Angelo Calemme*
Premessa
Questo volume si presenta come la necessaria prosecuzione di una serie di ricerche, tanto scientifiche quanto politiche, maturate in un arco temporale compreso tra gli anni 2015 e 2017 nei contesti privilegiati di alcune tra le realtà culturali e civiche attualmente più attive nel nostro Paese, ovvero le città metropolitane di Napoli e Torino; quegli studi erano già confluiti, tra gennaio e febbraio del 2018, in un pamphlet, di carattere non solo polemico, ma anche e soprattutto critico, pubblicato per le edizioni della Casa Editrice Edisud di Salerno con l’ambizioso titolo Il popolo dei mezzogiorni uniti e l’Europa di Maastricht. Per un pensiero dell’integrazione.
Nonostante le difficoltà a cui qualsiasi casa editrice meridionale è soggetta in Italia, nel momento in cui intende immettere e distribuire autonomamente sul mercato nazionale i propri prodotti, il breve, ma denso, lavoro aveva ottenuto un discreto successo di pubblico e aveva spinto quella fascia di lettori simpatizzanti, attivisti, militanti del socialismo scientifico italiano, verso cui era stato espressamente rivolto, a riflettere sulle ragioni più recondite e sulle possibili soluzioni della crisi, non solo economica, ma anche e soprattutto politica e istituzionale, che da anni imperversa da un capo all’altro dell’Europa. In altre parole, il libretto era stato concepito come una cassetta degli attrezzi, essenziale e tuttavia fornita, per la ricostruzione degli effetti più importanti dei trattati istitutivi dell’Unione europea (Ue), per l’individuazione degli interessi sociali ad essi soggiacenti, e per l’approfondimento dei processi di dominio e spoliazione dei lavoratori che questi comportano. I passaggi cruciali del pamphlet evidenziavano allora i meccanismi operanti nascosti nel processo di integrazione europea e fornivano strumenti di comprensione teorica estremamente utili all’azione dei lavoratori che ancora oggi mancano delle cognizioni indispensabili per non subire, completamente disarmati, il coercitivo orientamento dell’attuale dibattito pubblico sull’Ue. Avevamo ragionato ad esempio sulla teoria dell’area valutaria ottimale (AVO), sulle connessioni con i dispositivi istituzionali e politici ad essa collegati, sulle cornici categoriali entro cui qualsiasi nuovo margine di innovazione politica, qualsiasi nuovo discorso predittivo e performativo sulla cosa pubblica, sembrano pericolosamente scomparire per effetto tanto delle politiche paranoiche quanto delle paranoie politiche[1]. Alcuni punti strettamente collegati a questi strumenti interpretativi, che per la loro efficacia analitica hanno attirato verso questo scritto anche l’interesse di alcune tra le più brillanti menti del panorama delle sinistre italiane, meritano in questa premessa un ulteriore approfondimento, non tanto per ricapitolare e tacitamente correggere presunti errori di valutazione, bensì perché, così facendo, ci sarà possibile più agevolmente esporre i tre pilastri speculativi sui quali le prossime pagine di questo nostro nuovo volume si reggeranno; su di essi proveremo a innalzare la fabbrica di una più audace riflessione che, sul superamento dialettico delle posizioni pubblicate nel 2018, vuole raggiungere esiti di ricerca ulteriori e più avanzati che sorpassino sia quei fisiologici impedimenti dovuti alla difficoltà delle materie da noi trattate sia quelle sclerosi provocate da un certo marxismo ortodosso che induce troppo spesso all’insipienza teoretica e all’inazione politica. Proveremo ad elencare i suddetti pilastri e a discuterli schematicamente per chiarezza espositiva, sebbene siano, come detto, organicamente connessi:
1) la questione del soggetto conflittuale che dovrebbe avere il ruolo egemone nella trasformazione sociale europea: questo è stato da noi individuato nel cosiddetto proletariato esterno[2], vale a dire tutti quei soggetti esterni allo sviluppo nelle diverse aree, regioni o, addirittura, intere nazioni, dei mezzogiorni europei sottoposti a processi di subordinazione coloniale ad opera dei centri produttivi. Questo punto è della massima importanza e, in quanto elemento portante della struttura teorica de Il popolo dei mezzogiorni uniti, coglie, il più chiaramente e brevemente possibile, come all’interno dell’Ue operi la tipica dinamica imperialista dello scambio ineguale tra centri e periferie che così funziona: creare colonie interne sottoposte a processi di desertificazione produttiva, di sottosviluppo indotto, di mezzogiornificazione economica, sociale e culturale, subordinate alla fornitura di prodotti semilavorati e componenti per le concentrazioni produttive del centro, tali da fungere da mercato di sbocco per merci e capitali, nonché da bacino di manodopera manuale e intellettuale a basso costo. In questo senso le analogie con i processi di annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna (1861), durante il Risorgimento, e della Repubblica democratica tedesca alla Repubblica federale di Germania, durante la Riunificazione (1990), sono esemplari e colgono in modo chiaro e distinto come la stessa dinamica presieda all’integrazione europea.
