Giorgio Grimaldi

(da https://fuoricollana.it/)

 

La gestione statunitense dell’ordine mondiale non sana, anzi aggrava la conflittualità internazionale. Rileggere il progetto kantiano Per la pace perpetua può essere estremamente istruttivo per orientarci nel presente.

 

La fine della guerra fredda non ha segnato alcuna “fine della storia”. Poco più di trent’anni di esercizio del potere e di gestione pressoché unilaterali dell’ordine mondiale e degli equilibri internazionali da parte degli Stati Uniti (i cui alleati hanno avuto e hanno margini di manovra assai ristretti in caso di dissenso) mostrano i loro frutti: a fronte di una sfera difensiva costituita dalla Nato, scoppiano a catena conflitti che gli Usa, unilateralmente, hanno difficoltà a controllare. È necessario, anziché capitolare di fronte a un “realismo politico” che asserisce l’inevitabilità della guerra, ripensare un assetto mondiale che si strutturi a partire da un obiettivo concreto da realizzare: la pace duratura, la pace come condizione internazionale normale. Più di duecento anni fa Kant aveva pensato a fondo la possibilità di una pace come stato continuo – perpetuo – della convivenza fra gli uomini. Rivolgersi ad alcune pagine per noi oggi particolarmente significative di quel progetto può aiutarci a stabilire le coordinate per una prassi efficace per la pace.

Il Paradiso europeo e il potere statunitense?

 

Nel 2003, rivolto a un’Europa in quel momento relativamente entusiasta di partecipare al ciclo di guerre indetto da George W. Bush, Robert Kagan sottolineava in Paradiso e potere: «le prospettive americane e quelle europee divergono. L’Europa sta voltando le spalle al potere, o, se si preferisce, sta andando oltre il potere verso un mondo autonomo di leggi e regole, di negoziati e cooperazione transnazionale. Sta entrando in un paradiso poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della “pace perpetua” di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e la vera sicurezza, la difesa e l’affermazione dell’ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza» (Kagan, 2003, p. 3). Questo «paradiso poststorico» kantiano-europeo è possibile, in altre parole, perché sono gli Stati Uniti, tramite la leadership esercitata nella Nato, a proteggere effettivamente lo spazio europeo dalla violenza del mondo esterno (cfr. ivi, p. 64). Il «mondo autonomo» europeo è allora solo un’illusione, perché la pace che vi regna è percepita al suo interno come un proprio risultato, un proprio successo, quando essa è invece possibile esclusivamente perché sono gli statunitensi «a esercitare» un reale potere deterrente verso l’esterno, che consente la stabilità e la pace interne. Il discorso di Kagan, espresso con una franchezza utile alla chiarezza del dibattito, contiene, fra gli altri, un punto vero: la mancanza di un esercito europeo (che Kagan stesso discute, ma sempre in un’ottica di politica di potenza, e quindi conflittuale con la posizione dominante statunitense – cfr. ivi, pp. 114-115). Torneremo su questo punto in seguito. È invece, sin da adesso, importante rilevare un elemento essenziale che va oltre lo schema di contrapposizione Kant-idealismo-utopia/Hobbes-realismo-potere[1], e cioè la noncuranza totale che Kagan dimostra rispetto al ruolo, alla funzione e, potremmo dire, all’esistenza stessa delle Nazioni Unite, l’unica organizzazione internazionale che ha in sé la potenzialità di produrre la pace a livello mondiale come condizione normale. Molto probabilmente la causa di questo atteggiamento da parte di Kagan è legata al fatto che una Onu forte depotenzia e neutralizza gli Stati Uniti come potenza egemone, la parifica alle altre nazioni, il che, per Kagan, non è desiderabile. Ma la mancanza di considerazione di Kagan per l’Onu non ci interessa di per sé, ma in vista dei suoi effetti.

Per la pace perpetua, oggi

 

Osserviamo infatti la situazione odierna, ventuno anni dopo Paradiso e potere. Il mondo è più libero, democratico, sicuro? Gli interventi armati degli Stati Uniti e dei suoi alleati hanno pacificato le aree interessate? C’è stato un ampliamento dei diritti umani? Come sappiamo, a partire dalla ritirata statunitense poco dignitosa dall’Afghanistan, la risposta a queste domande è in ogni caso negativa. Non intendiamo entrare qui nel merito specifico di quegli interventi e nel problema di quanto, nel fallimento di quelle guerre, abbiano inciso interessi particolari dei paesi occidentali nel progetto di diffusione e di difesa della democrazia liberale. Ci interessa concentrarci su un fatto: la gestione statunitense dell’ordine mondiale non sana, anzi moltiplica la conflittualità internazionale. Non si tratta di stabilire meriti e colpe, bensì di prendere in considerazione le responsabilità. E cioè passare dalla morale alla politica. Non perché la politica sia immorale o amorale – tutt’altro, non riusciremmo infatti a spiegare perché consideriamo una situazione ingiusta e intendiamo modificarla – ma perché le categorie della morale e i suoi strumenti sono inadeguati e insufficienti in politica. In questo essa è più affine al diritto: un reato non coincide con la ‘colpa’ così come essa è individuata in un sistema di valori determinato, con un ‘peccato’[2]. È per questo che, per quanto auspicabile possa essere una morale universalistica, essa, nelle sue componenti specifiche, è di gran lunga più complessa da elaborare rispetto al progetto, di per sé già immenso (e questo ci dà le dimensioni del problema), di un diritto universalistico. Tuttavia, come spazio della convivenza internazionale (e, si spera – primo accento kantiano – cosmopolitica), la costruzione di un diritto internazionale universalistico (che, cioè, sappia cogliere il nucleo di validità del diritto al di là di particolari contingenti, ‘accidentali’, che non per questo devono essere rimossi) è l’obiettivo, l’orizzonte che consente l’elaborazione di una pace mondiale duratura. È in questo spazio politico-giuridico che può essere pensata la pace.

