Stephen Joseph Scott*
Gli Stati Uniti hanno da sempre, sin dalla propria fondazione, considerato l’annessione dell’isola caraibica di Cuba come un evento predeterminato; una conclusione prestabilita, e un inevitabile geografico. Capi di Stato, da Thomas Jefferson a James Monroe a John Quincy Adams, condivisero la convinzione, che la vicinanza di Cuba suggerisse un destino manifesto. Dalla metà del 19° secolo, la posizione degli Stati Uniti nei confronti di Cuba fu resa evidente dall’allora Segretario di Stato John Clayton: “Questo governo”, dichiarò, “è risolutamente determinato che l’isola di Cuba non potrà mai essere ceduta dalla Spagna a nessun altro potere che gli Stati Uniti.”
Il Segretario poi intimò che l’impegno della sua nazione per il possesso dell’isola era definitivo ed inalterabile: “La notizia della cessione di Cuba a qualsiasi potenza straniera sarebbe, negli Stati Uniti, il segnale istantaneo di guerra”. Queste affermazioni erano ora fondamentali, come ribadito dal senatore (e storico) dell’Indiana Albert J. Beveridge nel 1901, “Cuba è un oggetto di importanza trascendente per gli interessi politici e commerciali della nostra Unione” ed “è indispensabile per la continuità e l’integrità dell’Unione stessa”. Questi sentimenti furono poi codificati nella Costituzione cubana dagli Stati Uniti (dopo la guerra ispano-americana del 1898) nella forma dell’Emendamento Platt ratificato nel 1903. Lo storico Louis A. Perez lo descrive come “un emendamento che ha deprivato la repubblica cubana delle leggi essenziali necessarie per la sovranità nazionale preservandone però l’aspetto, consentendo l’autogoverno ma precludendo l’autodeterminazione”, tutto questo in opposizione alla visione del patriota cubano José Martí del 19° secolo di un’isola-nazione veramente libera e autogovernata. In effetti, questa prospettiva storica si rivelerà nella strategia impiegata dagli Stati Uniti nei confronti di Cuba per tutto il secolo successivo; fusa in una complessa rete di amichevole approvazione combinata con intimazioni di condanna, risentimento e rovina - il tutto convergendo nella Rivoluzione Cubana del 1959, che non solo sconvolse e sconcertò i politici statunitensi, ma, per la prima volta, sfidò i loro preconcetti storici di dominio egemonico. Al centro del loro smarrimento, critica, disprezzo e risentimento si trovò un uomo: Fidel Alejandro Castro Ruz. Pertanto, la politica statunitense diretta a Cuba, all’inizio degli anni ‘60, fu finalizzata per punire non soltanto l’uomo, ma la nazione cubana, e la sua gente, per la sua disobbedienza e sfida; e, come tale, fu mirata intenzionalmente a destabilizzare tutti gli sforzi di riavvicinamento, fino a quando Castro fosse rimasto in vita.
Sebbene l’intelligence statunitense durante gli anni ’50 avesse fornito all’amministrazione di Eisenhower resoconti dettagliati sui i pericoli posti dall’instabilità politica sull’isola, gli Stati Uniti continuarono a fornire sostegno economico, logistico e materiale alla dittatura impopolare comandata dal despota militare e “uomo forte” Fulgencio Batista (che era ritornato al potere tramite un colpo di stato militare nel 1952). L’intelligence statunitense comprese il potenziale pericolo rappresentato dal “giovane leader riformista” Fidel Castro e dalla sua banda di rivoluzionari. Castro e il movimento del 26 luglio furono la risposta ad un governo reazionario controllato dall’estero. Questa risposta rappresentava una minaccia diretta all’ordine naturale delle cose, vale a dire, la storica proibizione da parte degli Stati Uniti della richiesta di sovranità nazionale e autodeterminazione del popolo cubano. Gli Stati Uniti erano convinti che il popolo cubano, come la maggior parte degli stati latinoamericani, fosse “come un bambino”, incapace di autogovernarsi. Oltre a ciò, dopo la cacciata di Batista, e con l’animo vittorioso, un giovane Fidel Castro, il 2 gennaio 1959 (a Santiago de Cuba), lanciò apertamente la sfida, “questa volta, fortunatamente per Cuba, la rivoluzione non sarà abbattuta. Non sarà come nel 1895, quando gli americani arrivarono all’ultima ora e si fecero padroni del paese”. Quindi, come dimostra lo storico Jeffery J. Safford, questo rischio esistenziale, nella mente dei politici statunitensi, doveva essere affrontato, valutato e analizzato (almeno inizialmente) al fine di mantenere il risultato desiderato, ovvero eludere l’influenza comunista e mantenere la “stabilità” economica attraverso la protezione degli interessi degli Stati Uniti sull’isola di Cuba, indipendentemente dal costo.