A partire da questi presupposti crediamo sia necessario approfondire ancor di più l’inchiesta economico-sociale e capire come in forme divergenti nelle diverse aree dell’Ue operino meccanismi complessi di drenaggio, indebitamento e subordinazione. Nel caso italiano, ad esempio, sembrerebbe che, oltre alla classica Questione meridionale, la quale continua ad essere ancora pienamente attuale, anzi l’integrazione europea ha aggravato la dipendenza coloniale del Mezzogiorno continentale e insulare dall’Italia del Centro-Nord (Toscopadana) e dalle filiere produttive dei centri dell’Europa continentale (primo tra tutti quello tedesco)[3], si stia delineando una Questione settentrionale[4]. In numerose aree della Toscopadana si verificano fenomeni di graduale e sistematico saccheggio di risorse nazionali (capitale e lavoro) in favore dei poli di accumulazione capitalistica transalpini, nonché manifestazioni di totale soggiogamento ideologico al Teorema di Maastricht[5] da parte di quei gruppi dirigenti e burocratici, conniventi con gli imperialisti colonizzatori e da questi dipendenti sul piano economico (stipendi, convenzioni mutualistiche, integrazioni alle rendite), che di fatto, per vincere senza rischi la lotta di classe, hanno rinunciato al vincolo interno della Costituzione e con ciò asservito il popolo della Repubblica italiana al vincolo esterno di istituzioni indipendenti e sovranazionali. In altre parole, numerose aree del Centro-Nord italiano sono divenute soggette in misura diversa a forme di decentramento, terziarizzazione, finanziarizzazione, deindustrializzazione, neocoloniale assoggettamento ai centri produttivi europei, non solo per ragioni esclusivamente socio-economiche, ma anche e soprattutto politiche e istituzionali, finalizzate al ripristino di equilibri di classe favorevoli alle borghesie nazionali. Il vincolo esterno ha però determinato l’estrazione dei surplus, il graduale impoverimento delle classi dirigenti, una repentina frammentazione e una trasformazione nella composizione di classe non solo nelle masse lavoratrici toscopadane e meridionali, ma anche e soprattutto nelle classi borghesi, dirigenti e/o burocratiche italiane. Un caso emblematico a noi vicino è la trasformazione produttiva, la ristrutturazione sociale e il disimpegno politico delle istituzioni pubbliche e private operanti nella città di Torino, dove al ridimensionamento del comprensorio industriale Fiat Mirafiori e alla crisi di tutta la produzione industriale dell’auto non è seguita alcuna riconversione di rilievo. Il punto quindi per noi da comprendere è: come oggi una soggettività politica conflittuale possa operare nei Sud continentale e insulare per una ricomposizione degli sfruttati che assistono forse al totale disfacimento, sicuramente al drastico ridimensionamento, di quel sistema assistenzialista di governo su cui fino al 1989 la Toscopadana ha retto il suo dominio sul Mezzogiorno, mentre le borghesie meridionali hanno mantenuto il controllo dell’economia legale sull’economia criminale; tutta questa riflessione non potrà però essere elaborata se non anche alla luce del processo dialettico di progressivo deterioramento delle condizioni materiali dei lavoratori del Centro-Nord e, in altri casi, addirittura, di parziale o totale espulsione di questi ultimi dal lavoro stabile e diffuso, frutto delle conquiste sociali del Novecento.
2) Strettamente connesso alla questione del soggetto sociale di riferimento è lo studio del progetto di trasformazione politica dell’Europa. Provando a fare un piccolo sforzo di immaginazione, ne Il popolo dei mezzogiorni uniti, avevamo cercato di ripensare politicamente la rifondazione economica e sociale dell’Ue rottamando l’Europa di Maastricht, ipotizzando cioè di poterla sostituire con un popolo federale e unificato a partire da un modello di internazionalismo tra i suoi mezzogiorni fondato sul lavoro. Passaggio imprescindibile a qualsiasi ipotesi che auspichi questo tipo di trasformazione politica e istituzionale dell’Europa di Maastricht è l’uscita dall’attuale modello di integrazione. Partendo da questo presupposto, Il popolo dei mezzogiorni uniti cercava allora, sulla base dei dati raccolti a proposito delle Questioni meridionali europee, di aderire il più possibile alle contingenze, cercando di produrre soluzioni predittive e performative applicabili. Le obiezioni possibili e condivisibili più autorevoli che sono state poste a un progetto politico di questo tipo sono state quelle facenti capo ad organizzazioni comuniste, contigue alla Rdc (Rete dei comunisti), quali Eurostop, USB (Unione Sindacale di Base) e Pap (Potere al popolo), raccolte nel libro di Luciano Vasapollo, edito anch’esso nel 2018, con il titolo PIGS. La vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea[6]. In quest’ultimo volume si descrive un’alternativa all’Unione europea nei termini di un’ALBA Euromediterranea. In una prospettiva del genere, secondo Vasapollo, non è detto che l’esito della confutazione e della rottura del Teorema di Maastricht debba essere necessariamente una rifondazione federale dell’Europa, ma al contrario potrebbe essere di tipo bolivariana, meglio ancora, interstatale: l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA) è un’organizzazione intergovernativa finalizzata alla solidarietà, alla cooperazione, alla complementarietà tra i diversi paesi dell’America meridionale e i paesi caraibici[7], promossa e inaugurata dal Venezuela e da Cuba nel 2004 in risposta all’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA). Un’alleanza bolivariana tra gli stati euro-mediterranei sarebbe allora per Vasapollo un progetto di integrazione economica, sociale e politica degli stati dell’Europa meridionale e mediterranea che, pur unificandoli, non li subordina a un organismo