico intitolato Questions, Questions) vengono ritenute un esempio positivo del ruolo critico che un artista può svolgere all'interno della società. Il progetto milanese di Jaar era articolato in quindici installazioni sulle quali erano riportate domande riguardanti il ruolo della cultura all'interno della società (ne elenco alcune a titolo d'esempio: “Cos'è la cultura?”; “Cultura dove sei?”; “La cultura è critica sociale?”; “L'intellettuale è inutile?”; “La politica ha bisogno della cultura?”). A queste sollecitazioni, definite “pratiche artistico-attivistiche”, allo stesso tempo “emotive” e “cognitive”, Mouffe attribuisce un ruolo fondamentale nella riforma del senso comune.
Una volta riconosciuta la funzione critica dell'arte, Mouffe afferma che la figura dell'artista rientra perfettamente nel concetto di intellettuale organico, delineato da Gramsci all'interno dei Quaderni del carcere. Esattamente come l'intellettuale organico, anche l'artista riveste un ruolo fondamentale all'interno della sfida contro-egemonica, soprattutto per quanto concerne la mobilitazione ideologica e i processi di costruzione della catena di equivalenze tra le istanze dei diversi attori sociali:
Envisaged as counter-hegemonic interventions, critical artistic practices can contribute to the creation of a multiplicity of sites where dominant hegemony can be questioned. In my view, those who work in the field of art and culture belong to the category of what Gramsci calls “organic intellectuals”[13].
Ma, come nota la stessa Mouffe, l'affermazione di una contro-egemonia implica una pluralità di livelli dello scontro e sarebbe illusorio credere che l'attivismo artistico da solo possa portare al collasso l'egemonia neo-liberale[14]: questa la conclusione laconica del saggio sull'attivismo artistico e anche dell'intera raccolta.
Il concetto di “contro-egemonia” e le ragioni della filologia gramsciana
Alla luce della presentazione per sommi capi delle più recenti acquisizioni della teoria politica di Mouffe e di fronte alla constatazione che, Indice dei Nomi alla mano, Gramsci resta anche nell'ultima raccolta di saggi di Mouffe l'autore più citato, è estremamente interessante porsi una serie di quesiti relativi al trattamento che Mouffe riserva al lascito teorico dell'autore italiano, trattamento che si pone in alcuni punti in netto contrasto rispetto agli esiti di un'ormai trentennale riflessione filologica sugli scritti carcerari gramsciani. Cercherò di mostrare come la nozione di “contro-egemonia” si basi su due assunti problematici, che traggono la loro origine dall'opera scritta a quattro mani con Laclau: la contrapposizione tra economia e linguaggio, la contrapposizione tra i concetti di negatività radicale e di immanentismo e come il rifiuto programmatico di qualsiasi elemento economico nella propria analisi mini la praticabilità e l'attendibilità delle riflessioni di Mouffe a proposito di casi concreti tratti dall'attualità.
Anzitutto nei Quaderni del carcere non troviamo alcuna occorrenza del termine “contro-egemonia”: l'introduzione di questa espressione potrebbe anche essere valutata come un'elaborazione di Mouffe a partire dai Quaderni, a patto che l'autrice ne chiarisca una volta per tutte e in modo univoco le divergenze dalla concezione gramsciana.
Le radici del concetto di “contro-egemonia” e della peculiare lettura dell'opera carceraria gramsciana da parte di Mouffe affondano nell'opera scritta a quattro mani con Ernesto Laclau Egemonia e strategia socialista (come l'autrice stessa ci induce a ritenere citandola continuamente). Al concetto di “egemonia” in esso elaborato bisogna riferirsi per poter chiarire la successiva evoluzione della teoria politica della pensatrice belga. Il punto di partenza di Laclau e Mouffe, come ha ben sottolineato Peter Ives[15], è una riflessione a proposito dei rapporti intercorrenti tra il concetto economico di “classe” e il concetto politico di “coscienza di classe”. Nell'analisi della storia del marxismo novecentesco proposta in Egemonia e strategia socialista sono individuabili una serie di autori, tra cui Gramsci, che dimostrano di maturare un sempre maggiore interesse per il concetto politico di coscienza di classe e una crescente disaffezione nei confronti della riflessione economica. L'attenzione gramsciana nei confronti della cultura e la possibilità (sottesa al concetto gramsciano di “egemonia”) di costruire una volontà collettiva unitaria tramite il raggiungimento di un'unità culturale-sociale costituiscono le motivazioni che hanno indotto Laclau e Mouffe a definire l'autore italiano uno “spartiacque” nella storia del marxismo. Portando avanti ciò che ritengono vivo del pensiero gramsciano, i due autori sottolineano la necessità di abbandonare definitivamente ciò che considerano morto, ossia l'analisi economica, al fine di abbracciare una prospettiva entro cui le identità collettive siano costruite a partire da un orizzonte discorsivo.
