Jacques Pauwels
Il mito: La guerra in Estremo Oriente terminò solamente nell’estate del 1945, quando il presidente americano e i suoi consiglieri si convinsero che, per costringere i fanatici giapponesi ad arrendersi senza condizioni, non avevano altra scelta che distruggere non una, ma due città, Hiroshima e Nagasaki, con bombe atomiche. Questa decisione salvò la vita di innumerevoli americani e giapponesi che sarebbero periti se la guerra fosse continuata e avesse comportato l’invasione del Giappone.
La realtà: Hiroshima e Nagasaki vennero distrutte per prevenire il contributo sovietico alla vittoria contro il Giappone che avrebbe costretto Washington a consentire la partecipazione di Mosca all’occupazione e ricostruzione postbellica del paese. C’era anche l’intenzione di intimidire la dirigenza sovietica per strapparle concessioni nell’assetto che si sarebbe dato nel post-conflitto a Germania ed Europa Orientale. E per finire, non fu la distruzione di Hiroshima e Nagasaki, ma l’entrata in guerra contro il Giappone dell’Unione Sovietica che portò Tokio ad arrendersi.
Con la capitolazione della Germania ai primi di maggio del 1945, la guerra in Europa era conclusa. I vincitori, i Tre Grandi[1], avevano ora davanti il problema delicato e complesso della riorganizzazione postbellica del vecchio continente. L’ingresso in guerra degli Stati Uniti, nel dicembre 1941, era stato piuttosto tardivo e un loro importante contributo alla vittoria contro la Germania era arrivato solamente con lo sbarco in Normandia nel giugno del 1944, più o meno un anno prima del termine delle ostilità in Europa. Al termine della guerra alla Germania, comunque, lo Zio Sam occupò un posto di rilievo al tavolo dei vincitori, risoluto e impaziente di perseguire i propri interessi e raggiungere quelli che si potrebbero chiamare gli obiettivi che gli americani si erano proposti con l’ingresso nel conflitto. (È una leggenda che il radicato isolazionismo degli americani mirasse solo al ritiro dall’Europa : i dirigenti politici, economici e militari avevano stringenti motivi per mantenere una presenza nel vecchio continente.) Anche le altre due grandi potenze vincitrici, Gran Bretagna e Unione Sovietica, naturalmente puntavano a perseguire i loro interessi. Era chiaro che sarebbe stato impossibile per uno dei tre “avere tutto” e che, invece, si dovevano raggiungere dei compromessi. Dal punto di vista degli americani, le aspettative britanniche non costituivano un grosso problema, quelle sovietiche, invece, preoccupavano. Quali erano le aspirazioni sovietiche ?
In quanto paese che aveva dato di gran lunga il più grosso contributo alla comune vittoria sulla Germania nazista e aveva subito in questa lotta perdite ingentissime, l’Unione Sovietica aveva due importanti obiettivi. Primo, ottenere dalla Germania considerevoli pagamenti riparatori a compensazione delle imponenti distruzioni provocate dall’aggressione nazista, una richiesta analoga a quella fatta al Reich da Francia e Belgio al termine della Prima Guerra Mondiale. Secondo, sicurezza contro potenziali minacce future provenienti dalla Germania. Queste preoccupazioni relative alla sicurezza coinvolgevano anche l’Europa Orientale, in particolare la Polonia, un potenziale trampolino di lancio per un’aggressione tedesca all’Unione Sovietica. Mosca voleva assicurarsi che in Germania, in Polonia o in qualsiasi altro paese dell’Europa Orientale nessun regime ostile all’Unione Sovietica prendesse di nuovo il potere. I sovietici si aspettavano anche che gli alleati occidentali certificassero che la loro annessione del territorio che era stato chiamato “Polonia Orientale” non era che il recupero dei territori perduti dalla Russia durante la Rivoluzione e la Guerra Civile e riconoscessero la metamorfosi dei tre stati baltici da paesi indipendenti a repubbliche autonome all’interno della Unione Sovietica. Per finire, ora che l’incubo della guerra era passato, i sovietici desideravano poter ritornare al loro progetto di costruzione di una società socialista. È ampiamente noto come il Soviet supremo e Stalin fossero fermi assertori dell’idea che fosse possibile e persino necessario creare “il socialismo in un solo paese” e da questo era scaturita un’ostilità con Trotzky, apostolo della rivoluzione mondiale. Meno conosciuto è invece il fatto che, con la fine della guerra, Stalin non aveva in mente piani per installare regimi comunisti in Germania o negli altri paesi dell’Europa Orientale liberati dall’Armata Rossa e anzi piuttosto scoraggiava i possibili tentativi dei partiti comunisti di Francia e Italia e degli altri stati dell’Europa Occidentale liberati dagli americani dall’andare al potere. Stalin aveva già formalmente fermato la promozione della rivoluzione mondiale nel 1943, con lo scioglimento del Comintern, l’organizzazione internazionale dei comunisti creata a quello scopo da Lenin nel 1919. Questa politica non era stata bene accolta da molti comunisti al di fuori dell’Unione Sovietica, ma era apprezzata dagli alleati occidentali di Mosca, specialmente Stati Uniti e Gran Bretagna. Stalin era molto interessato a mantenere buone relazioni con gli alleati occidentali. La loro approvazione e cooperazione gli erano necessarie per raggiungere gli obiettivi, visti in precedenza, che avrebbero consentito ad un’Unione Sovietica, fornita delle risorse in arrivo con le riparazioni e sicura da minacce esterne, di riprendere il compito di costruzione di una società socialista. Gli alleati occidentali non avevano mai fatto intendere a Stalin che quelle aspettative fossero irragionevoli. Al contrario, la legittimità di questi obiettivi di guerra sovietici erano stati ripetutamente riconosciuti, esplicitamente o implicitamente, a Tehran, Yalta e negli altri incontri.