sovrano, costituzionale e transnazionale, di diritto pubblico. In altre parole, un’organizzazione interstatale di carattere economico, sociale e politico, di questo tipo, secondo l’autore di PIGS, si farebbe promotrice della realizzazione di riforme socio-economiche attraverso accordi commerciali, unioni doganali o valutarie, istituzioni internazionali, aderenti alle esigenze di sviluppo dei singoli popoli (e non delle politiche di mercato), tutelando l’indipendenza, l’autodeterminazione e l’identità delle nazioni che vi prendono parte. Un’ALBA Euromediterranea è, secondo il suo padre teorico, un’alternativa più radicale, sicura e flessibile, rispetto a quella di una federazione europea egemonizzata dall’internazionalismo dei proletariati esterni e rifondata da questi ultimi sul lavoro, anche perché non è detto, ovviamente, che i tempi dei diversi popoli europei coincidano in questo processo di rottura e di sganciamento dall’impero dell’Ue. Inoltre, dal punto di vista semantico, parlare di una rifondazione federale dell’Europa, secondo la prospettiva di Vasapollo, può condurre i nostri interlocutori ad una subalternità rispetto al discorso dominante, di matrice giuridico-politica, quasi come a voler considerare l’Ue una necessità storica ormai irreversibile. Non si può negare come la proposta di un’ALBA Euromediterranea sia abbastanza convincente, tuttavia essa si regge su una meravigliosa illusione, la stessa su cui si infransero i progetti rivoluzionari sia di Gaetano Salvemini sia di Antonio Gramsci, ovvero l’individuazione (errata) del soggetto sociale di riferimento «[nella possibilità di una] alleanza tra una plebe [proletariato esterno allo sviluppo europeo] ormai avvilita e una classe operaia [proletariato interno allo sviluppo europeo] sicura della sua forza».[8]
Provando a integrare criticamente e a oltrepassare dialetticamente sia le pecche del nostro modello per un popolo federale dei mezzogiorni uniti sia le idilliache illusioni di quello vasapolliano dell’ALBA Euromediterranea, il presente volume cercherà di elaborare una nuova teoria, capace di operare il compiuto rovesciamento dell’ordine del discorso dominante e di chiarire definitivamente come l’Ue non rappresenti una visione di progresso sociale, ma una prospettiva politica, istituzionale ed economica regressiva; essa, in quanto tale, rischia per le sue ambiguità di essere strumentalizzata come una riproposizione dell’Europa dei popoli, la quale, purtroppo, anche le sinistre socialdemocratiche e liberali europee, in definitiva conservatrici dello status quo, perseguono velleitariamente. Il nostro programma, fino a quando non compirà una totale epoché del discorso dominante, secondo Vasapollo, rischia di essere, tarizzianamente, fagocitato e forcluso in quello per una convenzione delle sinistre europee[9], organizzate, sulla base del Trattato di Shengen e del Diritto europeo, per l’ottenimento di un II Trattato di riforma dell’Unione europea che, successivamente e alternativamente a quello di Lisbona, stabilisca l’impegno da parte di tutti i paesi dell’Unione per una Costituzione europea, capace di mettere in piedi un’unitaria, pubblica e indipendente, politica di bilancio finalizzata a tutelare i diritti alla libertà, al lavoro e all’ospitalità nell’Ue, in soluzione antiautoritaria, antinazionalista e antixenofoba[10].
Ponendoci nella prospettiva il più possibile coerente con il metodo marxiano di indagine, oltre qualsiasi rischio di ambiguità e strumentalizzazioni, questo volume tenterà allora un nuovo atto di coraggiosa inventività, per riuscire a riflettere su qualcosa che appare rischioso anche solo a pensarlo, senza cadere in pregiudizievoli illusioni: le forze di rottura reali su cui insisteremo d’ora in avanti e da cui occorre ripartire per immaginare senza fantasticare, per supporre senza ipotizzare, rimangono, ancora una volta, alcuni mezzogiorni comunitari, ovvero quegli “anelli deboli” dell’Ue in grado di attivare un processo di reazione a catena che coinvolga le altre periferie coloniali del sistema imperialista europeo al fine di realizzarne finalmente tutta l’égalité: l’eguaglianza fra produttori, la piena occupazione e lo Stato funzionale[11]. I mezzogiorni a cui faremo riferimento per la costruzione di un’ALBA Mediterranea, però non dovranno essere confusi con quelli storicamente legati da secoli al blocco continentale europeo. La Toscopadana, ad esempio, nonostante sia recentemente divenuta una Questione settentrionale, rimane portatrice di interessi economici, politici, culturali, storicamente incompatibili con quelli dell’italico Mezzogiorno. All’interno di un ordine del discorso relativo a un’ALBA Mediterranea, con il termine di mezzogiorni vanno intesi soltanto quelle etnie, popoli e nazioni che non hanno più conosciuto prosperità, indipendenza e grandezza da quando hanno smesso di volgere risolutamente le spalle al blocco continentale europeo, da quando cioè sono state costrette artificiosamente a non poter più vivere, e lavorare col viso ficcato nel Mediterraneo. E infatti, come è stato detto e dimostrato da Carlo Scarfoglio, nel caso del Mezzogiorno italiano:
«Non appena, attraverso il tramite peninsulare, [esso] è stato unito al blocco continentale europeo, la sua vis economica, la sua stessa forza vitale, è stata aspirata ed esso ha vissuto di una vita sempre più povera e languida, come un membro escluso dalla circolazione sanguigna, fino a giungere assai vicino alla morte vera e propria. Ora la politica [tanto dell’unità italiana quanto dell’unità europea] non gli prepara altro; il Mediterraneo chiuso, nelle mani dei vecchi e nuovi padroni, esso stesso saldato, attraverso il tramite peninsulare, ad un blocco politico-economico che gli è assolutamente estraneo, col quale non ha né affari né interessi […]»[12].