Nel marzo del 1960, come scrive Noam Chomsky, sottovalutando il successo e il sostegno per Castro sull’isola “l’amministrazione di Eisenhower decise segretamente e formalmente di riconquistare Cuba... ma con una riserva: il tutto doveva essere fatto in modo tale che la mano degli Stati Uniti non fosse evidente”. In definitiva, i politici statunitensi volevano evitare un più ampio “contraccolpo di instabilità” in tutto l’emisfero invadendo apertamente la piccola nazione cubana. Detto questo, Castro e i suoi rivoluzionari compresero la cruda realtà e le nefaste possibilità che si insinuavano su di loro, data la storia di cambi di regime promossi dagli Stati Uniti in tutta la regione. Le accuse di Castro presentate alle Nazioni Unite, il 26 settembre 1960, in cui dichiarava che i leader statunitensi si stavano preparando ad invadere Cuba, furono respinte dal New York Times come “stralci di... propaganda antiamericana”. Inoltre, Castro fu deriso, dal rappresentante del congresso degli Stati Uniti James J. Wadsworth, per avere “fantasie di invasione da Alice nel Paese delle Meraviglie”. Ma Castro e i rivoluzionari cubani sapevano bene come nota Aviva Chomsky che in Guatemala nel 1954 Ernesto “Che” Guevara fu testimone del primo intervento statunitense della Guerra Fredda nella regione quando le forze controrivoluzionarie addestrate e sostenute dagli Stati Uniti rovesciarono il governo democraticamente eletto di Jacobo Arbenz. In effetti, allo stesso modo, l’imminente assalto orchestrato dalla Central Intelligence Agency (CIA), noto come invasione della Baia dei Porci (BDP), sotto l’amministrazione Kennedy nell’aprile 1961, dipendeva fortemente da fazioni antirivoluzionarie, con l’illusione che il popolo cubano e l’esercito sarebbero insorti per unirsi agli invasori – cosa che, come la storia dimostra, e il giornalista David Talbot sottolinea, non avvenne. Infatti, Talbot spiega che per evitare il destino di Arbenz, Castro e Guevara fecero tutto quello che Arbenz non aveva fatto: mettere contro un muro i criminali del vecchio regime, cacciare gli agenti della CIA fuori dal paese, epurare le forze armate e mobilitare il popolo cubano... Fidel e Che divennero un’audace minaccia per l’impero americano. Rappresentavano l’idea rivoluzionaria più pericolosa di tutte, quella che rifiutava di essere schiacciata. Questa divenne un’epica battaglia ideologica nella mente miope dei funzionari statunitensi: la possibile proliferazione di un assortimento di feudi “dispotici” controllati da comunisti contro il mondo libero! In effetti, Arthur Schlesinger, Jr., assistente speciale e storico del presidente John F. Kennedy nel 1961-63, avvertì l’Esecutivo che l’idea di Castro di prendere la situazione nelle proprie mani, avesse grande sostegno non soltanto a Cuba ma in tutta l’America Latina, cioè ovunque dove la terra e altre forme di ricchezza nazionale erano in mano alle classi possidenti. Ora i poveri e i disagiati, stimolati dall’esempio della rivoluzione cubana, avrebbero rivendicato, nei loro paesi, una vita dignitosa. Questa era la minaccia fondamentale che Fidel Castro e il suo movimento ponevano al dominio egemonico statunitense.