Nel saggio del 1985 Laclau e Mouffe citano a sostegno delle loro lettura del carattere innovativo della nozione gramsciana di “egemonia” tre loci tratti da tre paragrafi dei Quaderni del carcere: il Quaderno 8 § 195, La proposizione che “la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali[16]; il Quaderno 10 II, § 44 Introduzione allo studio della filosofia. Il linguaggio, le lingue, il senso comune; il Quaderno 16, § 12 Naturale, contro natura, artificiale[17]. In tutti e tre i casi le citazioni sono scisse dal contesto entro cui Gramsci le ha poste e vengono utilizzate dai due autori per indicare il carattere molecolare della costituzione di una volontà collettiva che vada oltre i confini di una classe economica (i due autori citano anche il saggio incompiuto gramsciano Alcuni temi della questione meridionale a riprova del carattere non immediatamente classista del processo di costituzione della volontà collettiva). Il caso del Quaderno 10 II, § 44 mi pare particolarmente significativo e sintomatico della lettura tendenziosa e parziale con cui i due autori si avvicinano ai Quaderni (un modo aforistico di utilizzare Gramsci che accompagna Mouffe in tutto il resto della sua parabola intellettuale). I due autori si servono del seguente passo:
Da questo si deduce l’importanza che ha il «momento culturale» anche nell’attività pratica (collettiva): ogni atto storico non può non essere compiuto dall’«uomo collettivo», cioè presuppone il raggiungimento di una unità «culturale-sociale» per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una (uguale) e comune concezione del mondo[18].
Credo che una contestualizzazione del passo ci permetta di capirne meglio il significato. Gramsci all'interno di questo paragrafo sta riflettendo sulla concezione del linguaggio sottesa al pensiero di Giovanni Vailati, esponente del pragmatismo italiano. Riporto di seguito ciò che precede il passo appena citato e da cui dipende l'espressione “da questo” con cui la citazione si apre:
Posta la filosofia come concezione del mondo e l’operosità filosofica non concepita più [solamente] come elaborazione «individuale» di concetti sistematicamente coerenti ma inoltre e specialmente come lotta culturale per trasformare la «mentalità» popolare e diffondere le innovazioni filosofiche che si dimostreranno «storicamente vere» nella misura in cui diventeranno concretamente cioè storicamente e socialmente universali, la quistione del linguaggio e delle lingue «tecnicamente» deve essere posta in primo piano. Saranno da rivedere le pubblicazioni in proposito dei pragmatisti. Cfr gli Scritti di G. Vailati (Firenze, 1911), tra i quali lo studio Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori. Nel caso dei pragmatisti, come in generale nei confronti di qualsiasi altro tentativo di sistemazione organica della filosofia, non è detto che il riferimento sia alla totalità del sistema o al nucleo essenziale di esso. Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia accettabile: tuttavia pare che essi abbiano sentito delle esigenze reali e le abbiano «descritte» con esattezza approssimativa, anche se non sono riusciti a impostare i problemi e a darne la soluzione. Pare si possa dire che «linguaggio» è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa «unica» né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune) e pertanto il fatto «linguaggio» è in realtà una molteplicità di fatti più o meno organicamente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire. La cultura, nei suoi vari gradi, unifica una maggiore o minore quantità di individui in strati numerosi, più o meno a contatto espressivo, che si capiscono tra loro in gradi diversi ecc. Sono queste differenze e distinzioni storico-sociali che si riflettono nel linguaggio comune e producono quegli «ostacoli» e quelle «cause di errore» di cui i pragmatisti hanno trattato[19].
