Carla Filosa

 

Non è sicuramente impresa facile affrontare il rapporto capitale/lavoro, dopo che un intellettuale come Cacciari ne ha negato l’attualità (intervista a Ottolina tv, 1.09,’24) nel presente momento storico in cui la cultura in genere, e quella ispirata all’analisi marxista ancor più, è stata gettata alle ortiche.

Non si tratta di difendere Marx dalla demonizzazione che il neoliberismo ha finito di compiere, ma di capire l’iter scientifico di certi stimati intellettuali, da sempre schierati in una sinistra dichiaratasi comunista, ma che poi se ne discostano con una ibridazione di pensiero che sembra superare l’alienazione capitalistica dominante, attraverso un percorso essenzialmente volontaristico. Indubbiamente ha buon gioco l’approdo al nihilismo di Nietzsche e alla Tecnica heideggeriana, seppure da lui rivisitata con senso critico. Il fascino per Gödel, scientisti e antidialettici deve aver spostato l’attenzione dai rapporti storico-sociali all’illusione di una scienza libera dalle condizioni della sua esistenza e sviluppo, invece appropriate dal capitale.

Ciò è particolarmente importante se si pensa a quanto tali mutamenti di rotta possano interferire con gli orientamenti sociali di persone che non dispongono di strumenti né di tempo per costruire le proprie scelte politiche e culturali. Marx ci ha lasciato un patrimonio conoscitivo che è stato relegato nelle ristrette maglie di risicate élites intellettuali, invece di essere - come sarebbe stata sua intenzione - disponibile per l’emancipazione di una classe di lavoratori dal dominio dello sfruttamento capitalistico. Ridotti in tale angusta condizione storica, ogni riflessione autorevole diventa un’arma politica che si schiera nel conflitto sociale mai sopito, nell’erosione di forze delle classi subalterne private dell’efficacia di azioni nella lotta di classe proprio per la perdita teorica che ne avrebbe dovuto costituire la guida.

La dialettica capitale-lavoro sembra così un problema astratto e lontano dalla quotidianità banalizzante delle persone ridotte a “gente” o “moltitudine”, cioè senza alcuna identità men che meno di classe, in particolar modo culturale e politica. Proprio nelle orecchie della gente cosiddetta, però, veicola, senza freni di sorta, la narrazione governativa del tutto va bene con l’aumento del Pil, con l’incremento occupazionale, con i provvedimenti pilota contro l’immigrazione irregolare, ecc., mentre salta agli occhi l’impoverimento generalizzato, (1 italiano su 10 in povertà assoluta), l’aumento dei prezzi al consumo, e almeno un morto sul lavoro, se non più d’uno, al giorno, con un incremento del 2% rispetto al 2023, calcolato nei 9 mesi di quest’anno nel numero di 776, con una media di 86 mensili.

A chi però si chiede ancora come unire tanta contraddizione nella visione della propria esistenza, in termini assolutamente concreti, forse si può chiedere di prestare attenzione alle condizioni conflittuali poste dal nostro sistema economico-politico, ormai in crisi permanente. Quando si ascoltano filosofi e politologi anche più che autorevoli affrontare analisi di questo presente incerto, di mutamento climatico, di belligeranze in estensione e prive di termine, di intollerante competitività economica legata all’esercizio egemonico perdurante, di migrazioni umane alla ricerca della sopravvivenza, ecc., non sentiamo mai parlare di come la produzione mercificata in tutto il mondo riesca a far aumentare i profitti privatizzati mentre diminuiscono le quote salariali relative. Intanto, sempre la cosiddetta gente, a livello mondiale, continua a morire di fame, di malattie, di guerre, ecc., trasformata anche qui solo in calcolo numerico.

A chi infatti sostiene che il rapporto capitale-lavoro non esiste più, andrebbe chiesto in che consiste, ad esempio, la crisi dell’automotive in Europa, in cui è coinvolta anche Stellantis, includente 14 marchi tra cui Fiat, a fronte dell’ingente produzione delle auto elettriche cinesi, da bloccare con dazi all’esportazione nelle solite scelte protezionistiche del cosiddetto occidente. L’estensione del mercato mondiale che logicamente Marx aveva previsto basandosi sull’analisi della merce, comportava che la concorrenza tra capitali produttivi di plusvalore, oltre che di oggetti vendibili, le auto in questo caso, consisteva nel ricavare profitti più alti dei propri concorrenti, riguardati come nemici perché in grado di sottrarre loro proprio quei profitti, che erano lo scopo della produzione stessa. Se infatti Stellantis ha dovuto licenziare prima 8000 addetti e l’estate scorsa 3000 interinali, e chiede allo stato italiano 4.600 miliardi, più ora 200 milioni in un processo di deindustrializzazione continuo - che prevede anche lo smantellamento prossimo dell’impianto di Mirafiori a Torino, il più grande in Europa - mentre distribuisce ingenti liquidità ai soci, determina a cascata perdite lavorative che si ripercuotono anche nell’indotto per lo più manifatturiero.