I media statunitensi si concentrarono principalmente sulla difficile situazione degli esiliati cubani della classe media che scelsero di lasciare l’isola a causa delle politiche redistributive della rivoluzione. Gli esiliati cubani, in particolare le ondate iniziali, furono espropriati di ricchezze e posizioni sostanziali e spesso arrivarono negli Stati Uniti in condizioni pessime. Ma la domanda essenziale sul perché la maggioranza del popolo cubano fosse a sostegno della “dittatura”, come suggerisce lo storico Michael Parenti, fu ignorata sia dai funzionari pubblici americani che dalla stampa: non una parola apparse sulla stampa statunitense sui progressi fatti dai cubani durante la Rivoluzione, i milioni che per la prima volta ebbero accesso a istruzione, alfabetizzazione, cure mediche, alloggi dignitosi e posti di lavoro.... Una vita sostanzialmente migliore rispetto a quella offerta dal “libero” mercato del regime di Batista sostenuto dagli Stati Uniti. Gli ideali rivoluzionari di Castro, basandosi sulla sovranità nazionale e l’autodeterminazione immaginate da José Martí insieme all’ideologia socialista della redistribuzione della ricchezza, armarono il popolo cubano con una formula che combinava riforma agraria e servizi sociali (cioè, istruzione, assistenza sanitaria, lavoro e alloggi) e che includeva la nazionalizzazione delle imprese di proprietà straniera; in quanto tale, i politici statunitensi si convinsero come rivela un rapporto dei servizi segreti che “la continua presenza di Castro come simbolo efficace del ‘comunismo’ e dell’antiamericanismo costituisce una vera minaccia in grado di poter influenzare il rovesciamento di governi eletti in una o più repubbliche latinoamericane.” Fidel Castro fu quindi messo nel mirino dell’azione segreta degli Stati Uniti.
I funzionari americani ritenevano che l’eliminazione di Castro fosse essenziale al fine di sopprimere i suoi principi socialisti, come dimostra lo storico Alan McPherson: “Nell’autunno del 1961, dopo il disastro di BDP, JFK diede l’ordine di riprendere i piani segreti per sbarazzarsi di Castro, se non esplicitamente per assassinarlo”. All’inizio del 1960, l’allora direttore della CIA, Allen Dulles, secondo cui Castro era un devoto comunista e una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti, i cui sentimenti rispecchiavano quelli del mondo degli affari rappresentati da William Pawley, l’imprenditore milionario, i cui importanti investimenti nelle piantagioni di zucchero cubane e nel sistema di trasporto municipale dell’Avana furono spazzati via dalla rivoluzione cubana. Così, i funzionari, lo Stato di sicurezza e gli interessi economici statunitensi si unificarono. Infatti, dopo l’arrivo di Fidel all’Avana su un carro armato nel gennaio 1959, Pawley, rampollo capitalista, fu preso da quello che Eisenhower definì un “odio patologico per Castro”, si offrì persino di pagare per il suo assassinio. Seguirono innumerevoli tentativi, quindi, l’uccisione di Castro divenne vitale per l’idea della “stabilità” emisferica degli Stati Uniti, cioè il controllo economico e ideologico capitalista; e in quanto tale, i servizi di intelligence credevano che la vulnerabilità politica del regime risiedesse nella persona di Castro stesso. Quindi, l’estromissione di Fidel Castro e la liquidazione delle sue idee, attraverso la punizione del popolo cubano, divennero non solo la strategia d’elezione per gli USA, ma la loro dottrina autorevole. Di conseguenza, come verifica Wayne Smith, diplomatico statunitense di lunga data a Cuba, le due preoccupazioni principali degli Stati Uniti per le quali era necessario lo sradicamento di Fidel Castro erano: 1) l’influenza a lungo termine dei suoi ideali socialisti rivoluzionari in America Latina e oltre; e 2) la possibile istituzione di uno stato comunista di successo sull’isola che diminuirebbe la sicurezza, la statura, l’immagine, l’influenza e il prestigio degli Stati Uniti nell’emisfero e agli occhi del mondo.