La mancata riflessione sul contesto entro cui Gramsci elabora «l'importanza che ha il momento culturale anche nell'attività pratica (collettiva)»[20] induce i due autori ad individuare in Gramsci un atteggiamento intellettuale ondivago, per certi versi “spartiacque” nella storia del marxismo e per altri immerso nella temperie culturale degli anni Trenta, come ha fatto notare Fabio Frosini[21].
Credo che le riflessioni gramsciane sul linguaggio e sul concetto di traducibilità possano costituire un buon punto di partenza per una lettura di Gramsci rispettosa del dato filologico ma anche desiderosa di fare del pensatore italiano e delle sue polifoniche categorie il punto di partenza per una riflessione autonoma. Come sostenuto da Peter Ives[22], la definizione di linguaggio presente nei Quaderni (ossia linguaggio come primo livello in cui si esprime la visione del mondo di ciascun individuo) permette di analizzare congiuntamente “senso comune”, “cultura”, “filosofia”, “ideologia” nel senso peculiare che questi termini assumono nella riflessione carceraria gramsciana. A partire da un fruttuoso confronto del modo in cui Gramsci congiunge questi concetti, sarebbe possibile proporne una lettura politica attualizzante, ma rispettosa dell'eredità gramsciana. Peter Ives scrive: «[Gramsci] considera l'organizzazione della cultura e le categorie e identità sociali come il terreno dell'egemonia che include (ma non è riducibile a) considerazioni economiche»[23].
In particolare un esempio del modo peculiare in cui Gramsci congiunge la riflessione sul linguaggio all'analisi politica è rappresentato dal Quaderno 29, in cui il pensatore italiano scrive:
ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale.[24]
“Egemonia culturale”, scrive Gramsci. Un'aggettivazione del sostantivo “egemonia” che dimostra il fatto che quello culturale è solo uno dei diversi ambiti a cui è applicabile il concetto di egemonia gramsciano, come è stato sottolineato da Giuseppe Cospito[25].
L'accusa di essenzialismo economico mossa al pensatore italiano pare non prendere in considerazione il fatto che la struttura economica, per Gramsci, non si dà mai sola, ossia è impossibile parlare di “struttura pura”: in questo senso, nelle tre serie di Appunti di filosofia e nel Quaderno 11, egli può tacciare in più occasioni la teoria buchariniana di economismo proprio per la mancata considerazione della dialettica, ossia del rapporto dialettico che è possibile costruire tra i livelli in cui si articola la vita sociale e i rapporti di produzione in essa vigenti. Mouffe, d'altro canto, non considera mai la radice dialettica del concetto gramsciano di “egemonia”, concentrandosi esclusivamente sull'aspetto “ideologico”, né vi è alcun cenno al rapporto dialettico che Gramsci istituisce tra politica, filosofia ed economia, rapporto interpretato da Gramsci attraverso il concetto di “traducibilità” reciproca[26].
L'originale sviluppo del marxismo presente all'interno dei Quaderni del carcere e la conseguente elaborazione della filosofia della prassi trovano il loro fondamento su un'analisi attenta della situazione storica ed trovano nel concetto di “traducibilità” l'espressione più duttile dell'unità della teoria e della prassi. Proprio l'insoddisfazione nei confronti dell'ideologismo da un lato e dell'economicismo dall'altro, inducono Gramsci, a partire dalla concretezza della realtà storica, alla riformulazione della teoria marxista in una direzione che la rende ancor oggi degna del maggior interesse. Pare strano, anche a fronte del crescente interesse che la categoria di “traducibilità” sta assumendo in particolare negli studi gramsciani in lingua inglese, che Mouffe non faccia menzione di questo aspetto del pensiero gramsciano.