3) In conclusione, diversamente da quanto operato ne Il popolo dei mezzogiorni uniti, la nostra riflessione si giocherà prevalentemente nell’intersezione di due piani distinti: un piano particolare, relativo alla specifica storia di subordinazione economica, sociale, politica, e alle specifiche esigenze di emancipazione dell’Italia meridionale nel contesto dell’unificazione della penisola italiana, uno generale, relativo alle dinamiche di subordinazione tra stati-membri nel contesto dell’unificazione europea. In altre parole, lavoreremo sviluppando le condizioni teoriche sulle quali sarà possibile, con un tollerabile margine di approssimazione scientifica, dimostrare che il modello eversivo del “compromesso federale”, cosiddetto separatista rivoluzionario, e l’integrazione socialista, complementare e cooperativa, di mercato con gli altri popoli mediterranei:
«Non solo non mortificano l’economia meridionale, considerata come un complesso, ma che al contrario la risveglino con sorprendente prontezza, suscitando le forze addormentate, provocan[d]o le iniziative, e soprattutto, […] obbligan[dola] a formarsi in un sistema internamente armonico e razionale. [Tutto questo] non può avvenire quando l’economia meridionale è formata solo di appendici di economie esterne, che nel Mediterraneo trovano soltanto la loro terminazione e il completamento»[13].
Dall’altra parte presenteremo un’analisi essenziale dei più importanti trattati istitutivi dell’Ue, descrivendone l’ispirazione retroagente l’integrazione europea, ed evidenziandone le ragioni ideologiche e strutturali profonde. Le politiche economiche neomercantilistiche, orientate all’esportazione, e che comportano la compressione del mercato interno con relativa deflazione salariale e regressione sociale, non sono infatti il frutto di scelte politiche errate, ma effetti discendenti dai principi dell’ideologia politica su cui si fondano tutti i trattati europei: il neo-liberalismo. La produzione dello spazio europeo ha inizio nel secondo dopoguerra, ma il passaggio effettivo dal modello delle comunità europee a quello dell’unità europea avvenne di fatto solo con la caduta del campo socialista sovietico e la fine dell’equilibrio bipolare. In quella fase storica il Trattato di Maastricht profila quanto già però era previsto dai trattati precedenti e cioè l’opzione dell’Ue, la quale, in quanto evoluzione della Comunità europea, si è sempre concepita come soggetto in grado di competere nella conquista capitalistica dei mercati, internazionali prima e globalizzati poi. Alla radice della “concorrenza rafforzata” all’interno dell’Ue, a fondamento del Teorema di Maastricht (come tra aree geopolitiche nel ventennio della globalizzazione, dal 1989 alla crisi del 2008), c’è la necessità in Europa, sia al suo interno sia al suo esterno, di mercati di sbocco per i sistemi produttivi nazionali più competitivi in una condizione di rendimenti decrescenti dei profitti e di eccesso di capacità produttiva, che si è ormai palesata nelle economie capitaliste occidentali a partire dagli anni ’70, quando cioè il ciclo espansivo postbellico si era ormai esaurito. Il Teorema di Maastricht e il neoliberalismo dominante rispondono a questa tendenza e, per ritornare al secondo punto di questa premessa, non sarà più possibile di fronte a uno scenario di questo tipo presupporre una rifondazione, popolare, federale e democratica dell’Europa, quanto invece uno sganciamento, una separazione rivoluzionaria e socialista dei mezzogiorni da un modello sovranazionale, come quello dell’Ue, che produce disuguaglianze, disoccupazione e ilotismo.
Introduzione
Nonostante siano passati ormai più di trent’anni dall’ultima volta che la Questione meridionale sia stata sentita, nel bene o nel male, come una priorità di livello nazionale dalle agende politiche di questo Paese[14], al contrario all’estero leggiamo sempre più spesso sui principali media di informazione e sulla letteratura scientifica di settore, come la comparsa in Europa di sempre nuove desertificazioni economiche, meridionalizzazioni politiche, mezzogiornificazioni sociali, morali e culturali di interi stati o parti di questi, a cui dunque fanno seguito nuove questioni, meridionali e/o settentrionali, costituisce la vera e più profonda ragione per la quale il processo di integrazione dei paesi membri dell’Ue stenta ancora a decollare. Il sorgere di sempre nuove questioni europee nell’orizzonte di sviluppo dell’Unione non è però effetto di un fenomeno casuale (naturale), bensì tutt’altro: se nel processo di integrazione europea i cittadini dell’Unione continuano ancora oggi ad essere sprovvisti di una Carta fondamentale, oppure, se per il cosiddetto mercato unico manca ancora, dopo più di vent’anni dall’entrata in vigore dell’AVO, una soggettività politica costituente, capace, a partire da una propria volontà generale e attraverso proprie istituzioni pubbliche e sovrane, di regolamentarlo e sovraintenderlo per il bene del consorzio sociale, tutto ciò è conseguente solo ed esclusivamente a una ben precisa e perversa logica da ricondurre alle istituzioni create dai trattati istitutivi dell’Ue, che fanno sì che i capitalismi nazionali più competitivi, le economie più dinamiche dal punto di vista concorrenziale, come libere volpi in un pollaio incustodito, non possano non fare razzia dei risparmi e del lavoro altrui: instaurando con ciò sempre nuovi scambi ineguali, gli stati-membri dell’unità europea sfruttano il sottosviluppo indotto di alcuni per il proprio sviluppo parassitario.