Durante gli anni 1960-64, Castro ebbe buone ragioni per stare in guardia. Come William Blum attesta, “il fatto che l’amministrazione Kennedy fosse profondamente imbarazzata dalla sconfitta della BDP - anzi proprio per questo - una campagna di attacchi su scala ridotta contro Cuba fu avviata quasi immediatamente”. Quindi il procuratore generale Robert F. Kennedy dichiarò inequivocabilmente, come rivela Schlesinger, che il suo obiettivo “era quello di portare il terrore a Cuba”. RFK proseguì sottolineando che l’eradicazione del “regime” di Castro era la principale preoccupazione politica degli Stati Uniti, informando la CIA che il problema cubano avesse “priorità assoluta nel governo degli Stati Uniti - tutto il resto è secondario - né tempo, o sforzi devono essere risparmiati.” Oltre alle molteplici azioni segrete dirette a Cuba nell’ambito dell’operazione Mongoose, RFK e i capi di stato maggiore congiunti degli Stati Uniti, aiutati dalla CIA, implementarono un multi-piano di punizione articolato, incentrato su Cuba attraverso l’America Latina, che includeva campagne di disinformazione, sovversione e sabotaggio (chiamate politiche di difesa emisferica) che comprendeva un Programma di assistenza militare (MAP), che includeva supporto economico, addestramento tattico sovversivo e materiale, ideato per porre fine alla “minaccia” (cioè, Castro e le sue idee) istituendo una forza di sicurezza interamericana (di stati obbedienti) sotto il controllo degli Stati Uniti.
Con Cuba ormai nel mirino, all’inizio degli anni ’60, lo storico Alan McPherson chiarisce che la CIA in quegli anni operò in sostegno degli emigrati anticastristi, costruendo un’enorme stazione di addestramento a Miami, nota come JMWave, la seconda più grande dell’agenzia dopo Langley, in Virginia. In effetti, lì coordinò l’addestramento per l’invasione di Cuba del 1961 che fu poi un noto disastro. Al contrario, Daniel A. Sjursen, ufficiale dell’esercito americano in pensione, si concentra più su JFK (che sulla CIA) come colpevole dietro le crescenti tensioni tra i tre protagonisti principali. Nel 1962, con Cuba al centro, entrambe le superpotenze (gli Stati Uniti e l’URSS) si erano trovate in mezzo alla possibilità molto reale di una conflagrazione globale che, come afferma Sjursen, era principalmente dovuta alla arroganza di un “ossessionato” giovane presidente. Infatti, in preparazione per un incontro al vertice del maggio 1961 con Krusciov, Kennedy dichiarò “Dovrò mostrargli che possiamo essere duri come lui”. Sjursen sostiene che ogni decisione di Kennedy riguardante gli affari internazionali tra il 1961 ed il 1963 fu basata su un’interpretazione semplicistica ed imperfetta dei fatti e che, come conseguenza, portò il mondo sull’orlo della distruzione con la crisi dei missili cubani; e risucchiò l’esercito americano in una disastrosa guerra in Vietnam. Eppure, come sostiene Smith, Kennedy non era certo privo di arroganza, ma alla fine tentò di “disinnescare” la situazione. Kennedy, rivela Smith, si fece certamente dei nemici all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato per 1) il suo desiderio di porre fine alla Guerra Fredda, 2) il suo inizio di un riavvicinamento con Castro (il quale lo desiderava, anche se indirettamente) e, 3) il suo obiettivo di ritirarsi dal Vietnam. In effetti, con i negoziati Kennedy-Krusciov finalizzati dalla promessa di JFK di non invadere Cuba se le testate sovietiche fossero state rimosse dall’isola - Krusciov acconsentì, con sgomento di Castro - le tensioni diminuirono.
Comunque sia, sostiene Philip Brenner, professore emerito studioso dei servizi internazionali, la crisi non finì il 28 ottobre 1962 né per gli Stati Uniti né per l’URSS. Gli accordi Kennedy-Krusciov dovevano essere attuati. Il 20 novembre, lo Strategic Air Command degli Stati Uniti era ancora in allerta: piena disponibilità alla guerra - con la quarantena navale (cioè, il blocco) saldamente in atto. Di conseguenza, Castro rimase aperto ai negoziati con gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo cauto. Secondo l’autore James W. Douglass, a questo punto Castro, come Kennedy e Krusciov, stava aggirando il suo stesso governo più bellicoso per dialogare con il nemico. Anche Castro stava lottando, ma intenzionato a trascendere la sua ideologia da Guerra Fredda per amore della pace. Come Kennedy e Krusciov, sapeva di dover camminare cautamente. Tuttavia, Castro sottolineò il fatto che l’Unione Sovietica non aveva il diritto di negoziare con gli Stati Uniti per le ispezioni o il ritorno dei bombardieri, Ma annunciò che Cuba sarebbe stata disposta a conformarsi sulla base di specifiche richieste: che gli Stati Uniti ponessero fine all’embargo economico; terminassero le attività sovversive e cessassero le violazioni dello spazio aereo cubano; e ritornassero a Cuba la base navale di Guantanamo. Naturalmente, l’apparato di sicurezza degli Stati Uniti fu fermo nel suo rifiuto di concordare o addirittura negoziare la questione.