Oggi gli spazi di guerra e le potenzialità di conflitto si moltiplicano e si complicano a causa degli intrecci delle relazioni e delle tensioni internazionali. Gli Stati Uniti o hanno tattiche incerte – come nell’oscillante politica nei confronti del conflitto israelo-palestinese dove, ai richiami nei confronti di Israele, non corrisponde una risolutezza di azione per fermare un massacro – oppure, nella convinzione di avere una sfera d’influenza dalle proporzioni spropositate (debolezza di tutti gli Imperi), aumentano tensioni e conflittualità, come nel caso della guerra russo-ucraina e della delicatissima questione fra Cina e Taiwan – una ‘contesa’, questa, ad altissimo rischio. Infatti tutto il vero interesse statunitense converge verso l’Estremo Oriente, e verso la Cina, l’unica potenza in grado di competere sullo stesso piano con gli Stati Uniti, a livello demografico, industriale e, recentemente, anche militare (cfr. Glaser, Chen Weiss, Christensen, 2024). Sempre meno credibile è, allora, l’argomento secondo il quale senza la leadership degli Usa il mondo sarebbe condotto necessariamente nel caos. È invece esattamente questa leadership – perciò parliamo di responsabilità, perché è una responsabilità che gli Stati Uniti hanno voluto assumere e intendono continuare ad assumere – che contribuisce ad alimentare il disordine. È una situazione insostenibile, sia dal punto di vista morale (l’abbiamo detto – la morale, nel contatto con la politica, non scompare affatto), con uccisioni su larga scala, sia dal punto di vista politico, con un’instabilità internazionale crescente.

Come pensare, allora, a un’interruzione di quello che ormai appare, anche all’orizzonte, come un nuovo e feroce ciclo di violenza? Come pensare la pace, e pensarla, inoltre, in una prospettiva duratura, magari continua, perpetua? È un tentativo difficilissimo, e che implica ampie e costanti riflessioni, discussioni. Possiamo però provare a dire qualcosa, a fare il punto, volgendoci al progetto che Kant propose più di duecento anni fa, nel 1795, nel mezzo della rivoluzione francese: Per la pace perpetua. Per la pace perpetua – si dirà, un’illusione ancora più evidente quando occorrerebbe invece prepararsi ad arginare le guerre, a gestirle, a impostare tregue. E invece è di certo sempre utile parlare di pace in tempo di pace, ma lo è certamente di più quando si è in tempo di guerra, e cioè anche solo quando questa parola è stata accettata, quando è stata compiuta la resa alla sua possibilità.

Ripartire da Kant

 

La proposta kantiana nasceva nel contesto del significato che la rivoluzione francese stava assumendo, e in qualche maniera ne rappresentava alcune potenzialità (la sua portata, il suo slancio verso una libertà e un’uguaglianza in espansione) e alcuni limiti (con la fine dell’Antico Regime si sarebbe aperta una fase storica in cui la libertà avrebbe trionfato definitivamente). Del resto questo limite, questa autorappresentazione quale approdo finale della libertà e della pace, avrebbe riguardato anche il socialismo reale[3]. E non ne è esente il liberalismo, che dopo aver celebrato lo ‘scoppio della pace’ a conclusione della guerra fredda, ha registrato (e avallato) il susseguirsi di guerre fino alla drammatica situazione attuale. Addebitare, quindi, a un particolare sistema politico ed economico o a una particolare congiuntura politica o situazione internazionale la volontà pressoché esclusiva di scatenare guerre, si è rivelato essere un giudizio insufficiente. Ma anche il tentativo di ‘andare più a fondo’ e di cogliere nella natura umana stessa l’origine della violenza mai sradicabile che si esprimerebbe su larga scala nella guerra risulta essere inadeguato e fuorviante. Come individuare, infatti, questa natura umana immodificabile e immodificata? Vediamo, al contrario, in atto uno sforzo millenario da parte dell’uomo per uscire dallo stato di natura, da quell’immediatezza che coincide con la violenza generalizzata e indiscriminata. È un processo lentissimo, ma è in atto, e ne è prova che, nonostante le giustificazioni invocate a sostegno delle guerre, esse non suscitino più un entusiasmo simile a quello che, ad esempio, aveva accompagnato lo scoppio della Prima guerra mondiale in Europa. Una guerra di annientamento oggi suscita più orrore che in passato. È un affinamento morale, questo, di cui occorrerebbe tenere maggior conto, insieme alla consapevolezza che esso non garantisce, di per sé, che non vi sia comunque la possibilità di una regressione alla barbarie. Il processo di civilizzazione ha le sue fragilità, che non possiamo permetterci di sperimentare.

Un momento importante, anzi decisivo, dell’affinamento di questa coscienza, che amplia la propria consapevolezza nel riguardo, nel riconoscimento dell’alterità, e che quindi amplia lo spettro della libertà e dell’uguaglianza è, nonostante tutti i ‘terrori’ (non vi è, infatti, solo quello giacobino), la rivoluzione francese, con le sue parole d’ordine – Libertà, Uguaglianza, Fraternità, da tenere sempre assieme, in un’unità senza la quale il loro senso si perderebbe. Unità difficilissima, ma necessaria. È guardando a questo evento rivoluzionario, e alle promesse che inaugurava, che Kant elaborava il suo progetto, Per la pace perpetua. Ed è da questa prospettiva, che integra morale, politica e diritto, che si può pensare di costruire la possibilità della pace. Questa possibilità è un processo molto più lento di un cambiamento di assetto politico ed economico (ma non è assolutamente indipendente da esso) e non trova un ostacolo in una natura immodificabile, ‘ferma’ nella sua violenza. Se di natura umana si può parlare, essa è dinamica, cioè storica.

In questa prospettiva, affine ma non identica a quella kantiana (non è nostra intenzione una fedeltà astorica a un autore), procederemo a estrarre elementi del testo di Kant (non sarà quindi un andamento analitico) in vista di un nostro orientamento nella realtà attuale.

Il problema della fiducia tra gli Stati

 

Rispetto agli articoli preliminari per la pace perpetua tra Stati possiamo fissare un punto che ne attraversa il contenuto: la pace si costruisce attraverso un rapporto di fiducia reciproca tra gli Stati, e quindi anche attraverso le relazioni fra le personae publicae che rappresentano lo Stato. È infatti la fiducia a informare il primo articolo – «Nessun trattato di pace che sia stato fatto con la segreta riserva di materia per guerre future può valere come tale» (Kant, 1995a, p. 163) – e il sesto – «Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che non potrebbero non rendere impossibile la reciproca affidabilità nella futura pace: come lo sono l’impiego di sicari (percussores), avvelenatori (venefici), la violazione di una resa, la istigazione al tradimento (perduellio) nello Stato contro cui si combatte, ecc.» (ivi, pp. 165-167). Ma anche il terzo – «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire del tutto» –, dato che questo smantellamento implica una fiducia crescente tra gli Stati, e il quinto – «Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato» –, che garantisce il rispetto degli Stati nei confronti della politica interna di ciascuno Stato, e cioè la reciproca fiducia di una non strumentalizzazione da parte esterna di conflitti interni, la non «violazione» della propria «autonomia» (ivi, p. 166)[4]. Occorre, in altri termini, fiducia e trasparenza (nessuna «segret[ezza]»[5]) tra gli Stati. Come costruire questo rapporto, questa nuova attitudine degli Stati tra loro? Torneremo su questa domanda, ma non possiamo lasciare in sospeso due elementi che emergono dalla lettura dell’articolo 3 e dell’articolo 6.