In ultima istanza, quindi, se la Questione meridionale italiana sembra essere ormai del tutto scomparsa dalle cornici categoriali delle nostre classi dirigenti[15] o dagli striscioni di quei movimenti di turno, più o meno extraparlamentari, che ad un certo punto sempre sorgono sull’orizzonte della nostra società, pretendendo di poter rivendicare per sé stessi il potere del popolo per il popolo, o, ancora, se alla Questione meridionale smettono di fare allusione perfino gli stessi articoli della nostra Costituzione, mentre invece all’estero accade esattamente l’opposto, ciò sembrerebbe allora avvenire, per quella singolare, atavica e deleteria tendenza delle classi dirigenti di affidarsi ad un vincolo esterno per risolvere la lotta di classe pur di evitare di essere costrette ancora una volta ad uno scontro frontale con le classi subalterne dal quale non è per nulla data per certa una loro nuova vittoria.
Convenzionalmente, si è soliti ritenere che la locuzione di Questione meridionale compaia per la prima volta nella storia a partire dagli anni ’70 del XIX secolo e precisamente nell’intervento parlamentare, datato 1873, del lombardo Antonio Billia, deputato della sinistra radicale nella XI legislatura del Regno d’Italia: quest’ultimo coniò l’espressione di «Questione meridionale»[16], riferendosi allo stato di persistente arretratezza economica e sociale in cui il Mezzogiorno versava negli anni della prima industrializzazione dell’Italia centro-settentrionale. Tra i primi e più importanti studi sulla Questione meridionale ricordiamo quelli dei meridionalisti Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti De Marco, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, i quali ebbero modo, con più o meno coerenza rispetto a quella dimostrata dagli importanti e tuttavia dimenticati discorsi e inchieste parlamentari del 20 novembre 1861 dell’onorevole Noto[17] e del 1866, 1867-1868 dell’onorevole e ex direttore del Banco di Napoli Michele Avitabile[18], di indagare approfonditamente e per esteso sui fatti all’origine del fenomeno, eleggendo la Questione, il Problema, meridionale come una priorità per l’Italia risorgimentale.
Secondo le diverse generazioni di storici, politici, economisti, meridionalisti, che, indipendentemente dalle loro scelte ideologiche, si sono interessati di Questione meridionale, a cavallo tra i due secoli XIX e XX, il Regno d’Italia non riuscì mai a compiutamente unificarsi, ma anzi si caratterizzò sempre più come una pura invenzione politica, letteraria o linguistica, dunque astratta e formale, priva di qualsiasi consistenza reale, di alcun concreto anelito per l’integrazione economica e sociale degli italiani, un mercato nazionale scisso in sé stesso, dis-unito in un’Italia centro-settentrionale soggettivata o sviluppata e in un’Italia meridionale e insulare depressa o sottosviluppata. Se per alcuni, come Fortunato, ciò dipese da storiche e geografiche carenze dei meridionali[19], da anomalie e atavismi etnologici, per altri, come Salvemini e Nitti, fu causato dall’instaurazione nello Stato unitario di uno scambio ineguale tra mercati macroregionali, per cui il Mezzogiorno, ad un certo punto, vide seguire in politica, in dogana, in finanza, in amministrazione, gli indirizzi più opposti ai propri interessi produttivi e finanziari.
«I debiti furono fusi incondizionatamente e nel 1862 fu unificato il sistema tributario ch’era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che avevano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l’asse della finanza. Gl’impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po»[20].