Nonostante ciò, un riavvicinamento (ideato dal diplomatico di Kennedy, William Attwood e dal rappresentante di Castro all’ONU Carlos Lechuga) fu tentato di nascosto attraverso un collegamento, il giornalista Jean Daniel del New Republic, il quale affermò che Kennedy, retrospettivamente, aveva criticato le politiche pro-Batista degli anni Cinquanta portate avanti per la “colonizzazione economica, l’umiliazione e lo sfruttamento” dell’isola e aggiunse: “Pagheremo per quei peccati…”. Che può essere considerata una delle dichiarazioni più sfacciatamente oneste, riguardante Cuba, a nome di un presidente americano, nella lunga e complessa storia delle relazioni USA/Cuba. Daniel poi scrisse: “Potevo vedere chiaramente che John Kennedy avesse dei dubbi sulle politiche del governo nei confronti di Cuba e stava cercando una via d’uscita”. Nonostante la retorica combattiva di JFK diretta a Cuba, durante la sua campagna presidenziale del 1960, Castro rimase aperto e accomodante, capì quali fossero le forze schierate contro il presidente, infatti, vide la posizione di Kennedy come non invidiabile: “Non credo che un presidente degli Stati Uniti sia mai veramente libero... e credo anche che ora capisca fino a che punto è stato fuorviato. ...So che per Krusciov, Kennedy è un uomo con cui si può parlare...”.
Nel bel mezzo di un incontro clandestino (organizzato da Attwood e autorizzato da Kennedy) con Castro, Daniel riferì che (alle 14:00 ora cubana) arrivò la notizia che JFK era morto (ucciso a colpi di arma da fuoco a Dallas, in Texas, lo stesso giorno, 22 Novembre 1963, alle 12:30), “Castro si alzò, mi guardò sgomento e disse ‘Tutto cambierà...’” ed ebbe ragione. Di conseguenza, con il nuovo presidente Lyndon Baines Johnson consapevole del fatto che Lee Harvey Oswald era stato “proclamato” un devoto di Castro, un accordo con il governo cubano sarebbe stato molto più difficile. Cosicché, il collegamento Attwood-Lechuga fu interrotto. Julian Borger, giornalista del Guardian, sostiene che “Castro vide l’omicidio di Kennedy come una battuta d’arresto, cercò di riavviare un dialogo con la nuova amministrazione, ma LBJ era ... troppo preoccupato di apparire debole nei confronti del comunismo”: i sondaggi d’opinione, e le loro conseguenze, prevalsero sul mantenere aperti i canali di comunicazione con il governo cubano. Il che ci induce a pensare che le relazioni con Cuba avrebbero potuto essere diverse se JFK non fosse stato assassinato.
Con l’amministrazione Johnson impantanata in una “guerra impossibile da vincere” nel sud-est asiatico e le battaglie per i diritti civili che stavano avendo luogo nelle strade degli Stati Uniti, Cuba e la sua rivoluzione persero la loro centralità nell’attenzione degli USA. Nel 1964, l’amministrazione Johnson, preoccupata per l’opinione pubblica, come accennato, intraprese un’azione rapida e immediata per porre fine al terrore deliberato perpetrato dagli USA sul popolo cubano. LBJ, nell’aprile di quell’anno, chiese la cessazione degli attacchi di sabotaggio. Johnson ammise apertamente che “gli Stati Uniti avevamo operato un’impresa di omicidi (Murder Inc.) nei Caraibi”. Tuttavia, l’apparato di sicurezza nazionale (cioè la CIA, i capi congiunti e l’intelligence militare) insieme ai politici statunitensi (e con i gruppi in esilio cubani), rimasero ostinati, fermi e coerenti nel loro obiettivo: punire (se non uccidere) Fidel Castro e la sua rivoluzione, mantenendo un programma punitivo di strangolamento economico con la speranza che Castro divenisse non solo isolato sulla scena mondiale, ma condannato dal suo stesso popolo che si sarebbe sollevato e avrebbe sradicato l’uomo e il suo regime socialista – cosa che come sappiamo non avvenne. Naturalmente, la cessazione della direttiva sulle ostilità ordinata da Johnson non includeva l’ostilità economica, che persistette per tutti gli anni ‘60 e oltre. In effetti, un agente operativo della CIA incaricato delle operazioni anti-Castro descrisse con precisione gli obiettivi sadici dell’agenzia espressi attraverso l’autore John Marks, spiegando: “I funzionari dell’agenzia credevano ... che sarebbe stato più facile rovesciare Castro se i cubani fossero stati scontenti del loro tenore di vita, per cui ‘volevamo tenere il pane fuori dai negozi in modo che la gente avesse fame... Volevamo mantenere in vigore il razionamento...’”