Il primo riguarda la questione degli «eserciti permanenti». Kant intendeva mettere fine agli eserciti di mercenari dell’Antico Regime (eserciti composti indifferentemente da persone di diverse nazionalità) e consentire invece, per la difesa dello Stato (che doveva pur essere garantita), l’esercito nazionale del «cittadino in armi» (ivi, p. 165), nato dalla leva in massa sorta durante la rivoluzione francese. Oggi la situazione è piuttosto diversa, essendoci di norma eserciti nazionali professionali (non di leva), anche se la presenza di compagnie militari private non è minoritaria. A questo proposito, nell’immediato, si pone la questione, accennata all’inizio, di un esercito europeo su base interstatale, pubblica. Può sembrare contraddittorio chiamare in causa l’articolo 3 della Pace perpetua e indicare la possibilità (anzi, la necessità) di un esercito europeo, cioè di un nuovo, ulteriore esercito. Ma la realtà impone un ragionamento che deve differenziare i vari passaggi verso un obiettivo, che è quello della pace. Ancor di più, allora, la formazione di un esercito colliderebbe con la costruzione della pace. Ma non è così, perché tutto dipende non dall’istituzione in sé di un esercito europeo, ma dal senso e dal compito che un tale esercito dovrebbe avere e svolgere.

Se infatti esso dovesse rappresentare l’esercito vassallo, ausiliario, degli Stati Uniti, allora la sua istituzione sarebbe inutile e dannosa, perché non si tratterebbe affatto di un esercito europeo ma di una divisione distaccata di un altro esercito, non europeo, chiamato a rafforzare uno strapotere che soffia sui venti di guerra. L’attuale rapporto di vassallaggio – perché di questo si tratta – dell’Unione Europea nei riguardi degli Stati Uniti, particolarmente evidente nelle questioni internazionali, indica che in questa fase la formazione di un reale esercito europeo non è in agenda. Ma essa è in realtà più che mai urgente: l’espansione della Nato a paesi del Nord Europa segnala 1) l’insicurezza percepita da quelle aree che, 2) non sentendosi adeguatamente protette da una forza militare europea (che, come tale, infatti non c’è), si affidano alla protezione della Nato (cioè degli Stati Uniti), i quali non hanno alcun interesse a fare in modo che il vassallo si emancipi realmente dalla sua condizione. L’esercito europeo dovrebbe essere istituito per rappresentare e realizzare questa emancipazione, e il suo senso dovrebbe essere quello di una politica autonoma dell’Europa quale spazio politico votato alla pace e non a una ulteriore politica di potenza. L’autonomia, anche militare, costituirebbe per l’Europa quel punto, quella leva capace di pesare nella politica internazionale. Naturalmente – ed è ciò che manca al momento – occorrerebbe la volontà di essere autonomi, ma questo è un problema più ampio che non possiamo affrontare qui. Questo passo di Kant ci ha indotto a riflettere su una situazione specifica – quella europea – ma questa riflessione non deve distoglierci dall’obiettivo, che possiamo leggere attraverso le pagine kantiane trasposte in avanti rispetto al loro tempo. Kant chiedeva una riduzione delle forze militari, un loro smantellamento fino al minimo indispensabile perché uno Stato non finisse preda di un attacco esterno. Uno Stato non può indebolirsi militarmente perché votato alla pace mentre un altro non procede nella stessa direzione o magari si rafforza: il disarmo non può essere unilaterale. E allora qui interviene la struttura centrale del discorso kantiano e di ciò che stiamo cercando di mettere in luce: questa struttura è politico-giuridica. Solo accordi internazionali (cioè stabiliti secondo il diritto) possono promuovere il disarmo, possono rendere efficace quel rapporto di fiducia e trasparenza (niente «segret[ezza]») che solo può condurre alla pace. Solo il diritto ha questa forza, una forza che, condivisa, agisce nel tempo. Ma deve essere diritto, legge nella propria sfera autonoma, non legittimazione, in ‘forma’ di legge, dei rapporti di forza esistenti. E a questo diritto – internazionale – devono essere soggetti tutti, nessuno escluso. Torneremo, alla fine, sulla costruzione di questo spazio universalistico della legge, che è in nuce nell’Onu. Per ora abbiamo individuato due punti: 1) una questione particolare – un esercito autenticamente europeo, non una divisione ausiliaria degli Stati Uniti, per autonomizzare uno spazio politico –, e 2) una questione più generale – la necessità di fiducia e trasparenza nei rapporti tra gli Stati quale condizione (e allo stesso tempo poi effetto) per un disarmo progressivo e generalizzato. I due punti sono collegati. Non si tratta di armare l’Europa per poi disarmarla: l’Europa è già armata, ma per conto terzi o comunque in maniera subordinata. Per contare nel richiedere e realizzare l’obiettivo del disarmo deve emanciparsi da questa condizione che è l’esatto contrario dell’espansione della Nato in Nord Europa.