In termini generali, la mancata attenzione dimostrata dai due fondatori della “Discourse Theory” nell'ambito della filosofia politica nei confronti della riflessione gramsciana sul linguaggio risulta, come sottolineato da Peter Ives, sorprendente[27]. E le difficoltà di una concezione puramente “discorsiva” della costruzione delle identità sociali si mostrano nell'analisi che Mouffe tenta di alcuni fenomeni politici contemporanei nella conclusione del suo ultimo sforzo teorico. A questo proposito (ossia per l'analisi di casi concreti) potrebbe venir in aiuto a Mouffe la metodologia elaborata da Gramsci nella costruzione delle categorie teoriche. Nel corso del Quaderno 1 Gramsci, a partire dall'analisi del Risorgimento italiano e degli atteggiamenti tenuti dal Partito d'Azione e dai moderati, elabora il concetto di egemonia come criterio storico-metodologico universale ed applicabile ad altri contesti. Applicato in quel contesto alla storia risorgimentale italiana, questo schema, successivamente semplificato da Gramsci, potrebbe diventare (se debitamente attualizzato) un valido strumento per l'interpretazione di quei movimenti di protesta (Occupy Wall Street, Indignados, le proteste degli studenti cileni e quelle greche) di cui Mouffe suggerisce un'analisi nella conclusione della raccolta di saggi oggetto della nostra esposizione. Senza un'adeguata ricognizione delle forze in campo (ed un'analisi delle forze economiche: tutti i movimenti che Mouffe cita hanno avviato le loro protese a partire dalle constatazioni economiche) pare difficile servirsi in modo non aforistico delle categorie gramsciane della “crisi”, della “rivoluzione passiva”, della “guerra di posizione”. Possiamo perciò affermare che il rifiuto programmatico dell'analisi degli aspetti economici mina l'attendibilità delle analisi dei casi concreti e la pregnanza della teoria politica di Mouffe rispetto alla realtà sociale.
Un altro punto su cui richiamo l'attenzione è l'affermazione di Mouffe (sempre mutuata dal Egemonia e strategia socialista) secondo cui il concetto di “negatività radicale” è del tutto incompatibile all'immanentismo[28]. Mi pare che anche in questo caso Mouffe non consideri un aspetto fondamentale del pensiero gramsciano, ossia la dialettica intesa come motore di sviluppo del reale e sua chiave interpretativa. E dunque il fatto che anche (e, forse, si potrebbe dire solo) a partire da una posizione immanentista si possa giungere a rendere conto della “differenza radicale” e dell'antagonismo. Il tentativo gramsciano di superamento delle tradizionali posizioni metafisiche e l'originale proposta filosofica dei Quaderni trovano una fondamentale formulazione a partire dalla prima serie di Appunti di filosofia nel paragrafo 37 del Quaderno 4, in cui Gramsci a commento di un articolo di Padre Barbera comparso sulla «Civiltà cattolica» e di una sua riflessione a proposito del dualismo tra “Materia” e “Spirito” scrive:
Né il monismo materialista né quello idealista, né “Materia” né “Spirito” evidentemente, ma “materialismo storico”, cioè attività dell'uomo (storia) [spirito] in concreto, cioè applicata a una certa “materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura” trasformata dall'uomo. Filosofia dell'atto (praxis), ma non dell'“atto puro”, ma proprio dell'“atto impuro”, cioè reale nel senso profano della parola[29].
Questo passo, intitolato Idealismo-Materialismo, contiene una nota a margine “Obbiettività” della conoscenza che lo riconnette alla questione gnoseologica e ad una particolare lettura delle Tesi su Feuerbach, come ha fatto notare Fabio Frosini[30]. Nel § 28 del Quaderno 11 Gramsci chiarisce ulteriormente il carattere esclusivamente “metaforico” del termine “immanenza” nel complesso della filosofia della prassi:
Di solito quando una nuova concezione del mondo succede a una precedente, il linguaggio precedente continua ad essere usato ma appunto viene usato metaforicamente. Tutto il linguaggio è un continuo processo di metafore, e la storia della semantica è un aspetto della storia della cultura: il linguaggio è insieme una cosa vivente ed un museo di fossili della vita e delle civiltà passate. […] Il termine «immanenza» nella filosofia della praxis ha un suo preciso significato, che si nasconde sotto la metafora e questo occorreva definire e precisare; in realtà questa definizione sarebbe stata veramente «teoria». La filosofia della praxis continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura di tutto il suo apparato metafisico e la conduce sul terreno concreto della storia. L’uso è metaforico solo nel senso che la vecchia immanenza è superata, è stata superata, tuttavia è sempre supposta come anello nel processo di pensiero da cui è nato il nuovo. D’altronde, il nuovo concetto di immanenza è completamente nuovo? Pare che in Giordano Bruno, per esempio, ci siano molte tracce di una tale concezione nuova; i fondatori della filosofia della praxis conoscevano il Bruno. Lo conoscevano e rimangono tracce di opere del Bruno postillate da loro. D’altronde il Bruno non fu senza influenza sulla filosofia classica tedesca ecc. Ecco molti problemi di storia della filosofia che non sarebbero senza utilità[31].