Pe la fine del 1944 americani, britannici, canadesi e i loro alleati avevano liberato gran parte dell’Europa Occidentale e si erano assicurati che in Italia, in Francia e negli altri paesi si stabilissero regimi congeniali a loro, se non alla maggioranza della popolazione. Questo di solito significava che i comunisti locali venivano messi completamente da parte. Se ciò si dimostrava impossibile, come ad esempio in Francia, veniva comunque negato loro un potere equivalente all’importanza del ruolo svolto nella resistenza o al seguito popolare di cui godevano. Ed anche se gli accordi inter-alleati avevano previsto che i “Tre Grandi” avrebbero strettamente collaborato nell’amministrazione e nella ricostruzione dei paesi liberati, gli americani e i britannici avevano accuratamente impedito qualsiasi intromissione dell’alleato sovietico ad esempio negli affari dell’Italia, primo paese ad essere liberato già nel 1943. Nella penisola, americani e britannici avevano messo ai margini i comunisti, molto popolari per il loro ruolo nella resistenza, a favore di ex-fascisti come Badoglio, senza consentire ai sovietici alcun intervento, anche solo di proposta. Questo modus operandi era destinato a stabilire un decisivo precedente. Stalin non aveva altra scelta che accettare quella soluzione, ma, come ha osservato lo storico Gabriel Kolko, “i russi accettarono la ‘formula’ [italiana] senza molto entusiasmo, ma si segnarono questo tipo di sistemazione come metro futuro e come precedente.[2] (I sovietici avrebbero indiscutibilmente avuto il diritto di dire la loro sugli affari italiani, dato che truppe italiane avevano partecipato all’Operazione Barbarossa.)
Nell’Europa Occidentale, nel 1943-44, i liberatori americani e britannici avevano agito ad libitum, ignorando in larga parte non solo la volontà delle popolazioni locali, ma anche gli interessi dell’alleato sovietico e Stalin aveva accettato il fait-accomplì. Nel 1945, però, la palla passò di mano : chiaramente i sovietici godevano del vantaggio di un’Europa Orientale liberata dall’Armata Rossa. Anche così, gli alleati occidentali potevano nondimeno sperare di poter far valere in qualche misura la loro parola nella riorganizzazione anche di questa parte dell’Europa. I sovietici avevano ovviamente favorito i comunisti locali, tuttavia non avevano ancora creato alcun fait-accomplí. Americani e britannici erano naturalmente ben al corrente del fatto che Stalin desiderava il loro consenso e la loro collaborazione e sarebbe stato pertanto ben disponibile a fare concessioni. I leader politico-militari di Washington e Londra si aspettavano inoltre una certa accondiscendenza da parte del Cremlino che, in caso contrario, avrebbe avuto ragione di temere per le conseguenze. Il leader sovietico era acutamente consapevole che era stato un’immensa conquista per il suo paese essere riuscito ad emergere da una lotta all’ultimo sangue con il colosso nazista. Sapeva anche, tuttavia, che molti leader occidentali, esemplificati dai nomi di Patton e Churchill, odiavano l’Unione Sovietica e prendevano persino in considerazione di continuare la guerra contro la Russia non appena il comune nemico tedesco fosse stato sconfitto, preferibilmente con una marcia che raggiungesse Mosca fianco a fianco con quel che era rimasto delle armate naziste. Il piano, denominato Operazione Impensabile, era stato abbozzato da Churchill. Stalin aveva molte ragioni per cercare di evitare che questo scenario si concretizzasse.
Le aspirazioni dei sovietici relative a riparazioni e sicurezza, come indicato, non erano irragionevoli e i dirigenti americani e britannici avevano riconosciuto la loro legittimità, esplicitamente o implicitamente, durante l’incontro dei Tre Grandi che si era tenuto a Yalta nel febbraio 1945. Washington e Londra, tuttavia, erano tutt’altro che affascinati dalla vista di una Russia che avrebbe ricevuto quanto dovuto per gli eccezionali sforzi e sacrifici compiuti per conto della comune causa anti-nazista. Gli americani, in particolare, avevano le loro idee – che esamineremo nel prossimo capitolo - sul dopoguerra sia per quanto riguarda la Germania che l’Europa Orientale e Occidentale. Le riparazioni, ad esempio, avrebbero messo i sovietici nella condizione di riprendere, forse con successo, l’opera di far avanzare il progetto di una società comunista, un contro-sistema rispetto a quello del capitalismo internazionale di cui gli USA erano divenuti i grandi campioni.
Sostanzialmente, in Polonia e ovunque nell’Europa Orientale, lo Zio Sam voleva governi, democratici o meno, che seguissero una politica economica liberale la quale prevedesse “porte aperte” ai prodotti e agli investimenti di capitale americani. Roosevelt aveva dimostrato una certa empatia nei confronti dei sovietici, ma dopo la sua morte avvenuta improvvisamente il 12 aprile 1945 il suo successore, Harry Truman, aveva pochissima simpatia o comprensione per il punto di vista sovietico. Il nuovo presidente statunitense e i suoi consiglieri aborrivano l’idea che l’Unione Sovietica potesse ricevere importanti riparazioni dalla Germania, dal momento verosimilmente ciò escludeva quel paese da diventare un potenziale mercato remunerativo per i prodotti e i capitali d’investimento americani. Trovavano, inoltre, altrettanto abominevole che i sovietici intendessero usare quel capitale tedesco per edificare un sistema socialista, una forma di competizione non gradita dal capitalismo.