Ma c’è un altro punto su cui è necessario porre l’attenzione: si tratta, nell’articolo 6, della condanna kantiana della «guerra di sterminio» (ivi, p. 167). Gli «atti di ostilità» elencati nell’articolo sono definiti da Kant «stratagemmi infami. Una qualche fiducia nell’atteggiamento di pensiero del nemico, infatti, deve restare anche nel mezzo della guerra, perché altrimenti non potrebbe essere conclusa alcuna pace, e l’ostilità si trasformerebbe in guerra di sterminio (bellum internecinum) […]. Una tale guerra, e dunque anche l’uso dei mezzi che vi conducono, deve essere assolutamente vietata» (ibid.). Ciò deve costituire un punto fermo, non negoziabile in alcun modo e in alcuna circostanza, anche oggi. Ma chi ha la forza di «vieta[re]» una guerra di annientamento? Kant, in questo passo, affermava a ragione che «nello stato di natura» internazionale «non si ha alcun tribunale che possa giudicare con efficacia giuridica» e che proprio per questo «nessuna delle due parti può essere indicata come nemico ingiusto» (ibid.). E infatti tutto il progetto kantiano è volto a costruire una società internazionale del diritto, all’uscita dallo stato di natura internazionale. Oggi queste istituzioni esistono, come nel caso della Corte penale internazionale, legata, nel suo funzionamento interno, allo Statuto di Roma. A questo Statuto, però, non hanno aderito, ad esempio, gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’Ucraina, Israele[6]. Questo è un problema. Inoltre, istituzioni come queste consentono di individuare un «nemico ingiusto» la cui figura, come argomenta efficacemente[7] Carl Schmitt nel Nomos della terra (Schmitt, 1991), non evita la guerra totale ma potenzialmente la innesca. Abbiamo allora due problemi: 1) istituzioni internazionali, come la Corte penale internazionale, che mancano di efficacia e 2) il punto di vista internazionale che non deve consentire l’identificazione di un nemico assoluto. Il primo problema implica anche una mancanza di fiducia tra le nazioni, oltre all’intenzione di disporre di un ampio margine di manovra, di “avere la mano libera” nei casi in cui gli Stati non aderenti, in maniera unilaterale, intendano agire in materia di politica internazionale. Occorre allora esercitare una pressione capace di espandere lo spazio in cui vige realmente il diritto internazionale, il che implica che non vi si può, a piacimento, appellare a esso, ma che si è tutti ugualmente inclusi (e quindi sottoposti) nel dominio vincolante del diritto internazionale. Detto per inciso, non si può esercitare questa pressione se si è vassalli o nell’orbita di questa o di quella potenza. La fiducia reciproca è un rapporto fra pari. Il secondo problema (il nemico assoluto) implica un radicale rivolgimento di prospettiva: l’abbandono definitivo – questo sì, assoluto – della logica amico/nemico (con buona pace di Schmitt) e l’approdo alla logica della fraternità. Questo obiettivo – decisivo – difficilmente sarà condiviso dai “realisti politici”, che considerano anche la parola ‘pace’ (pace perpetua – in misura maggiore) e le tre parole d’ordine della rivoluzione francese – come un’unità – Libertà Uguaglianza Fraternità quali al massimo nobili ideali intraducibili nella realtà, utopie, sogni di un illuminismo ‘romantico’[8]. Abbiamo già messo all’opera queste tre parole: si è liberi se si è indipendenti, non vassalli; la vera libertà è fra pari; si è pari in quanto già-da-sempre (ma occorre riconoscerlo, e questo è un processo) in un rapporto di fratellanza, cioè l’umanità nel suo complesso. Ciò non significa che i conflitti, le incomprensioni, le tensioni non sussistano più, ma che la loro risoluzione, la loro ‘composizione’ si svolge nello spazio del diritto, che supera la violenza immediata dello stato di natura (‘nazionale’ e internazionale)[9]. Forse questo non è ancora sufficiente per sciogliere lo scetticismo dei “realisti politici”, ma basti allora una constatazione: se non si pensa – di nuovo, kantianamente – che sia possibile un «progresso verso il meglio» (Kant, 1995b, p. 223) (non sappiamo quanto «costante» – ibid., –, ma questo è un altro problema), allora la vita dei primordi potrebbe rappresentare il non plus ultra. Non siamo, evidentemente, di questo avviso. Forse anche questa constatazione non basterà a convincere i “realisti politici” della possibilità di emancipazione dell’umanità, del suo elevarsi dallo stato – immediato – di natura (e già la vita che abbiamo portato ad esempio è continuamente contrassegnata da uno sforzo immane per superare uno stato “immediato”). Non è tuttavia nostro compito farli giungere a consapevolezza di una realtà. Procediamo oltre, allora, perché, seguendo Kant, abbiamo ben altri problemi.

Tre questioni

 

Gli articoli definitivi per la pace perpetua tra Stati convergono, mentre ne indicano la struttura, verso «un federalismo di liberi Stati» (Kant, 1995a, p. 173), la sola disposizione politica internazionale che ha in sé la capacità di impedire la guerra. Si tratta dell’esito di un lunghissimo e tormentato processo di unificazione politica del genere umano, nel segno di un’unità plurale (federale) e non monolitica. Le questioni che qui (fra le molte) intendiamo porre sono tre: (a) l’omogeneità politica degli Stati; (b) come si possono mettere in relazione gli Stati; (c) il ruolo dello «spirito commerciale» (presente nel Primo supplemento – ivi, p. 186) – un elemento importante della soluzione kantiana.

Sull’omogeneità politica degli Stati

Iniziamo da (a). Per Kant «la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana» (ivi, p. 169). Non possiamo qui inoltrarci sul significato, la portata e la differenza del repubblicanesimo di Kant rispetto al nostro modo attuale di concepirlo e sui problemi e le prospettive che l’impostazione kantiana comporta. Per noi, in questa sede, vale un punto: gli Stati devono avere un’omogeneità politica che consenta loro di avere uno stesso sistema politico a livello mondiale, declinato e organizzato, però, su scala nazionale. Ma oggi, se intendiamo iniziare a ragionare dalle condizioni attuali e non da quelle, indefinite, di un futuro che dovrebbe conformarsi ai nostri desideri, questa omogeneità politica non esiste e presumibilmente non esisterà per lungo tempo. Occorre prendere atto di una pluralità di sistemi politici (che siano da considerarsi giusti o meno è una questione che, in questa prospettiva, non ha rilevanza) che devono colloquiare e collaborare tra loro. Solo se si prende atto di questo si può impostare nel presente un discorso sulla pace. Se invece si insiste sul promuovere l’omogeneità che successivamente sarà il piano in cui realizzare la pace, il discorso sulla pace sarà spostato indefinitamente nel tempo e, anzi, l’impegno per conseguire questa omogeneità (in vista della pace) potrebbe condurre a guerre per ottenerla, e cioè a produrre il contrario della pace.