La mancata presa in considerazione della peculiare gnoseologia sottesa all'intero impianto dei Quaderni del carcere impedisce a Mouffe (e a Laclau) di intendere il pensiero di Gramsci nel suo complesso e di cogliere la peculiare unità di teoria e prassi a cui esso conduce. Una riflessione che induce il pensatore italiano a fornire una peculiare definizione dell'oggettività, che potrebbe essere pienamente rispondente ai requisiti antideterministici di Laclau e Mouffe:
si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre «umanamente oggettivo», ciò che può corrispondere esattamente a «storicamente soggettivo», cioè oggettivo significherebbe «universale soggettivo». L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. [...] Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire ecc.[32].
È connesso a questa lacuna il troppo rapido riferimento al “senso comune” presente nel paragrafo che Mouffe dedica all'attivismo artistico. La riflessione gramsciana sull'intellettualità (termine in cui riassumo i concetti gramsciani di ideologia, filosofia, senso comune, religione popolare, folclore), sulla categoria del giornalismo integrale, sull'importanza che Gramsci attribuisce alla letteratura popolare potrebbe fornire validi spunti riflessivi per elaborare una ricognizione delle forze in campo nell'ambito “ideologico”-“superstrutturale”. Ed allo stesso tempo una riflessione su questo nodo problematico permetterebbe a Mouffe di attualizzare in direzione politica la questione dell'intellettuale organico, fornendone un'immagine un po' più ricca di quella legata all'attivismo artistico, fenomeno marginale la cui rilevanza “politica” resta quantomeno dubbia proprio a causa della sua marginalità.
Le maggiori difficoltà che Mouffe incontra nell'elaborazione della sua teoria politica (la difficoltà di render conto dello sviluppo storico reale da un lato e, dall'altro, quella di riconnettere ad un movimento unitario la polifonia di istanze che animano la società) credo siano connesse al mancato riconoscimento dell'aspetto fondamentale del pensiero di Gramsci, ossia l'interdisciplinarità del pensiero gramsciano e la necessaria attenzione alle plurime sollecitazioni che il pensiero di Gramsci suscita nei suoi interpreti. Senza riconnettere il concetto fondamentale di egemonia all'intera galassia dei concetti gramsciani che ruotano intorno ad esso risulta problematico, o quantomeno opinabile, un continuo richiamo a Gramsci.
[1] C. Mouffe, Agonistics. Thinking the World Politically, Verso, London 2013, p. XI.
[2] C. Mouffe, On the Political, Routledge, New York 2005, p. 20, traduzione mia: per “agonismo” si intende una relazione opposizionale “noi-loro” in cui le parti in conflitto, sebbene riconoscano l'impossibilità di una ricomposizione razionale del loro scontro, comunque sono consapevoli della legittimità dell'esistenza dell'altro.
[3] C. Mouffe, Agonistics. Thinking the World Politically, cit., p. 131, traduzione mia: la società è sempre il prodotto di una serie di pratiche tese a creare un ordine di un certo tipo in un contesto di contingenza. Queste sono le pratiche che noi definiamo “egemoniche”. […] un ordine di un certo tipo è sempre l'espressione di una particolare configurazione di relazioni di potere. È proprio per questa ragione che ogni ordine è definito “politico”. Un dato ordine non potrebbe esistere senza le relazioni che gli danno forma.
[4] «Both Rawls and Habermas assert, albeit in a different way, that the aim of democracy is to establish a rational agreement in the public sphere. Their theories differ with respect to the procedures of deliberation that are needed to reach it, but their objective is the same: to reach a consensus, without exclusion, on the “common good”. Although their claim to be pluralist, it is clear that their is a pluralism whose legitimacy is only recognized in the private sphere and that it has no constitutive place in the public one. They are adamant that democratic politics requires the elimination of passions from the public sphere and this is, of course, why they cannot apprehend the process of the constitution of political identities» (C. Mouffe, Agonistics, cit., p. 55).
[5] «Regarding a type of political action better suited to the liberation of the Moltitude, there is no fundamental difference between Virno and Hardt and Negri, who also advocate desertion and exodus. Whereas in the disciplinary era sabotage was the fundamental form of resistance, in the era of imperial control they claim that it is desertion. […] In both cases we find a rejection of the model of representative democracy […] Radical politics is envisaged, according to this approach, in terms of “withdrawal” from existing institutions so as to foster the self-organisation of the Moltitude» C. Mouffe, Agonistics, cit., pp. 70-71.