Le aspirazioni sovietiche erano ragionevoli e i dirigenti sovietici, compreso Stalin, di solito erroneamente dipinto come persona che prende da solo tutte le decisioni, sarebbero certamente stati disponibili ad importanti concessioni. Un dialogo con costoro era sicuramente possibile, ma richiedeva la pazienza di comprendere il punto di vista sovietico e doveva essere condotto mettendo in conto che l’Unione Sovietica non avrebbe potuto giungere al termine della conferenza a mani vuote. Truman, tuttavia, non aveva alcuna intenzione di impegnarsi a fondo in un dialogo di questo tipo. (Che Stalin, al contrario, fosse molto interessato a questo dialogo e che avrebbe potuto essere molto ragionevole si può arguire dal suo approccio agli accordi sugli assetti post-bellici di Finlandia e Austria. L’Armata Rossa si sarebbe ritirata al momento opportuno da questi paesi senza lasciarsi dietro alcun regime comunista.)
Truman e i suoi consiglieri speravano fosse possibile forzare i sovietici a rinunciare alle riparazioni tedesche e a ritirarsi non solo dalle regioni orientali del territorio della Germania, ma anche da quello della Polonia e dal resto dell’Europa Orientale, in modo che gli americani e i loro partner britannici potessero operare come già avevano fatto nell’Europa Occidentale. Truman arrivava persino a sperare fosse possibile costringere i sovietici a porre fine al loro esperimento comunista, che continuava ad essere fonte di ispirazione per i “rossi” ed altri radicali e rivoluzionari in ogni parte del mondo, compresi gli stessi Stati Uniti.
All’inizio della primavera del 1945, Churchill aveva ventilato l’idea che truppe americane ed inglesi assieme a quanto rimaneva delle forze naziste potessero arrivare a marciare su Mosca. Il Piano, chiamato Operazione Impensabile, dovette tuttavia essere abbandonato, soprattutto per lo stesso tipo di rigida opposizione dimostrata da soldati e civili che aveva portato al fallimento del progetto di intervento armato nella Guerra Civile Russa. Come Patton, che aspirava a giocare un ruolo importante in queso “Barbarossa Bis”, anche Truman deve essere rimasto deluso, ma il 25 aprile 1945, solo pochi giorni prima della capitolazione tedesca, ricevette notizie elettrizzanti. Si trattava di un aggiornamento relativo al segretissimo Progetto Manhattan, o S-1, nome in codice per la costruzione della bomba atomica. L’arma nuova e potente su cui gli americani stavano lavorando da anni era quasi pronta e, se il test avesse avuto successo, subito disponibile per l’uso. Truman e i suoi consiglieri ne erano entusiasti e sotto l’influsso di quello che il rinomato storico americano Williams Appleman William ha chiamato una “visione di onnipotenza”, ossia la convinzione che la nuova arma li avrebbe messi in condizione di dettare la loro volontà all’Unione Sovietica. La bomba atomica era un “martello”, come disse lo stesso Truman, che avrebbe agitato sulle teste di “quei ragazzi del Cremlino”[3].
Grazie alla Bomba, sarebbe ora stato possibile costringere Mosca a ritirare l’Armata Rossa dalla Germania e negare a Stalin un qualsiasi peso nella sistemazione post-bellica dell’Europa. Inoltre sembrava adesso fattibile installare regimi filo-occidentali e persino anti-comunisti in Polonia e dovunque in Europa Orientale ed impedire a Mosca dall’esercitarvi una qualsiasi influenza. Divenne persino pensabile che la stessa Unione Sovietica si aprisse ai capitali d’investimento americani come pure all’influenza politica ed economica degli USA e che “l’eresia comunista” ritornasse in questo modo in seno all’universale chiesa capitalista. “Ci sono prove”, scrive lo storico tedesco Jost Dülffer, del fatto che Truman credeva che il monopolio della bomba nucleare sarebbe stato “un passepartout[4] per l’attuazione delle idee degli Stati Uniti su un nuovo ordine mondiale”. In effetti, il presidente americano, pistola nucleare alla cintola, non sentiva alcuna necessità di trattare “quei ragazzi del Cremlino”, che non possedevano quella super-arma, da uguali. “I leader americani si comportavano da bulli e strapazzavano i russi”, scrive Gabriel Kolko, “[e] rifiutavano di negoziare seriamente semplicemente perché, da auto-convinti padroni del potere economico e militare, gli Stati Uniti ritenevano di potere alla fine definire l’ordine mondiale”[5].