Kant, nell’indicare l’universalità del repubblicanesimo, non era certo un guerrafondaio: pensava invece che l’esempio della Francia rivoluzionaria si sarebbe esteso e che l’Antico Regime stesso, con le sue continue guerre di gabinetto, fosse uno degli ostacoli principali alla pace, e che quindi andasse inevitabilmente rimosso. Ma la storia successiva (la cui conoscenza non si può rimproverare a Kant per semplici motivi anagrafici) mostrava la difficoltà non solo di tale progetto (l’espansionismo rivoluzionario francese riservava non poco spazio ai propri interessi nazionali – in effetti questo fatto iniziava a manifestarsi anche quando Kant era in vita) ma anche di altri tentativi – l’esportazione della democrazia liberale (come se fosse una merce) o il soviet mondiale. Addentrarci sulla modalità in cui sarebbe possibile un’omogeneità politica internazionale e sul suo contenuto auspicabile ci distoglierebbe però da una questione attuale sulla quale non si può sorvolare: una qualsivoglia omogeneità politica a livello mondiale oggi non c’è ed è in questa situazione concreta che si deve pensare a una pace possibile da realizzare, da iniziare a costruire. A partire non dall’umanità di domani, ma dall’umanità di oggi.

Visto che quindi la situazione internazionale attuale è quella di una pluralità di sistemi politici, è questa pluralità che va messa in relazione perché da tempo non si tratta più di pluralità isolate. Se già nel 1795 Kant poteva scrivere che «ora, […] la comunanza (stretta o meno) ormai dovunque prevalente tra i popoli della Terra si è estesa a tal punto che la violenza del diritto compiuta in un punto della Terra viene percepita in tutti» (ivi, p. 179), oggi, in un mondo globalizzato, si è in grado di avere un quadro complessivo della politica a livello mondiale costituita, appunto, da una pluralità di sistemi politici già in connessione, anche solo potenziale. Questa connessione non è stabilita come una maglia continua e omogenea: esistono degli spazi geopolitici specifici in collisione, opposizione e competizione tra loro. È un mondo multipolare, a centralità multiple. Che gli Stati Uniti esercitino e conservino una posizione e un ruolo egemonico – posizione acquisita dopo la fine della guerra fredda – non significa e non comporta che non vi siano altri centri, altre potenze, la cui sfera di influenza non ha la portata statunitense ma la limita. Per gli Stati Uniti questa limitazione, questa resistenza, questo contenimento non sono graditi perché come potenza intendono esercitare influenza ed egemonia in maniera diretta o indiretta (attraverso un’importante rete di alleanze) a livello mondiale. Come abbiamo già affermato, non intendiamo qui affrontare la questione della desiderabilità o meno di questa egemonia (anche se abbiamo sostenuto che essa non è desiderabile per l’Europa), ma siamo interessati a impostare il problema a partire dall’obiettivo della pace: gli Stati Uniti non ne sono affatto garanzia, la loro gestione della politica internazionale in quanto leadership espande e aumenta di intensità la conflittualità internazionale. Questo è il punto, oggi, che chiama a riflettere su un cambio di direzione. Non nel senso di una nuova e diversa leadership, ma, più radicalmente, pensando che forse è proprio l’idea di una leadership mondiale a essere parte del problema e non a esserne la soluzione. Una potenza tale dovrebbe avere in sé carattere universale e capacità di confronto e di articolazione tale da comprendere, mantenendole, le diverse differenze che contraddistinguono gli altri Stati. Sarebbe una potenza nobilissima, ma forse, per lo meno nella situazione odierna, è chiedere troppo. Siamo di fronte a una pluralità di sistemi politici e a una molteplicità di centri: questo è il quadro reale, non un altro. Come si configurano e si organizzano questi centri? E come possono entrare in contatto tra loro senza collidere, soprattutto in caso di controversie?

Grandi spazi in relazione

Siamo così giunti a (b), avendo riconosciuto che è la disomogeneità politica degli Stati l’elemento con cui occorre lavorare per costruire, nella situazione attuale, la pace. Vi sono oggi diversi spazi geopolitici, grandi spazi, per riprendere un’immagine schmittiana. Per evitare che un’immagine scivoli in un’altra, dobbiamo subito precisare che il grande spazio schmittiano prefigura la situazione attuale ma non (aggiungiamo – fortunatamente) nella sua attuale configurazione. Ma andiamo con ordine per descrivere questa differenza.

Nel 1952, dopo la sconfitta della Germania nazionalsocialista e in un mondo che ormai si era diviso in due blocchi, Schmitt sosteneva, con estrema lucidità, che «così come la terra rimane più grande rispetto al dilemma posto dalla problematica dualistica, allo stesso modo la storia rimane più forte di qualsiasi filosofia della storia. È per questo che ritengo l’attuale dualità del mondo non un preludio alla sua unità, bensì un passaggio in direzione di una nuova pluralità» (Schmitt, 2015a, p. 285). Non condividiamo la particolare critica alla «filosofia della storia»[10], ma occorre riconoscere che, a partire dal suo punto di vista, dalle sue convinzioni, Schmitt aveva compreso perfettamente l’andamento del movimento storico a venire. Infatti, dopo una fase unipolare statunitense di cui possiamo osservare i risultati lungi dall’essere segno di un successo, la politica internazionale si è aperta in maniera multipolare (il che non risolve la questione della pace, né la complica – una sola superpotenza non ha certo avvicinato l’obiettivo della pace mondiale –, ma la pone su un piano strategico diverso). «Una nuova pluralità» è quella che vediamo oggi, «una nuova pluralità» di centri di potere.