Punto di non ritorno di questo mercimonio tra potere esecutivo, maggioranze parlamentari, borghesie centro-settentrionali e meridionali, di tutta la serie di politiche che dal 1861 in poi letteralmente drenarono le ricchezze, frutto di decenni di accumulazione borbonica, dal Meridione continentale e insulare al Centro-Nord, furono le politiche protezionistiche adottate nel 1887 dall’VIII governo Depretis, le quali assicurarono sì la svolta per il primo processo di industrializzazione dell’area toscopadana, ma anche il rispettivo, sistemico e inesorabile collasso dell’economia del Sud. Se per Salvemini questo sviluppo ineguale fu completamente ingiusto e degno di essere rovesciato da una rivoluzione democratica dal basso, ovverosia, una volta ottenuto il suffragio universale maschile, da una nuova classe dirigente, frutto dell’alleanza tra operai del Centro-Nord e braccianti del Sud, capace di contrastare il blocco di potere agrario-industriale, per Nitti, dopo una prima fase liberista durante la quale fu favorevole alle esportazioni agricole meridionali, il sacrificio dell’economia meridionale in favore del resto d’Italia fu tutto sommato un atto dovuto e addirittura del tutto necessario, al fine di consentire un più veloce ingresso dell’Italia nel consesso internazionale delle grandi potenze industriali; tuttavia quest’ultimo sacrificio, avrebbe dovuto essere solo un processo temporaneo, reversibile grazie ad interventi correttivi straordinari che, una volta diversificate le politiche di sviluppo in base alle diverse esigenze dei territori, avrebbero consentito un graduale e convergente riallineamento del mercato meridionale al resto del Paese. La reindustrializzazione del Sud avrebbe dovuto allora avvenire a industrializzazione del Centro-Nord già avviata e in coincidenza con la sistematica elettrificazione dei sistemi produttivi e di una più ricca e razionale ripartizione delle risorse. È ovviamente inutile dire che le stesse legislazioni speciali per il Mezzogiorno, sia quelle giolittiane del 1904 (curate in gran parte dallo stesso Nitti) sia quelle repubblicane (dalla Legge Sila del 4 Maggio 1950 a quelle successive ai Moti di Reggio del 1970-71), non ripagarono mai il Sud del sacrificio sostenuto a beneficio esclusivo di regioni una volta arretrate come il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto e la Toscana[21]; ma se tutto ciò avvenne, contrariamente a quanto ancora si sostiene, lo si dovette non soltanto all’abbandono da parte del PCI del progetto di una rivoluzione socialista nell’Italia del secondo dopoguerra, ma anche e soprattutto all’errore di valutazione in cui caddero sin dall’Ottocento uomini come Salvemini e Gramsci a proposito del dualismo economico-politico italiano.
«La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando sé stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno a sua volta, della solidarietà dei contadini che ha interesse acchè il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acchè l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini; impedirà che più oltre l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle casseforti. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche il proletariato rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà delle masse contadine; perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno»[22].
Per Gramsci, teoricamente e de facto, indipendentemente dall’incompiuta unificazione italiana, quindi dando per scontato una sostanziale uniformità e compattezza di interessi tra i due proletariati della Penisola, assecondando un puro (e non marxista) ragionamento per analogia tra la situazione italiana e quella della Rivoluzione francese[23], sarebbe stato possibile emancipare tutti gli italiani del lavoro (gli operai del Centro-Nord e i contadini del Sud).
«L’alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione: tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri […]»[24].
Mai nessuna teoria prima di allora fu più raffinata quanto quella di Gramsci, eppure mai nessuna filosofia politica precedente ebbe effetti così disastrosi per la fiducia delle masse nel successo ultimo o comunista della lotta di classe. La teoria di Gramsci era perfetta, un’opera d’arte, sublime, un trionfo per il marxismo italiano, eguagliato soltanto dal suo monumentale fallimento. L’inevitabilità del suo destino ci è ormai evidente quale conseguenza dell’imperfezione intrinseca della sua analisi storico-politica e cioè quella che considerò lavoratori così diversi dal punto di vista materiale sufficientemente omogenei da essere assimilabili a un’unica classe lavoratrice nazionale, impegnata su di un unico fronte proletario di lotta. Le masse contadine meridionali perciò, una volta estromesse di fatto dalla lotta di classe da parte dell’egemonia operaia delle grandi concentrazioni industriali del Centro-Nord e una volta represse nel loro sogno di emancipazione sociale, prima dal PSI e poi dal PCI, non ebbero modo alcuno di contribuire in misura determinante all’orientamento della politica economica nazionale, tanto di quella monarchica quanto di quella repubblicana, affinché lo Stato centrale emancipasse finalmente, con un impegno costante e diffuso, il Meridione dal sistema del sottosviluppo indotto, voluto e guidato sin dal 1861 dalle borghesie toscopadane.
Di questa realtà, e cioè dell’esistenza di due tipi diversi di proletariato in Italia, astrattamente uniti, ma materialmente divisi, e quindi della necessità di elaborare differenti percorsi, teorico-pratici, rivoluzionari a partire da soggetti politici nuovi, capaci di valorizzare e non negare le contraddizioni, fu consapevole soprattutto, se non soltanto, un gramsciano calabrese, Nicola Zitara, che vivendo in prima persona il declino economico della sua terra, ebbe modo di divenire il padre indiscusso del revisionismo storico prima e il fondatore del socialismo di mercato poi[25].
Nel solco tracciato da quest’ultimo, la ragione di questo nostro volume diviene operativa nell’applicazione degli strumenti metodologici maturati da Marx nelle sue due Storie critiche fondamentali ̶ quelle della tecnologia scientifica industriale e dell’economia politica capitalistica ̶ ad una ulteriore e sempre più profonda, complessa e rigorosa analisi dei processi di unificazione italiana ed europea, rivelatisi in ultima istanza come pure invenzioni politiche, ideologiche, maturate da una determinata serie di popoli-classi ai danni di altri[26]. Come è accaduto in passato, attualmente nessuna organizzazione sindacale, alcun movimento o partito politico delle sinistre, italiana ed europea, hanno mai dimostrato nei fatti di cogliere realmente gli interessi delle periferie dello sviluppo capitalistico europeo oppure, quando lo hanno fatto, giustamente, non hanno potuto servire due altari. L’inconciliabilità degli interessi del proletariato centro-settentrionale con quelli del proletariato meridionale hanno allora assecondato e cronicizzato, sia in teoria sia in pratica, la realtà tipica dei lavoratori colonizzati: esterni al lavoro, alla classe, al popolo, allo Stato-nazione[27].