Il possesso di una potente arma nuova apriva inoltre ogni sorta di possibilità nella guerra in corso in Estremo Oriente e nella sistemazione post-bellica di quella parte del mondo, di grande importanza per i dirigenti americani, come abbiamo visto quando abbiamo trattato di Pearl Harbor. Ciononostante, utilizzare quella carta potente sarebbe stato possibile solo dopo che la bomba fosse stata testata con successo e resa disponibile per un pronto impiego. Truman aveva bisogno di ingannare il tempo finché quel momento fosse arrivato. Non diede, pertanto, ascolto al consiglio di Churchill perché si discutesse al più presto possibile con Stalin del destino della Germania e dell’Europa Orientale, “prima che gli eserciti della democrazia si sciogliessero”, ossia prima che le truppe americane fossero state ritirate dall’Europa. Alla fine, Truman acconsentì ad un incontro al vertice dei Tre Grandi da tenersi a Berlino, ma non prima dell’estate, quando si pensava che la bomba sarebbe stata pronta.
L’incontro dei Tre Grandi si tenne, non nella Berlino bombardata, ma nella vicina Postdam, dal 17 luglio al 2 agosto del 1945. Fu lì che Truman ricevette il messaggio lungamente atteso che gli comunicava che la bomba era stata sperimentata con successo il 16 luglio nel New Mexico. Il presidente americano si sentiva ora forte abbastanza da fare la sua mossa e, dunque, non si prese il disturbo di fare delle proposte a Stalin, ma gli presentò una serie di richieste non negoziabili ed allo stesso tempo respinse ogni iniziativa di parte sovietica, ad esempio sulle riparazioni tedesche per i danni di guerra. Stalin non capitolò, neppure quando Truman cercò di intimidirlo sussurandogli all’orecchio che l’America era entrata in possesso di una nuova arma incredibilmente potente. Il leader sovietico, certamente già informato dalle sue spie del Progetto Manhattan, ascoltò in un silenzio di pietra. Truman giunse alla conclusione che solo una dimostrazione reale della potenza distruttiva della bomba atomica poteva convincere i sovietici a cedere. Di conseguenza, nessun accordo generale sui grandi temi venne siglato a Potsdam[6].
Nel frattempo, nell’Estremo Oriente i giapponesi continuavano a combattere, anche se la loro situazione era totalmente senza speranza. Erano disponibili ad arrendersi, in effetti, ma non incondizionatamente come chiedevano gli americani. Per il modo di pensare dei nipponici, una resa senza condizioni evocava l’umiliazione suprema, che era precisamente quella delle dimissioni forzate dell’imperatore Hiroito e di una sua possibile messa in stato d’accusa per crimini di guerra. I leader americani erano consapevoli di ciò e alcuni di loro, ad esempio il Segretario alla Marina James Forrestal, ritenevano - come scrive lo storico Gar Alperovitz – “che una dichiarazione per rassicurare i giapponesi sul fatto che una resa incondizionata non avrebbe significato deposizione dell’imperatore avrebbe probabilmente posto fine alla guerra”[7].
La richiesta di resa incondizionata era in realtà tutt’altro che un atto di fede inviolabile. Nel Quartier Generale del comandante supremo Eisenhower a Reims il 7 maggio era stata accettata una condizione dei tedeschi, precisamente che la loro richiesta di cessate il fuoco diventasse esecutiva solo dopo un ritardo di almeno 45 ore, un tempo sufficiente a permettere a numerosi contingenti delle loro truppe di svignarsela dal fronte orientale per non finire nelle mani dei sovietici, ma diventare prigionieri di americani o inglesi. Persino in queste ultime fasi finali, molte di queste unità della Wehrmacht sarebbero state prese in consegna – con le loro uniformi, armate e sotto il comando dei loro ufficiali – per un loro possibile uso contro l’Armata Rossa, come Churchill dovette amettere nel periodo post-bellico[8]. Era, pertanto, del tutto possibile accettare una capitolazione giapponese nonostante la richiesta di immunità per Hiroito. Inoltre, la condizione posta dai giapponesi si dimostrò tutt’altro che essenziale : dopo che la resa incondizionata venne alla fine strappata ai giapponesi, gli americani non si preoccuparono minimamente di incriminare Hiroito, anzi, fu proprio grazie a loro che questi continuò a restare l’imperatore per molti decenni ancora.
Perché i giapponesi pensavano di potersi ancora permettere il lusso di aggiungere una condizione alla loro offerta di resa ? La ragione era che la forza principale del loro esercito, dislocata in Cina, era tuttora intatta. I leader di Tokio ritenevano di poter usare questo esercito per difendere lo stesso Giappone e in questo modo imporre alti costi agli americani, anche se a questi avrebbe indubbiamente arriso la vittoria finale. Questo progetto avrebbe avuto la possibilità di funzionare solamente se l’Unione Sovietica non avesse fatto ingresso nel teatro bellico dell’Estremo Oriente, ove avrebbe potuto inchiodare le forze giapponesi sulla terraferma della Cina. La neutralità sovietica, in altri termini, consentiva ai giapponesi una piccola residua speranza, non di una vittoria naturalmente, ma che Washington potesse accettare la condizione relativa al loro imperatore. In una certa misura, la guerra col Giappone si trascinava perché l’Urss non era ancora entrata nel conflitto. Stalin, nel 1943, aveva promesso di dichiarare guerra al Giappone entro tre mesi dalla capitolazione della Germania e recentemente a Potsdam, il 17 luglio 1945, aveva ribadito il suo impegno. Di conseguenza, gli americani si attendevano un attacco sovietico al Giappone per i primi di agosto. La leadership statunitense sapeva molto bene che la situazione giapponese era senza speranza. “Fine dei giap quando questo avviene”, scrisse Truman nel suo diario, riferendosi all’atteso intervento sovietico nella guerra in Estremo Oriente[9].