Nel 1941, nel pieno del secondo conflitto mondiale, Schmitt proponeva un «ordinamento» di «grandi spazi nel diritto internazionale» (Schmitt, 2015b, p. 101). La proposta, come vedremo, è profondamente antikantiana (Kant è, a nostro avviso, uno dei grandi antagonisti di Schmitt[11]). Al posto di uno spazio – federale – universalistico del diritto, Schmitt pensa a «un ordinamento» mondiale di «grandi spazi» (ivi, p. 147) imperiali, cioè spazi di diritto autonomi, separati, localizzati. Per «imperi» egli intende «potenze egemoni, la cui idea politica s’irradia in un grande spazio determinato, e che per questo spazio escludono per principio gli interventi di potenze esterne. […] il grande spazio non si identifica con l’impero […] non ogni Stato od ogni popolo presente all’interno del grande spazio fa di per sé parte dell’impero, per lo stesso motivo per cui nessuno, pur riconoscendo la dottrina di Monroe, penserebbe di dichiarare il Brasile o l’Argentina parti integranti degli Stati Uniti d’America» (ibid.). I grandi spazi imperiali, quindi, sono spazi geopolitici egemonicamente organizzati intorno a una potenza imperiale e a Stati satellite. Si tratta di spazi chiusi: «Il nesso tra impero, grande spazio e principio del non intervento è fondamentale» (ibid.). Ogni idea di possibile spazio universale del diritto è negata da questa divisione costitutiva del mondo in spazi politico-giuridici chiusi. L’obiettivo è questo: «il compito della scienza del diritto internazionale tedesca è quello di individuare, tra la mera conservazione della tradizionale impostazione interstatale da una parte e lo slancio antistatale e antinazionale delle democrazie occidentali verso un diritto mondiale universalistico dall’altra, il concetto di un concreto ordinamento dei grandi spazi che sfugga a entrambe le opzioni e renda giustizia sia alle dimensioni spaziali della nostra attuale immagine della terra sia ai nostri nuovi concetti di Stato e di popolo. Per noi questo concetto può essere solo il concetto giuridico-internazionale di ‘impero’, inteso come un ordinamento di grandi spazi terrestri, dominato da idee e princìpi ideologici ben determinati, che esclude gli interventi di potenze estranee e ha come garante e custode un popolo all’altezza di questo compito» (ivi, p. 162), cioè, per quanto riguarda l’Europa, il popolo tedesco del Terzo Reich. Questo brano, ricchissimo di elementi che non possiamo qui commentare, è esemplare per noi per mettere in chiaro quale esito dell’attuale multipolarità (poi prefigurata perfettamente da Schmitt) non debba realizzarsi. È a nostro avviso insufficiente la considerazione che, una volta avviata la globalizzazione, essa non possa riconfigurarsi, arretrando, in un’attualizzazione dello scenario schmittiano. Anche se esso garantisse un equilibrio pacifico tra gli spazi imperiali, questo equilibrio sarebbe possibile solo sacrificando la subordinazione interna degli Stati non “egemoni”, e cioè il dominio e la violenza si eserciterebbero all’interno di ogni spazio localizzato. Il concetto universale di uomo (non a caso estraneo a Schmitt), la dignità e la libertà di ogni singolo individuo verrebbero così disconosciuti. Per Schmitt il nostro approccio sarebbe già foriero di “interventismi” in nome dei diritti umani e della pace. È – questa – una differenza essenziale e decisiva: se l’idea di pace perpetua, di libertà dei popoli, di diritti umani universali, di spazio universalistico del diritto può aver prodotto (e ha infatti prodotto e produce) conflitti su larga scala, questo suo effetto non inficia la validità dei principi, ma impone una diversa strategia per conseguirne la realizzazione. Del resto, è superfluo sottolineare che i grandi spazi imperiali (l’idea di fondo dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo) abbiano prodotto una guerra devastante di annientamento già al loro interno. Questo – perciò abbiamo riportato il lungo brano di Schmitt – deve essere tenuto costantemente presente nel momento in cui si riconosce (perché è una realtà) la molteplicità di centri e di spazi che caratterizza la situazione politica mondiale attuale. Si hanno perciò grandi spazi – e sono grandi spazi di egemonia – che non devono affatto avere o assumere carattere imperiale e chiudersi. Il compito di mantenerli aperti e di strutturare in maniera più efficace e costruttiva la spinta cosmopolitica[12] è responsabilità di organismi internazionali come l’Onu, che, oggi sempre più marginalizzata (e se ne possono constatare gli effetti), deve riacquisire (o finalmente acquisire) centralità[13]. Come questa centralità possa essere ottenuta è una delle questioni più importanti, principali, che deve impegnare la riflessione per una pace concreta[14]. Bollare l’Onu e altri organismi internazionali come inefficaci, incapaci, ininfluenti o come al servizio pressoché esclusivo degli Stati Uniti (accusa che eventi attuali escludono) non lascia, nel presente, a una diversa soluzione che non sia la riorganizzazione dei centri della multipolarità in spazi chiusi, con tutti i problemi che la storia ci ha mostrato chiaramente. Indulgere, poi, alla prospettiva che ogni Stato possa riacquisire centralità (e “sovranità”) una volta che le istituzioni internazionali siano indebolite fino alla dissoluzione de facto, è un’illusione senza appello: senza una solida base economica e militare, ogni Stato di questo tipo sarebbe incluso in uno spazio egemone, per di più chiuso. Occorre allora lavorare al rafforzamento di istituzioni internazionali perché siano indipendenti ed efficaci: queste caratteristiche possono produrre quella fiducia e trasparenza indispensabili per i rapporti interstatali. Occorre allora unire e unirsi anziché perseguire politiche di divisione e di separazione in spazi. Kant – e siamo al punto (c) – riteneva che un elemento di unione fosse lo «spirito commerciale». È opportuno, allora, farvi riferimento.

Spirito commerciale e pace

 