Cosa emerge da questo solo esempio riportato? Che la conflittualità tra capitali si riversa sui lavoratori intesi unicamente come costi da abbattere, e contemporaneamente un uso dello stato come bancomat, cioè diritto di prelievo dalla fiscalità generale, soldi di lavoratori e pensionati da poter risucchiare. La conflittualità tra capitali e quella tra capitale e lavoro è inscindibile, e negare la seconda risulta facile perché l’invisibilità della classe lavoratrice è dovuta al suo essere stata dispersa nelle filiere produttive a livello mondiale, non più stabilmente circoscritta entro nazionalità identificabili, ma mobilitata e frantumata priva di frontiere laddove il suo costo è minore. Se i confini nazionali sono diventati barriere insormontabili per i poveri del mondo alla ricerca della sopravvivenza, al contrario non sono mai esistiti per impedire lo sfruttamento massimo della forza-lavoro, ovvero per i capitali che delocalizzano alla ricerca di salari sempre più bassi.

L’analisi di Marx, unica al momento in grado di discernere la realtà storica e sociale in cui viviamo, entro un processo conoscitivo che, in quanto tale, è critico come ogni vera conoscenza, non può essere sezionata a tema economico separato dal filosofico, dallo scientifico, dal politico, ecc. Implica cioè, se la si condivide o almeno se ne riconosce la validità, di acquisire la teoria del valore, del plusvalore e dello sfruttamento scientificamente dimostrato in condizioni di equità dello scambio, e pertanto di considerare i rapporti proprietari e la divisione in classi, quali funzioni specifiche di questo modo di produzione, nella concezione dialettica del materialismo storico. In altri termini si tratterebbe di capire oggi come si può morire di imperialismo, in quanto sintesi lessicale dello sviluppo proprio del modo di produzione capitalistico fino ai nostri giorni, semplicemente perché di fronte alla perdurante crisi di sovrapproduzione i capitali più forti non possono che distruggere i capitali concorrenti o nemici, e distruggerne territori e popolazioni indistintamente, come forma militare della necessaria centralizzazione del capitale.

L’acquisizione della veridicità dell’analisi marxiana si completa nella verifica di ciò che accade nel presente, non in un dogma né in una fede. La cronaca, l’episodio, il contingente danno conto solo degli eventi, dei fatti, non spiegano la loro derivazione, i loro nessi intrinseci, le eventuali conseguenze. La saturazione dei mercati, rimanendo nell’esempio materiale dell’auto, può indirizzare la ricerca scientifica nell’invenzione di auto volanti a bassa quota, come per lo più in Cina; quindi, l’uso funzionale di scienziati salariati per la costruzione dell’eVTOL (veicolo elettrico a decollo e atterraggio verticale) per persone, ma intanto determina una guerra commerciale per tutte le altre che circolano a terra. Finché perdura il sistema di capitale, dunque, la scienza non può che essere al suo servizio, essendone la componente essenziale del suo progresso basato sul dominio, mentre gli scienziati non possono che coincidere con il loro essere salariati, cioè con un lavoro che può svilupparsi solo in equipe e questa è preordinata dal sistema committente in cui entra solo chi si sottomette agli obiettivi imposti. Se inoltre si fanno distinzioni tra il Marx del Capitale, da non considerare, e quello più attendibile dei Lineamenti Fondamentali della Critica dell’Economia Politica sempre in merito al rapporto capitale-lavoro, può giovare rileggere la critica a P. Rossi: “Anzitutto ha pienamente ragione di dire che il lavoro salariato non è una forma assoluta del lavoro, ma in ciò dimentica solamente che il capitale è tanto meno una forma assoluta del mezzo e delle materie di lavoro e che queste due forme sono una medesima forma in diversi momenti, e perciò vivono e muoiono insieme; e che perciò è insulso da parte sua parlare di capitalista senza lavoro salariato”. (Marx, Lineamenti, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II, p. 252)

Un intellettuale, infine, può definirsi comunista senza essere marxista, non viceversa. Il primo rimane nella coscienza immediata in cui la scelta comunista si esprime in ambito materiale o morale, mentre il secondo affida la sua coscienza critica emancipata nella politica alla conoscenza scientifica che il marxismo offre. Essere intellettuali non precede l’essere comunisti, ma ne è l’aggettivazione. Chi si sente intellettuale (filosofo, scienziato, saggio, scrittore, ecc.) prima della dichiarata scelta comunista, come tanti esponenti di una sinistra nominale e senza progetto del nostro tempo, è figlio di una concezione liberal-borghese in cui si è posti come eredi entro la divisione della società in classi, dove vige la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, tra produttori non-proprietari e proprietari non-produttori. La sua coscienza di classe inevitabilmente eclettica non si discosta da un’empiria sociologica in cui la sua collocazione di privilegio in questa organizzazione sociale non risponde a nessuna funzionalità specifica, ma a differenze indifferenti all’azione storica consapevole e militante, cui il marxismo ha invece sempre chiamato nell’oggettività dei rapporti di classe.

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