In aggiunta, la Marina americana assicurò Washington di essere in grado di impedire ai giapponesi di trasferire la loro armata dalla Cina per difendere la madrepatria dall’invasione americana. E, per finire, era discutibile se fosse necessaria un’invasione americana del Giappone, dato che la potente Marina americana avrebbe potuto semplicemente porre un embargo tutt’intorno alle isole che costituivano quel paese e pertanto lasciarlo di fronte alla scelta se arrendersi o morire di fame.
Per terminare la guerra al Giappone senza dover subire ulteriori costosi sacrifici Truman aveva, pertanto, diverse attraenti opzioni. Poteva accettare l’irrilevante condizione giapponese dell’immunità per l’imperatore o poteva aspettare finchè l’Armata Rossa attaccasse i giapponesi in Cina, costringendo così i giapponesi ad accettare alla fine una resa incondizionata oppure avrebbe potuto costituire un blocco navale che prima o poi avrebbe costretto Tokio a chiedere la pace. Truman non scelse nessuna di queste opzioni, decise invece di abbattere il Giappone con la bomba atomica.
Questa fatale decisione, che doveva costare le vite di migliaia di persone, in gran parte civili, offriva agli americani considerevoli vantaggi. Primo, la Bomba poteva costringere i giapponesi ad arrendersi prima che i sovietici intervenissero nella guerra in Asia. In questo caso non sarebbe stato necessario consentire a Mosca di avere voce nelle imminenti decisioni relative al Giappone post-bellico, ai territori che questo aveva occupato (come la Corea e la Manciuria) e all’Estremo Oriente e in generale alla regione del Pacifico. Gli Stati Uniti avrebbero goduto di una totale egemonia su quella parte del mondo, che in realtà era stato il vero, ancorchè non detto, obiettivo bellico di Washington nel conflitto col Giappone, come abbiamo visto nel capitolo precedente. È per questa ragione che il blocco navale venne escluso : in questo caso, infatti, i giapponesi avrebbero capitolato solo dopo molti mesi dopo l’intervento nella guerra asiatica dell’Unione Sovietica.
L’ingresso sovietico in questa guerra in Estremo Oriente minacciava di costituire per i sovietici un vantaggio analogo a quello che gli americani avevano ottenuto con il loro tardivo ingresso nella guerra in Europa, precisamente un posto alla tavola rotonda dei vincitori da cui avrebbero fatto valere la loro volontà sul nemico sconfitto, avrebbero deciso sui confini, determinato le strutture politiche e socio-economiche del dopoguerra e pertanto acquisito enormi vantaggi e prestigio. Washington era assolutamente contraria ad un contributo sovietico che preludeva a questo. Gli americani avevano eliminato il loro grande concorrente imperialista in quella parte del mondo e non gradivano l’idea di doversi accollare un nuovo potenziale rivale, un rivale, per di più, la cui detestata ideologia comunista stava già diventando pericolosamente influente in molti paesi asiatici, compresa la Cina. I dirigenti statunitensi speravano di liberarsi rapidamente dei giapponesi e iniziare una risistemazione dell’Estremo Oriente senza un potenziale fastidioso partner sovietico.
La bomba atomica pareva offrire ai dirigenti americani un ulteriore addizionale vantaggio. L’esperienza fatta da Truman a Potsdam l’aveva persuaso che solo una reale dimostrazione di questa nuova arma avrebbe reso Stalin malleabile. Usare la bomba atomica per cancellare una città giapponese pareva lo stratagemma perfetto per intimidire i sovietici e costringerli ad importanti concessioni nelle risistemazioni post-belliche di Germania, Polonia e degli altri paesi dell’Europa centrale e Orientale. Secondo quanto riportato, James F. Byrnes, Segretario di Stato di Truman, avrebbe successivamente dichiarato che l’atomica era stata usata perché una tale dimostrazione di forza avrebbe verosimilmente reso i sovietici più accomodanti in Europa.
Per produrre la desiderata impressione terrificante sui sovietici – e il resto del mondo – la Bomba doveva ovviamente essere sganciata su una grande città. È probabilmente per questa ragione che Truman respinse la proposta, fatta da qualcuno degli scienziati coinvolti nel Progetto Manhattan, di dimostrare la potenza della Bomba sganciandola su una qualche isola disabitata del Pacifico : non ci sarebbero stati abbastanza morti e distruzioni. Sarebbe inoltre stato estremamente imbarazzante se la Bomba avesse mancato di dimostrare la sua micidiale magia mentre se quell’ordigno, non annunciato, fosse caduto su una città giapponese, anche in caso di fallimento, nessuno l ‘avrebbe saputo e nessuno si sarebbe sentito imbarazzato. Città giapponesi di grandi dimensioni erano già state selezionate, ma la capitale, Tokio, non rientrava tra queste dato che era già stata in parte spianata da precedenti bombardamenti aerei convenzionali per cui era improbabile che danni ulteriori apparissero sufficientemente impressionanti. In effetti, era molto piccolo il numero delle città con le caratteristiche di obiettivo “vergine”. Perché ? All’inizio di agosto del 1945, solo dieci città con più di centomila abitanti erano restate relativamente indenni dai bombardamenti arrei ed inoltre alcune erano fuori dal raggio operativo dei bombardieri. (In ragione delle inesistenti difese aeree giapponesi, i raid aerei americani avevano già iniziato ad indirizzarsi all’annientamento di città con una popolazione inferiore ai 30.000 abitanti). Hiroshima e Nagasaki, tuttavia, furono sufficientemente sfortunate da riuscire a passare la selezione[10].