Un modo in cui «la natura […] unifica» i «popoli» (Kant, 1995a, p. 186) è lo «spirito commerciale, che non può coesistere con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo»[15]. Si tratta, a una lettura immediata, di un tema diffuso e ancor oggi presente, ma che si è rivelato essere illusorio: non di rado è proprio lo «spirito commerciale» a produrre guerre. Ma Kant si appellava effettivamente a uno «spirito commerciale» che potesse produrre effetti contrari alla pace oppure pensava a uno «spirito» ‘puramente’ «commerciale», volto a evitare la guerra in quanto essa rallenta o blocca gli scambi commerciali? Il discorso kantiano induce a guardare a questo «spirito» nella seconda declinazione. Infatti, se si tratta – come in effetti si tratta – di un’attitudine non compatibile con la guerra, allora questo «spirito» non può includere la guerra commerciale e tutti i suoi mezzi (blocchi, sanzioni, embarghi) che, come sappiamo, qualsivoglia ne siano le motivazioni, turbano un mercato proclamato a voce alta come libero e poi continuamente sottoposto a interventi “regolatori”. Senza condividere l’idea di un mercato assolutamente libero, che si autoregola, è possibile pensare a un mercato mondiale organizzato su regole comuni, discusse e stabilite attraverso modalità che coinvolgano tutti i soggetti interessati. Di nuovo, organismi di questo tipo non mancano, e un loro funzionamento non rispondente agli obiettivi della loro istituzione non è argomento sufficiente per un loro smantellamento, bensì per una loro riorganizzazione oppure per la fondazione – condivisa – di nuovi e più ampi e democratici organismi. Uno «spirito commerciale» che, non appena l’interesse particolare lo “richiede”, si rifugia in protezionismi e dazi, non è esattamente lo «spirito» individuato da Kant. Si può e si deve ragionare attentamente su questo punto, alla luce della situazione attuale, ma un fatto è certo: il mercato sarà un elemento delle nostre società presente ancora a lungo. Immaginare una pace che si svilupperà oltre il mercato e gli attriti e i conflitti che produce sposta solo la progettualità della pace in avanti, molto, troppo in avanti, quando invece occorre impostare realisticamente tale progettualità adesso, quando il mercato è una realtà importante, anzi – anche se può non piacere – forse la realtà più importante. Invece di sognare economie su piccola scala (in un mondo globalizzato) che possono funzionare, appunto, in quella dimensione e non incidono affatto sull’assetto internazionale del mercato (a meno che non si intenda organizzarsi in spazi limitati, chiusi, con i problemi che abbiamo delineato sopra), occorre saper rispondere all’attuale «spirito commerciale», rapace e guerrafondaio, con uno «spirito commerciale» di diversa impostazione, di ispirazione anche kantiana, volto a mettere in relazione gli Stati nel segno del vantaggio reciproco. Solo una regolamentazione internazionale, a questa altezza, può produrre questo effetto, ed è in tale direzione che occorre pensare a soluzioni efficaci.

Del resto, Marx ed Engels, nel Manifesto del partito comunista (un testo non certo celebrativo del libero mercato capitalistico), riconoscevano che «con lo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi» (Marx, Engels, 1999, p. 10). Questa sarebbe stata la base per portare a un livello ulteriore l’umanità, finalmente libera e unificata nel comunismo. Le cose sono andate diversamente. Ma per il nostro tema, il punto è un altro: è dalla fase in cui l’attuale società (capitalistica e non) si trova che occorre prendere le mosse in campo politico, economico, per la pace. Essa non è un ideale astratto che si realizzerà nel mondo a partire da un momento X, e perciò del tutto indeterminato. La pace – e la drammaticità degli eventi attuali lo conferma – va pensata, progettata e costruita oggi, a partire dalle condizioni attuali e non da condizioni ideali al momento inesistenti. Detto altrimenti, va costruita a partire dal riconoscimento della pluralità di sistemi politici e dal fatto che lo «spirito commerciale» esiste, è attivo più che mai e che occorre conferirgli l’indirizzo che Kant auspicava. Occorre rendere la guerra svantaggiosa per risolvere i conflitti e le controversie politiche ed economiche. Solo a livello internazionale – come Kant aveva indicato – questo compito può essere svolto nel segno della libertà, che è vera libertà se è fra uguali, fra pari.

Una pace possibile

È, questo, un compito immane, e che appare ancora più difficile quando le guerre e i conflitti si moltiplicano, ma, allora, è a maggior ragione irrinunciabile. Nella Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” Marx, a partire dal rapporto struttura/sovrastruttura, elaborava un principio di carattere generale: «l’umanità si pone sempre soltanto quei problemi che è in grado di risolvere, perché, a guardar bene, si troverà sempre che il problema stesso sorge solo dove e quando le condizioni materiali della sua soluzione sono già presenti, o almeno in processo di divenirlo» (Marx, 2009, p. 1013). Kant poteva scrivere, con realismo (né un’utopia, né l’anelito a un piano trascendente la realtà storico-politica), Per la pace perpetua perché la storia era giunta a una fase tale da poter concepire e riflettere su tale prospettiva. Non possiamo rinunciare a pensare e ad agire all’altezza del nostro tempo. Con la consapevolezza dello scarto fra pensiero e sua traduzione nella realtà – e quindi della continua correzione e attenzione, del continuo ristrutturare e ridiscutere teoria, prassi e il loro rapporto – e dello svolgersi del processo: prima di tradursi in realtà (a partire dalla realtà e con le difficoltà che abbiamo appena evidenziato), il pensiero vive nel proprio regno, nel proprio ambito anticipatore. Nel pensiero sorge una realtà progettualmente – e quindi dinamicamente – trasformata. È qui – in continuo scambio con i processi della realtà storica – che si pensa ciò che non c’è ancora, che si mette in discussione un mondo che intende presentarsi come immodificabile. E, insieme, i fatti anticipano il pensiero, lo incalzano, lo spiazzano con la loro imprevedibilità. Allora il pensiero vi risponde, deve procedere secondo il loro passo, al loro ritmo. In questo continuo rimando si costruisce la realtà politica e sociale, il mondo che si eleva oltre la natura immediata. La pace non risiede in questa immediatezza – al di qua della polis – ma si persegue attraverso l’incessante e faticoso lavoro di costruzione di rapporti politici, economici, sociali e giuridici più complessi, equilibrati, coerenti. Va costruita nel presente, decostruendo difficoltà e resistenze e insistendo sui margini, a volte minimi, che fendono la compattezza di un concatenarsi dei fatti che non è automatico. Questi margini, iniziando a invertire la tendenza degli avvenimenti, mostrandone l’interruzione, potrebbero rivelarsi decisivi.                            

         

    

                       

Riferimenti bibliografici

 

Glaser B.S., Chen Weiss J., Christensen Th.J. (2024), Taiwan and the True Sources of Deterrence. Why America Must Reassure, Not Just Threaten, China, in “Foreign Affairs”, Volume 103, Number 1, 2024, pp. 88-100.

Grimaldi G. (2015), Oltre le tempeste d’acciaio. Tecnica e modernità in Heidegger, Jünger, Schmitt, Roma, Carocci.

Grimaldi G. (2021), Uscire dalla “condizione naturale dell’umanità”: Hobbes, Kant, Hegel e la questione della pace mondiale, in “RTH – Research Trends in Humanities. Education & Philosophy”, 8 (2021), pp. 95-110.

Kagan R. (2003), Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano, Mondadori.

Kant I. (1995a), Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant (1795), in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, pp. 163-207.

Kant I. (1995b), Il conflitto delle facoltà in tre sezioni. Seconda sezione: il conflitto della facoltà filosofica con la giuridica. Riproposizione della domanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, pp. 223-239.