Al fine di salvaguardare gli interessi prevalenti della metropolis, questi sinistri sindacati, movimenti, partiti, delle sinistre italiane ed europee, hanno dimostrato in più occasioni di non voler alcuna integrazione, figurarsi una rivoluzione sociale, una universale emancipazione. In alternativa all’egoismo, all’ipocrisia e alle più disparate ortodossie di questi ultimi, il nostro lavoro si strutturerà quindi in tre sezioni: nella prima sezione ricostruiremo la storia della Questione meridionale italiana, rovesceremo criticamente le principali interpretazioni offerte dai Meridionalismi classici e contemporanei, opereremo una genealogia dei pregiudizi o delle pretestuosità che tramano la storiografia sulla Questione meridionale; essa sarà articolata in due capitoli così scanditi: 1) l’analisi di quell’ingente patrimonio intellettuale del primo illuminismo napoletano che nella scienza galileiano-newtoniana, nelle sue dirompenti implicazioni religiose e filosofiche, fece della tecnologia scientifica applicata all’economia un efficace strumento di propaganda per la trasformazione istituzionale e sociale del Regno[28]; un focus privilegiato verrà poi dedicato all’impegno culturale delle scuole fisico-matematiche meridionali che in epoca borbonica sono state tra le principali responsabili non solo del rinnovamento scientifico-tecnico delle istituzioni scolastiche, universitarie, tecniche, professionali e accademiche, ma anche e soprattutto dello sviluppo produttivo di alcune delle applicazioni pratiche delle scienze fisico-matematiche, più o meno strategiche per l’avviamento di un’economia sviluppata, che consentirono successivamente, soprattutto tra gli anni Venti e Cinquanta dell’Ottocento, l’avvio di un processo di prima industrializzazione meridionale. 2) Entreremo più nel merito di una Critica dell’Economia politica meridionale sia borbonica sia post-unitaria o toscopadana.
Nella seconda sezione del nostro volume affronteremo invece la Questione meridionale nel più ampio contesto dell’Ue, alla luce di una critica delle ragioni reali che informano i trattati istitutivi comunitari prima e dell’Ue poi, di cui la comparsa della Questione settentrionale è un effetto indiretto.
Nella terza e ultima sezione tenteremo di abbozzare i lineamenti per una teoria politica, meridionalista e scientifica, del socialismo di mercato che, sia oltre la resistenza passiva o riformista sia oltre le «chiacchiere fasciste di Sorel»[29], riscoprano la violenza organizzata e di massa come l’unica e reale levatrice della storia meridionale italiana.
* Premessa e Introduzione da: A. Calemme, La questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea.
Contributo alla teoria del socialismo di mercato, Guida Editori, Napoli, 2023.
[1] D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 79-81.
[2] N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaca Book, Milano, 1972.
[3] Attualmente la Germania è il primo paese in Europa per accumulazione capitalistica e di quest’ultimo primato traggono vantaggi solo i suoi paesi o sub-paesi satelliti, cioè i sistemi produttivi nazionali o subnazionali che per le loro caratteristiche sono stati in varie forme e modalità facilmente subordinati e aggregati al sistema produttivo tedesco: tra questi si ricordano il gruppo Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e paesi come l’Austria, il Belgio, i Paesi Bassi, la Danimarca, l’Italia centro-settentrionale.
[4] G. Berta (a cura di), La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, Feltrinelli, Milano, 2008.
[5] D. Tarizzo, Il Teorema di Maastricht e la sua confutazione, http://www.sinistrainrete.info/europa/4891-davide-tarizzo-il-teorema-di-maastricht-e-la-sua-confutazione.html, 24 marzo 2015. Fenomeno dipendente dal Teorema di Maastricht è l’etno-federalismo politico della Lega Nord, di cui la recente proposta di legge allo Stato centrale di regioni come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna per l’autonomia regionale differenziata è un’applicazione possibile. L’autonomia regionale differenziata sostituisce infatti i principi di coesione sociale e territoriale della Costituzione italiana con quelli di competitività e libera concorrenza del Trattato di Maastricht, i quali elevano di fatto le diseguaglianze di risorse tra regioni a elementi propulsivi e regolatori dello sviluppo del mercato nazionale.
[6] Segnaliamo come nel titolo PIGS. La vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea il più tradizionale acronimo PIIGS, presente invece ne Il risveglio dei maiali. PIIGS. Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna, titolo del volume pubblicato nel 2011 dal medesimo autore, in collaborazione con R. Martufi e J. Arriola, abbia perso una “I”, l’iniziale maiuscola riferita all’Irlanda. Non si comprende in base a quale condivisibile ragione Vasapollo abbia escluso dal programma del 2018 solo l’Irlanda e non anche il Portogallo e la Spagna, paesi questi (facendo forse eccezione soltanto per l’Aragona) storicamente legati ad interessi euro-atlantici.
[7] A partire dal 2018 i paesi membri dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America sono Antigua e Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominica, Grenada, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Venezuela.
[8] N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaca Book, Milano, 1972, p. 95; le parentesi quadre sono nostre.