La bomba atomica fu pronta giusto in tempo per essere usata prima che l’Urss avesse la possibilità di intervenire nel conflitto in Estremo Oriente. Hiroshima venne annichilita il 6 agosto 1945, ma la leadership giapponese non reagì immediatamente con l’offerta della resa incondizionata. La ragione era che il danno era grande, ma non più grande di quello provocato dai precedenti bombardamenti su Tokio, dove un attacco di migliaia di bombardieri il 9 e 10 maggio 1945 aveva causato più distruzioni e ucciso un maggior numero di persone di quello sull’obiettivo “vergine” di Hiroshima. Questo rovinava almeno in parte il piano un po’ posticcio di Truman. Tokio non si era ancora arreso quando l’8 agosto 1945 – esattamente tre mesi dopo la capitolazione tedesca a Berlino –l’Urss dichiarava guerra al Giappone e il giorno seguente l’Armata Rossa attaccava le truppe giapponesi che stazionavano nella Cina settentrionale. Truman e i suoi consiglieri ora intendevano far finire la guerra il più rapidamente possibile al fine di limitare il “danno” (dal loro punto di vista) causato dall’intervento sovietico.
Il 10 agosto 1945, esattamente il giorno successivo all’ingresso dell’Unione Sovietica nella guerra in Estremo Oriente, un secondo ordigno nucleare venne sganciato, questa volta sulla città di Nagasaki. Su questo bombardamento nel quale perirono molti cattolici giapponesi, un ex-cappellano militare americano ebbe in seguito a dire : “Questa è una delle ragioni per cui penso abbiano lanciato la seconda bomba. Dare fretta. Farli arrendere prima che arrivassero i russi”[11]. (Il cappellano poteva sapere o meno che tra i 75.000 esseri umani che vennero “istantaneamente ridotti in cenere, carbonizzati ed evaporati” a Nagasaki c’erano molti cattolici giapponesi come anche un numero ignoto di detenuti di un campo per prigionieri di guerra alleati, la cui presenza era stata segnalata al comando aereo, ma senza risultato.)[12]
Il Giappone capitolò non per le bombe atomiche ma a causa dell’ingresso sovietico nel conflitto. Dopo la distruzione della maggior parte delle grandi città del paese, la distruzione di Hiroshima e Nagasaki, non importa quanto orribile, faceva poca o nessuna differenza dal punto di vista strategico. La dichiarazione di guerra sovietica, d’altro canto, fu il colpo fatale perchè distruggeva l’ultima esile speranza di Tokio di poter aggiungere qualche condizione minore all’inevitabile capitolazione. Inoltre, dopo il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, i leader giapponesi seppero che ci sarebbero voluti molti mesi prima che le truppe americane sbarcassero in Giappone, mentre l’Armata Rossa stava facendo progressi talmente rapidi che si stimava che sarebbe giunta sul suolo giapponese nel giro di dieci giorni. Con l’intervento russo, in altri termini, Tokio esaurì il tempo e le opzioni che non fossero la resa incondizionata. Il Giappone capitolò per la dichiarazione di guerra sovietica, non per il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Persino senza le bombe atomiche, l’ingresso in guerra dei sovietici avrebbe provocato una resa.[13] I leader giapponesi , tuttavia, si presero il loro tempo. La capitolazione formale avvenne il 14 agosto 1945.
Con grande disappunto di Truman e dei suoi consiglieri, l’Armata Rossa riuscì a fare grandi progressi in questi ultimi giorni di guerra. I sovietici iniziarono persino a respingere i giapponesi fuori dalla loro colonia coreana e lo fecero in collaborazione con un movimento di liberazione coreano guidato da Kim Il-sung, che dimostrò di essere enormemente popolare e pronto ad assumere il potere dopo la liberazione di tutto il paese dal terribile giogo coloniale del Giappone. La prospettiva di una Corea indipendente e socialista non rientrava, tuttavia, nel piani statunitensi per il dopoguerra in Estremo Oriente. Washington si affrettò, pertanto, ad inviare truppe ad occupare il sud della penisola e i sovietici si dissero d’accordo ad una divisione del paese che si riteneva solo temporanea, ma che dura tuttora.[14]
Pareva che alla fine, anche in Estremo Oriente, gli americani avessero bisogno della cooperazione dell’alleato sovietico, ma Truman si assicurò che ciò non avvenisse e si comportò come se la precedente collaborazione dei Tre Grandi in Europa non costituisse un precedente e il 15 agosto 1945 respinse la richiesta di Stalin di avere una zona d’occupazione sovietica nel Paese del Sol Levante. Quando, il 2 settembre 1945, il generale MacArthur accettò ufficialmente la resa giapponese sulla nave da guerra Missouri nella Baia di Tokio, dei rappresentanti dell’Unione Sovietica e degli altri alleati nell’Estremo Oriente, come Gran Bretagna e Olanda, venne ammessa la presenza ma solo come un insignificante accessorio. Il Giappone non venne diviso in zone d’occupazione, come la Germania. Il rivale sconfitto dell’America sarebbe stato occupato nella sua totalità solamente dagli americani e, in quanto viceré americano a Tokio, il generale MacArthur avrebbe assicurato che, indipendentemente dal contributo dato alla comune vittoria, nessun altro potere avrebbe avuto voce negli affari del Giappone postbellico.