Losurdo D. (2007), Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant (1983), Napoli, Bibliopolis.

Losurdo D. (2016), Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Roma, Carocci.

Marx K. (2009), Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” (1857), in Id., Il capitale. Libro primo (1867), Torino, UTET, pp. 1011-1015.

Marx K., Engels F. (1999), Manifesto del partito comunista (1848), Roma-Bari, Laterza.  

Rich R. (2023), The United Nations as Leviathan. Global Governance in the Post-American World, Lanham, Hamilton Books.

Schmitt C. (1991), Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum» (1950), Milano, Adelphi.

Schmitt C. (2015a), L’unità del mondo (1952), in Id., Stato, grande spazio, nomos (1995), Milano, Adelphi, pp. 269-290.

Schmitt C. (2015b), L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze estranee. Un contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale (1941), in Id., Stato, grande spazio, nomos (1995), Milano, Adelphi, pp. 101-198.

 

[1] Che appiattisce due autori i quali, al di là delle differenze senza dubbio notevoli, condividono almeno due concetti di fondo, interrelati: 1) la fuoriuscita dallo stato di natura per 2) instaurare un ordine pacifico. Che quest’ordine in Hobbes non sia applicato su scala internazionale non ci esenta dal poter pensare in questa direzione attraverso le categorie del suo pensiero (lavoro che contraddistingue la proposta di Rich, 2023, riguardo l’Onu). Per un confronto fra Hobbes e Kant (e Hegel) ci permettiamo di rimandare a Grimaldi, 2021.

[2] Questo processo di autonomizzazione della sfera del diritto da quella della morale avviene in una prospettiva di lunga durata, e non sancisce affatto lo svanire della morale, ma solo l’ambito in cui essa agisce, lo spazio in cui è valida. Allo stesso modo l’autonomia della politica non equivale a una sua autonomia dalla morale, ma stabilisce un suo specifico spazio di azione, atto, fra l’altro, a mediare fra concezioni morali diverse, in conflitto fra loro, per costruire un’etica sociale condivisa, che nasce da un loro comporsi non come processo interno, ma come, appunto, risultato di un’azione politica.

[3] Su, in generale, Kant e la rivoluzione francese, vedi Losurdo, 2007; per un rilancio dell’idea di una pace perpetua alla luce di un bilancio critico che va da Kant al mondo contemporaneo (e che quindi comprende anche l’autorappresentazione del socialismo reale di cui abbiamo parlato), vedi Losurdo, 2016.  

[4] Kant a questo proposito specifica che, nel caso in cui uno Stato abbia perso la propria integrità, allora può essere lecito intervenire perché non si lede alcun diritto (lo Stato non c’è più) ma si contribuisce a uscire dall’«anarchia» (Kant, 1995a, p. 166), da intendersi qui come ricaduta nello stato di natura.  

[5] Naturalmente – precisiamo – tale «segret[ezza]» da rimuovere non può includere informazioni interne agli Stati quali quelle che riguardano temi di sicurezza nazionale.

[6] Per queste informazioni è consultabile il sito della Corte penale internazionale: https://www.icc-cpi.int/ .

[7] Ma non disinteressatamente e con l’obiettività con cui vorrebbe presentarsi al lettore, perché Schmitt intende sottoporre a critica chi ha criminalizzato la Germania per quanto compiuto nei due conflitti mondiali. Data la compromissione di Schmitt con il regime nazionalsocialista, la sua critica non è appunto, né disinteressata né obiettiva.

[8] Su questa espressione possiamo indicare un possibile approfondimento. Infatti per noi questa formula ha un valore positivo: al di là delle schematizzazioni che vedono opposte e inconciliabili la “fredda” ragione e l’impulso delle passioni, illuminismo e romanticismo possono indicare un’ampia modulazione del pensare e del sentire che, nel confluire e comporsi, produce esiti innovativi. Se rimaniamo fermi a un’opposizione netta fra illuminismo e romanticismo, ci restano incomprensibili figure come Friedrich Hölderlin, William Blake, Percy Bysshe Shelley, di certo non “illuministi” ma entusiasti dei movimenti rivoluzionari del loro tempo. Una riflessione su questo rapporto potrebbe essere d’aiuto nel momento in cui una razionalità separata dai sentimenti e dai corpi si scopre manchevole e scivola, per converso, nella celebrazione delle passioni e degli affetti. Anche il sentimento, invece, è un pensiero, quando viene colto come tale. Solo che la ragione non lo deve neutralizzare come altro da sé, ma comprenderlo in sé stessa nella sua differenza.  

[9] Ciò significa che va superato ogni residuo di quella violenza ancora presente nel diritto: pena di morte, tortura, la condizione di vita nelle carceri. Non sono residui marginali, c’è un immenso lavoro da fare, ma l’obiettivo del superamento della violenza si raggiunge non abolendo il diritto perché contiene – ancora – violenza, ma abolendo la violenza – ancora – contenuta nel diritto.

[10] Affrontare la questione ci porterebbe troppo distanti dal nostro tema.

[11] Su questo punto ci permettiamo di rimandare a Grimaldi, 2015, pp. 121-164.

[12] Utilizziamo questo termine kantiano perché questo è l’orizzonte ideale, dove il cosmopolitismo non è il dileguare delle differenze, ma un’unità differenziata (lo Stato su base nazionale resiste ed esisterà a lungo, ma è un prodotto storico e quindi non è verosimile pensarne la validità in ogni contesto futuro).

[13] L’attuale allargamento della Nato va esattamente nella direzione opposta.

[14] Quale forza potrebbe essere in grado di porre le condizioni per questa centralità? È improbabile che possa farlo una sola potenza: dovrebbe poi mettersi da parte e parificarsi di propria iniziativa. È, appunto, improbabile anche solo sperarlo. Potrebbe invece essere la forza di pressione di più centri che si coordinino e convergano secondo una volontà comune e che abbiano interesse a procedere in questa direzione o almeno (è lecito sperare) abbiano compreso che una situazione internazionale così instabile non solo non è vantaggiosa ma è pericolosa per tutti. In ogni caso è necessario riferirsi e ricorrere alla forza del diritto internazionale, non strumentalizzato da interessi particolaristici. Si tratta di un’azione e di un programma.  

[15] Per un approfondimento di questa argomentazione kantiana, cfr. Losurdo, 2016, pp. 45-48.

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