[6] Nella terza sezione di questo lavoro procederò ad un lavoro di confronto delle categorie teoriche di Mouffe di derivazione gramsciana e ciò che Gramsci scrive nei Quaderni del carcere. Un lavoro che potrà suggerire alcuni limiti di un uso filologicamente poco accorto del lessico gramsciano da un lato e dall'altro la fecondità teorica delle categorie gramsciane, qualora siano oggetto di una ricostruzione approfondita.
[7] «A crucial aspect of the transition from fordism to post-fordism consisted in a process of discursive re-articulation of existing discourses and practices. This is why it allows us to visualize this transition in terms of an hegemonic intervention […] what Gramsci called “hegemony through neutralization” or “passive revolution” […]. When the transition from fordism to post-fordism is apprehended within such a framework, we can understand it as an hegemonic move by capital to re-establish its leading role and restore its legitimacy […]. This will in turn permit us to envisage how to challenge the new capitalist order by launching a counter-hegemonic offensive in a variety of fields where the nodal points securing the new post-fordist mode of regulation of capitalism have been established» (Ivi, pp. 72-73).
[8] Mouffe, riferendosi al saggio del 1985, afferma che la prospettiva delineata in quella sede fu detta “post-marxista” proprio perché i due autori rifiutarono decisamente il tipo di ontologia soggiacente a quella filosofia, ossia l'immanentismo. «It is not possible to make room for radical negativity without abandoning the immanentist idea of a homogeneous, saturated social space and acknowledging the role of heterogeneity. […] The two poles of antagonism do not belong to the same space of representation and they are essentially heterogeneous with respect to each other. It is out of this irreducible heterogeneity that they emerged» (Ivi, p. 79).
[9] «There is an aesthetic dimension in the political and there is a political dimension in art. From the point of view of the theory of hegemony, artistic practices play a role in the constitution and in the maintenance of a given symbolic order, or in its challenging, and this is why they necessarily have a political dimension. The poltical, for its part, concerns the symbolic ordering of social relations, and this is where its aesthetic dimension resides» (Ivi, p. 91)
[10] Cito il passo di Mouffe: «When the current neo-liberal hegemony is seen in terms of a “passive revolution”, as the result of a set of political intervention in a complex field of economic, legal and ideological forces, its discursive nature come to the fore» (Ivi, p. 89).
[11] Ivi, p. 89, traduzione mia: [la società civile] è il luogo in cui, come sostiene Antonio Gramsci, viene a costituirsi una determinata concezione del mondo ed è definita una specifica comprensione del reale – ciò a cui Gramsci fa riferimento con l'espressione “senso comune”, che garantisce la costituzione di specifiche forme di soggettività.
[12] «The transformation of political identities can never result from a rationalist appeal to the true interest of the subject, but rather from the inscription of the social agent in a set of practices that will mobilize its affects in a way that disarticulates the framework in which dominant process of identification takes place» (Ivi, p. 93).
[13] Ivi, p. 104, traduzione mia: considerate come operazioni contro-egemoniche, le pratiche artistiche di critica possono contribuire alla creazione di una molteplicità di “luoghi” in cui l'egemonia dominante viene messa in questione. Dal mio punto di vista, coloro che si dedicano alle arti e alla cultura appartengono alla categoria gramsciana dell'“intellettuale organico”.
[14] «This does not mean that artivist practices can alone realize the transformations needed for the establishment of a new hegemony. As Ernesto Laclau and I argued in Hegemony and Socialist Strategy a radical democratic poltics calls for the articulation of different levels of struggle so as to create a chain of equivalence among them. It is an illusion to believe that artistic activism could, on its own, bring about the end of neo-liberal hegemony» (Ivi, p. 99).
[15] P. Ives, Language, Agency and Hegemony. A Gramscian Response to Post-Marxism, «Critical Review of International Social and Political Philosophy», vol. 8, n. 4, pp. 455-468.