I conquistatori americani rimodellarono la Terra del Sole Nascente secondo le loro idee e i loro interessi. Nel settembre 1951, un’America soddisfatta avrebbe firmato un trattato di pace col Giappone. L’Urss, i cui interessi non erano stati presi in considerazione, non firmò questo trattato. I sovietici si ritirarono dalle regioni della Cina e della Corea che avevano liberato, ma si rifiutarono di fare altrettanto da territori giapponesi come l’isola di Sakhalin e le Curili, che erano state occupate dall’Armata Rossa negli ultimi giorni di guerra. Per questo i sovietici vennero in seguito criticati aspramente dagli Stati Uniti, come se l’atteggiamento del governo americano non avesse avuto nessuna relazione con la questione.
I dirigenti americani ritenevano che dopo le umiliazioni inflitte alla Cina da parte delle tradizionali potenze coloniali come Gran Bretagna, Francia e Olanda e la guerra di rapina e saccheggio condotta in quel paese dai giapponesi, ora la loro vittoria sul Sol Levante consentiva la realizzazione del sogno di assoluta egemonia degli Stati Uniti in quella parte del mondo. Mancava solamente l’eliminazione dell’Urss dall’Estremo Oriente, apparentemente una semplice formalità. La delusione e il disappunto furono pertanto enormi quando, nel dopoguerra, la Cina andò “perduta” a vantaggio dei comunisti di Mao. A peggiorare le cose, la parte settentrionale della Corea, un’ex-colonia giapponese che gli Stati Uniti avevano sperato di ridurre in stato di vassallaggio come lo stesso Giappone, optò per un duro e impervio e cammino verso il socialismo, e allo stesso modo in Vietnam un movimento di indipendenza popolare guidato da Ho Chi Minh risultò avere piani che si dimostrarono incompatibili con le grandiose ambizioni asiatiche degli Stati Uniti. Nessuna sorpresa, pertanto, che si arrivasse alla guerra in Corea e nel Vietnam e quasi ad un conflitto armato con la “Cina Rossa”.
Per mettere in ginocchio il Giappone, non era necessario l’uso della bomba atomica. Come dovette categoricamente riconoscere un accurato studio sulla guerra nell’aria, il Rapporto Statunitense sui Bombardamenti Strategici (US Strategic Bombing Survey), “il Giappone si sarebbe certamente arreso prima del 31 dicembre 1945, anche se non fossero state lanciate le bombe atomiche, persino se la Russia non fosse entrata in guerra e anche se non fosse stata prevista o pianificata alcuna invasione”.[15] Molti alti ufficiali americani l’hanno riconosciuto, ad esempio Henry “Hap” Arnold, Chester Nimitz, William “Bull” Halsey, Curtis LeMay ed un futuro presidente, Dwight Eisenhower. Truman volle usare la bomba per diverse ragioni, non solo per provocare la resa giapponese. Il presidente Usa si aspettava che il lancio delle bombe avrebbe tenuto i sovietici fuori dalla partita dell’Estremo Oriente e avrebbe indotto in loro un senso di terrore al punto che Washington sarebbe riuscita ad imporre la sua volontà negli affari europei. Così, Hiroshima e Nagasaki vennero polverizzate. Molti storici americani lo compresero molto bene. Sean Dennis Cashman scrive :
Con il passre del tempo, molti storici hanno concluso che la bomba venne usata per ragioni eminentemente politiche … Vannevar Bush [capo dell’Ufficio della Ricerca Scientifica e dello Sviluppo degli Stati Uniti] dichiarò che la bomba “fu anche lanciata al momento giusto, perché non ci fosse alcuna necessità di fare una qualche concessione alla Russia alla fine della guerra”. Il Segretario di Stato James F. Byrnes [Segretario di Stato durante la presidenza Truman] non smentì mai una dichiarazione che gli venne attribuita secondo cui la bomba era stata usata per dimostrare la potenza americana all’Unione Sovietica allo scopo di rendere [i sovietici] più malleabili in Europa.[16]
Truman stesso, comunque, dichiarò ipocritamente all’epoca che lo scopo dei due bombardamenti nucleari era stato quello di “portare i ragazzi a casa”, ossia di concludere rapidamente la guerra senza ulteriori importanti perdite di vite da parte americana. Questa spiegazione venne acriticamente accettata dai media statunitensi e in questo modo nacque il mito diffuso con entusiasmo loro tramite e sostenuto da storici ossequienti al potere, sia negli Stati Uniti che in generale nel mondo occidentale e, naturalmente, da Hollywood.
Il mito che due città giapponesi vennero bombardate con armi atomiche per costringere Tokio ad arrendersi, abbreviando in questo modo la guerra e salvando vite, fu made in Usa ma venne adottato con entusiamo anche in Giappone, i cui leader post-bellici, vassalli degli Stati Uniti, lo trovarono estremamente utile per parecchie ragioni come ha sottolineato Ward Wilson in un eccellente articolo sulla bomba nucleare. Primo, l’imperatore e i suoi ministri, che erano per molti aspetti i responsabili della guerra che aveva provocato tanta miseria e sofferenza al popolo giapponese, trovarono estremamente conveniente attribuire la colpa della loro sconfita, come si esprime Wilson, ad “una straordinaria svolta scientifica che nessuno avrebbe potuto prevedere”. La luce accecante delle esplosioni atomiche aveva reso impossibile, per così dire, vedere i loro “sbagli ed errori di valutazione”. Il popolo giapponese era stato raggirato sia sull’estrema precarietà della situazione reale che sul lungo protrarsi della sofferenza che gli veniva inflitta solamente per salvare l’Imperatore. La Bomba fornì un modo per cancellare questi inganni e fu la scusa perfetta per la sconfitta in guerra. Non c’era alcun bisogno di attribuire colpe. Nessun tribunale o inchiesta erano necessari. I leader del Giappone potevano dichiarare di aver fatto del loro meglio. Così, a livello generale, le esplosioni atomiche servirono a sviare le responsabilità dai dirigenti giapponesi.