Lo scopo del blocco economico rimase fissato dall’inizio degli anni ‘60 in poi: contenere, diffamare, screditare e distruggere Castro e la sua sperimentazione con, quelli che gli Stati Uniti consideravano, ideali comunisti sovversivi.
Infine, la posizione bellicosa degli Stati Uniti nei confronti di questa piccola nazione insulare si riaccese alla fine degli anni ‘60, non solo con una stretta economica, ma anche con operazioni di sabotaggio in piena regola. I primi atti del 37° presidente degli Stati Uniti, Richard M. Nixon in carica nel 1969 furono quelli di indirizzare la CIA ad intensificare le operazioni segrete contro Cuba. Nixon e il suo allora consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, credevano che l’aggressione militare, la violenza, la brutalità e l’intimidazione (unite a feroci sanzioni economiche) fossero la risposta necessaria per risolvere i problemi esteri. La politica degli Stati Uniti nei confronti di Cuba per più di sessant’anni evoca una famosa frase spesso attribuita ad Albert Einstein: “La follia è fare sempre la stessa cosa, ma aspettarsi un risultato diverso”. Quindi, Cuba socialista fu la conseguenza di una politica estera imperialista da parte degli Stati Uniti lunga e persistente: se gli Stati Uniti non avessero ostacolato la spinta di Cuba per la sovranità nazionale e l’auto-determinazione nella prima parte del 20° secolo; se non avessero sostenuto una sequenza di despoti tirannici sull’isola; e, se non fossero stati complici e sostenitori della manipolazione delle elezioni del 1952, un personaggio inestirpabile come il giovane riformista e socialista, Fidel Castro forse non si sarebbe mai materializzato. Alla fine, l’assurdo stratagemma statunitense riguardante l’assassinio e il soffocamento di Castro e della sua rivoluzione socialista è fallito, non solo attraverso il rafforzamento dell’immagine di Fidel sull’isola, ma anche all’estero. Ironia della sorte, gli Stati Uniti hanno contribuito a creare il proprio modello di resistenza oppositiva nell’immagine di Fidel Castro, Che Guevara e del popolo cubano, ovvero della rivoluzione: due uomini e una piccola nazione insulare che si sono opposti con aria di sfida all'ordine capitalista globale guidato dagli Stati Uniti e non hanno ceduto. Gli Stati Uniti ebbero paura non solo della sfida che la Rivoluzione del 1959 poneva al potere di classe, alla colonizzazione; ma anche della sua popolarità tra i popoli del mondo - quindi, Cuba ed il suo esempio dovevano essere abbattuti con la forza attraverso politiche di embarghi commerciali, insieme alle minacce di violenza e isolamento ideologico. In effetti, la rivoluzione cubana ha resistito coraggiosamente e tenacemente a specifici espedienti (o progetti) con cui gli Stati Uniti avevano delineato il loro status dominante attraverso la protezione forzata e le loro pratiche commerciali di sfruttamento (alias, lo "stivale yankee") sulle spalle del popolo cubano, e di questo Fidel Castro e la sua crociata “populista” dal basso furono ritenuti infinitamente responsabili...
* L'articolo è stato pubblicato in inglese da Dissident Voice:
https://dissidentvoice.org/2022/04/between-crosshairs-a-man-and-his-revolution/ e da Hampton Institute: https://www.hamptonthink.org/read/between-the-imperialist-crosshairs-a-man-and-his-revolution