[16] Gramsci, che ha tradotto il brano marxiano citato nel titolo del paragrafo, ha elaborato a partire dalla Prefazione a Per la critica dell'economia politica e dalle Tesi su Feuerbach le basi per un'originale elaborazione del pensiero di Marx, come ha in più occasioni sottolineato Fabio Frosini (mi riferisco a Gramsci e la filosofia, Carocci, Roma 2003 e ai più recenti Da Gramsci a Marx, DeriveApprodi, Roma 2009 e La religione dell'uomo moderno, Carocci, Roma 2010). Cito lo stralcio: «ciò che importa è la critica a cui tale complesso ideologico viene sottoposto dai primi rappresentanti della nuova fase storica: attraverso questa critica si ha un processo di distinzione e di cambiamento nel peso relativo che gli elementi delle vecchie ideologie possedevano; ciò che era secondario e subordinato o anche incidentale viene assunto come principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico e dottrinale. La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi elementi contraddittori, perché di questi elementi quelli subordinati si sviluppano socialmente» (Q 8, § 195, p. 1058. Scritto nel febbraio 1932). Il “complesso ideologico” a cui Gramsci si riferisce poche righe sopra sono le “utopie” e le “ideologie confuse e razionalistiche”: non quindi il solo complesso ideologico borghese [Il riferimento alla datazione, presente nella precedente citazione dei Quaderni del carcere e nelle successive si riferiscono alla cronologia presente in appendice all'articolo di G. Cospito, Verso l'edizione critica e integrale dei “Quaderni del carcere”, «Studi Storici», LII, 4/2011, pp. 881-904].
[17] Cito lo stralcio: «Come invece dovrebbe formarsi questa coscienza storica proposta autonomamente? Come ognuno dovrebbe scegliere e combinare gli elementi per la costituzione di una tale coscienza autonoma? Ogni elemento “imposto” sarà da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato» (Q 16, § 12, p. 1875. Scritto presumibilmente tra il giugno-luglio 1932). Poche righe sopra Gramsci ha definito il concetto di “natura” storicamente, asserendo che: «la “natura” dell'uomo è l'insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita […]. Inoltre: l'insieme dei rapporti sociali è contraddittorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento sicché la “natura” dell'uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi. […] Constatato che, essendo contraddittorio l'insieme dei rapporti sociali, non può che essere contraddittoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l'unificazione» (Ibidem, pp. 1874-1875).
[18] Q 10, II, § 44, pp. 1330-1331 (agosto-dicembre 1932).
[19] Ibidem. Sul rapporto tra Gramsci e il pragmatismo rimando al saggio di Chiara Meta, Antonio Gramsci e il pragmatismo. Confronti e intersezioni, Le Càriti Editore, Firenze 2010.
[20] Ibidem.
[21] «La nozione di egemonia, si diceva, è collocata da Laclau e Mouffe su di uno spartiacque: tra la dissoluzione dei rapporti sociali tradizionali ad opera del capitalismo e la loro ricostruzione ad opera delle forze che conquistano la prevalenza nella società moderna. In questa dinamica, l’immaginario democratico-egualitario è lo sfondo trascendentale che rende possibile la produzione discorsiva della politica egemonica e al contempo, in quanto valore affermato nelle lotte politiche, la rimette sempre di nuovo in discussione. Esso funziona cioè sia come “sedimentazione” di una serie di lotte precedenti dentro il “senso comune”, sia come apertura costante di sempre nuovi fronti di carattere antagonistico, dunque come “riattivazione” delle catene del significato.
Queste considerazioni sono sufficienti per fare di Hegemony and Socialist Strategy un libro militante inserito in una determinata filosofia della storia. Esso, in quanto elaborazione cosciente dei meccanismi di articolazione egemonica della società, si dispone al culmine di un processo di ricerca/lotta avviato su più fronti. Gli autori, scegliendo (sulla base della loro collocazione personale) uno di questi, il marxismo, lo portano a compimento, mostrando come la piena consapevolezza di ciò che faticosamente si era ricercato implichi anche la fine del marxismo stesso», F. Frosini, Egemonia, economia e congiuntura: note per una rilettura di “Hegemony and Socialist Strategy”, intervento per il Convegno Egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione, 6-8 ottobre 2015, Università di Urbino.