[9] D. Tarizzo, Il Teorema di Maastricht e la sua confutazione, http://www.sinistrainrete.info/europa/4891-davide-tarizzo-il-teorema-di-maastricht-e-la-sua-confutazione.html, 24 marzo 2015.
[10] Tarizzo prima o poi dovrà spiegare meglio cosa intenda con il principio della tutela dell’ospitalità, in quanto la libera circolazione delle persone non è un argomento del tutto neutro, anzi esso può implicare anche la libera circolazione dei capitali che, in questa fase storica, non è certo un diritto compatibile con quello del lavoro: le emigrazioni incontrollate da aree arretrate o sottosviluppate verso regioni sviluppate non sono sempre concordi con la tutela del diritto al lavoro e alla libertà; ovverosia la tutela dell’ospitalità dovrà sì agevolare gli scambi economici e culturali, ma non dovrà di certo incentivare fenomeni incontrollati di spopolamento di alcuni paesi o macroregioni, i quali sono e rimangono uno dei maggiori ordigni di disintegrazione europea che il Teorema di Maastricht stesso strumentalizza con il fine di indurre le classi dirigenti e le tecnocrazie ad abbattere qualsiasi tipo di tutela del lavoro e dello Stato sociale.
[11] N. Zitara, Negare la negazione. Introduzione al Separatismo Rivoluzionario, Città del Sole, Reggio Calabria, 2001, pp. 104-158.
[12] C. Scarfoglio, Il Mezzogiorno e l’Unità d’Italia, Parenti, Bologna, 1953, pp. 460-461; le parentesi quadre sono nostre.
[13] Ivi, p. 168; le parentesi quadre sono nostre.
[14] «Ma noi lumbard non vogliamo la rottura dello Stato italiano […]» (M.F., La Repubblica, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/05/03/ma-noi-lumbard-non-vogliamo-la-rottura.html, 3 Maggio 1990).
[15] R. Biorcio, La Padania promessa, Il Saggiatore, Milano 1997.
[16] S.F. Romano, Storia della questione meridionale, Edizioni Pantea, 1945, p. 42.
[17] F. Noto, Intervento parlamentare del 20 novembre 1861, in A. Calemme, Il popolo dei mezzogiorni uniti e l’Europa di Maastricht. Per un pensiero dell’integrazione, Edisud, Salerno, 2018, p. 53, n. 99.
[18] M. Avitabile, Discorso parlamentare [novembre 1866], in M.E. Capecelatro, C.A. Capecelatro, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, Savelli, 1975, e in Camera dei Deputati, Relazione della Commissione d’inchiesta intorno al Corso Forzoso della carta moneta, Legislatura X, Sessione 1867-68, Raccolta dei documenti stampati, VI-215, Eredi Botta, Firenze, 1869 (tipograficamente, voll. I e III); Id., Intervento alla Commissione d’inchiesta intorno al Corso Forzoso della carta moneta, in Camera dei Deputati, Relazione della Commissione d’inchiesta intorno al Corso Forzoso della carta moneta, Legislatura X, Sessione 1867-68, Raccolta dei documenti stampati, VII, Eredi Botta, Firenze, 1869 (tipograficamente, II).
[19] «Io credo che il problema sociale delle isole come in tutto il Mezzogiorno è “il problema della miseria” […] sono regioni in grandissima parte non così naturalmente fertili, come si immagina, per condizioni difficilissime di clima e suolo, né suscettibili di altra produzione al di fuori di quella agricola» (G. Fortunato, Le Regioni, 1896, in R. Villari, Il Sud nella Storia d’Italia. Antologia della Questione meridionale, Laterza, Roma-Bari, 1981, pp. 245-246); nella sua opera Fortunato si limita a rielaborare una pura immagine letteraria del Sud, filiazione diretta delle teorie climatiche del Settecento. Per una genealogia di queste tradizioni si vedano E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente [1978], Feltrinelli, Milano, 2001; M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione: rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998; N. Moe, Representing the South in the Risorgimento, c. 1825-1861, in Id., The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2002, pp. 85-125, 106-111, 156-183;.
[20] F.S. Nitti., L’Italia all’alba del secolo XX, Casa editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p. 118.
[21] «Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la Penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non aveva quasi che agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini» (F. S. Nitti, Nord e Sud. Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia, Roux e Viarengo, Torino, 1900, p. 2).
[22] A. Gramsci, Alcuni temi della Questione meridionale, S.l.: s.n., 1935?!, Francia, pp. 3-4.
[23] A. Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, 1955, pp. 81ss.
[24] A. Gramsci, Alcuni temi della Questione meridionale, S.l.: s.n., 1935?!, Francia, p. 24.
[25] N. Zitara, Memorie di quand’ero italiano [1994], Città del Sole, Reggio Calabria, 2013, pp. 232-234.
[26] N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaca Book, Milano, 1972, p. 95.
[27] Ibidem.
[28] Si veda P. Casini, D’Alembert epistemologo, in ‘Rivista critica di Storia della filosofia’, I, 1965, pp. 28-53.
[29] J.-P. Sartre, Préface, in F. Fanon, Les damnés de la terre, François Maspero éditeur, 1961; tr. it. I dannati della terra, a cura di C. Cignetti, Einaudi, Torino, 1962, 1972, p. XIII.