[22] P. Ives, Language, Agency and Hegemony. A Gramscian Response to Post-Marxism, cit. Per un ulteriore approfondimento rimando a P., Ives, Language and Hegemony in Gramsci, Pluto, London 2004, in particolare i paragrafi del volume intitolati "New social movements and discourse: Laclau and Mouffe", pp. 144-153; "Laclau and Mouffe linguistically informed “Hegemony”", pp. 153-160.
[23] «[Gramsci] views the organisation of culture and social categories and identities as the terrain of hegemonic politics that includes (but is not reducible to) economic consideration» (P. Ives, Language, Agency and Hegemony. A Gramscian Response to Post-Marxism, cit., p. 465, traduzione mia).
[24] Q 29, § 3, p. 2346 (scritto presumibilmente nell'aprile del 1935)
[25] «Funzioni egemoniche [Q4, §49] si riscontrano pertanto a ogni livello della vita politica, nazionale e internazionale, sia in sede di ricostruzione storica, sia in sede di analisi della situazione presente, sia ancora in sede di progettualità di azione futura: si può avere egemonia di un'entità geografica o territoriale all'interno di una nazione (rapporto città-campagna, Nord-Sud ecc.) [Q 1, § 44], di questa su un gruppo di nazioni, su un continente, sul mondo intero [Q 9 d, § 14]; di una classe o di un gruppo sociale fondamentale sui ceti subordinati [Q 1, § 44] ma anche, all'interno di ognuno di questi, da parte di gruppi e, soprattutto, partiti [Q 5, § 127]. In un senso più lato, è possibile utilizzare il concetto di egemonia in ambito linguistico, antropologico, psicologico ecc.», G. Cospito, Il ritmo del pensiero: per una lettura diacronica dei Quaderni del carcere di Gramsci, Bibliopolis, Napoli 2011, p. 123.
[26] Per una analisi articolata del concetto di traducibilità rimando a D. Boothman, Traducibilità e processi traduttivi. Un caso: Antonio Gramsci linguista, Guerra Edizioni, Perugia 2004, e a R. Lacorte, “Espressione” e “traducibilità” nei Quaderni del carcere, in L. Durante, G. Liguori (a cura di), Domande dal presente. Studi su Gramsci, Roma, Carocci 2012, pp. 113-125.
[27] «Language lies at the centre of Grmasci's understanding of the relationship between coertion and consent. This not only troubles Laclau & Mouffe's reading of Gramsci, but it illuminates a more productive conception of hegemony that can address recent debates around post-structuralism and the use of hegemony to analyse globalisation and an increasingly technological and electronic world» P. Ives, Language, Agency and Hegemony. A Gramscian Response to Post-Marxism, cit., p. 455.
[28] Cito nuovamente il passo: «it is not possible to make room for radical negativity without abandoning the immanentist idea of a homogeneous, saturated social space and acknowledging the role of heterogeneity. […] The two poles of antagonism do not belong to the same space of representation and they are essentially heterogeneous with resoect to each other. It is out of this irreducible heterogeneity that they emerged» (C. Mouffe, Agonistics, cit., p. 79).
[29] Q 4, § 37, p. 455 (settembre-ottobre 1930).
[30] F. Frosini e G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci, Carocci, Roma 2004, in particolare la sezione Filosofia della prassi, pp. 93-111.
[31] Q 11, § 28, pp. 1439-1439 (luglio-agosto 1932). Faccio notare la riflessione sul linguaggio presente in questo paragrafo, ulteriore dimostrazione della sua pervasività all'interno della riflessione carceraria gramsciana e della colpevole lacuna di Laclau e Mouffe nel non averla presa in considerazione.
[32] Q 11, § 17, pp. 1415-1416. Il ricchissimo paragrafo 17, La così detta “realtà del mondo esterno”, di cui ho citato le sole conclusioni, venne scritto da Gramsci tra il luglio e l'agosto del 1932. È il risultato della riscrittura di riflessioni tratte dalla seconda e dalla terza serie di Appunti di filosofia presenti nei quaderni 7 (il paragrafo 47, scritto nel novembre 1931) e 8 (i paragrafi 177, 215, 217: scritti tra il novembre e il dicembre 1931).
Commenti
Più nel merito non direi affatto che possa esserci "agonistics" senza dialettica. Nel senso che solo la dialettica fonda la differenza e dunque il conflitto. Ontologia e conflitto non vanno d'accordo. Anzi si escludono. Tra l'altro centrando il discorso sull'ontologia non si va affatto oltre-marx.
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