Secondo, la Bomba fece guadagnare al Giappone una certa simpatia internazionale. Come la Germania, il Giappone aveva condotto una guerra d’aggressione e aveva commesso ogni sorta di crimini. Entrambi i paesi erano alla ricerca di mezzi per scrollarsi di dosso quest’immagine e poter scambiare il mantello del colpevole con quello della vittima. In questo contesto, la Germania (Occidentale) del dopoguerra inventò il mito dell’Armata Rossa dipinta come un’orda di mongoli, razzialmenti inferiori, che si abbattevano su Berlino e che nel percorso violentavano bionde Frauleins e saccheggiavano pacifiche cittadine di marzapane. Hiroshima e Nagasaki, allo stesso modo, permettevano al Giappone di posare da “paese vittima, che era stato slealmente bombardato con un crudele e terrorizzante strumento di guerra”.
Terzo, fare eco alla tesi americana secondo la quale la Bomba aveva posto termine alla guerra significava certamente compiacere i dominatori americani del Giappone post-bellico. Questi ultimi avrebbero protetto la classe superiore giapponese di fronte alle richieste di un profondo cambiamento sociale provenienti da elementi, compresi i comunisti, il cui messaggio “risuonava tra i poveri del Giappone, minacciando l’ordine plutocratico”.[17] Per un certo tempo l’elite si preoccupò che gli americani potessero abolire l’istituzione dell’imperatore e mettere sotto processo per crimini di guerra molti alti ufficiali, banchieri ed industriali. Si ritenne pertanto utile compiacere gli americani e, come si espresse uno storico giapponese, “se [gli americani] volevano credere che la Bomba aveva portato la vittoria nella guerra, perchè deluderli ?”. L’accettazione giapponese del mito di Hiroshima gratificava gli americani perché era utile a diffondere l’idea in Giappone, e dovunque in Asia e nel mondo, che gli Stati Uniti erano militarmente onnipotenti ma anche amanti della pace e pronti ad usare il loro monopolio delle armi atomiche solo quando assolutamente necessario. Ward Wilson continua e conclude come segue :
Se, d’altra parte, era stato l’ingresso dell’Urss nella guerra a provocare la resa del Giappone, allora i sovietici potevano pretendere di essere stati in grado di fare in quattro giorni quello che gli Stati Uniti non erano riusciti a fare in quattro anni, e la percezione della potenza militare sovietica e l’influenza diplomatica di Mosca ne sarebbe stata grandemente accresciuta. Dato che la Guerra Fredda stava già preparandosi, asserire che i sovietici erano stati il fattore decisivo sarebbe stato equivalente a fornire appoggio e aiuto al nemico.[18]
Col passare degli anni il mito che il bombardamento nucleare di due città giapponesi era giustificato, ha perduto molto del suo credito su entrambe le sponde del Pacifico. Nel 1945, una schiacciante maggioranza dell’85% di americani lo credeva, ma nel 1991 si era ridotta al 63% e ulteriormente al 59% nel 2015. La popolazione giapponese che condivideva questa tesi era del 29% nel 1991 e solo del 14% nel 2015.[19] Il mito, pertanto, aveva bisogno di una spinta e a questo opportunamente si apprestò uno dei successori di Truman, il presidente Barack Obama.
Obama visitò Hiroshima nel maggio del 2016. In un’allocuzione pubblica descrisse con distacco la polverizzazione della città prodotta dalla bomba atomica nel 1945 come “la morte che cade dal cielo”, come se si fosse trattato di un uragano o un altro fenomeno naturale con il quale il suo paese non aveva nulla a che fare e tralasciò di pronunciare anche una sola parola di rammarico, tanto meno di scusa, a nome della Zio Sam. In un’entusiastica cronaca dell’esibizione presidenziale il New York Times, uno dei principali quotidiani americani, scrisse che “molti storici ritengono che il bombardamento di Hiroshima e poi di Nagasaki, che insieme fecero oltre 200.000 vittime, salvarono tutto sommato delle vite, dal momento che un’invasione delle isole avrebbe provocato uno spargimento di sangue molto più grande”.[20] Che numerosi fatti contraddicano questa “credenza” e che numerosi storici pensino l’esatto opposto non si dice nell’articolo citato. Questo è il modo in cui i miti, persino i miti malandati, vengono tenuti in vita.
FONTI
Alperovitz, Gar, Un asso nella manica. La diplomazia atomica americana : Potsdam e Hiroshima, 1966, Torino. (ed. orginale 1965)
Cashman, Sean Dennis, Roosevelt and the World War II, New York and London, 1989.
Cummings, Bruce, The Korean War : A History, New York, 2011.
Dülffer, Jost, Jalta, 4 Februar 1945 : Der Zweite Weltkrieg und di Entsheung der bipolaren Welt, Münich, 1988.
Gowans, Stephen, Patriots, Traitors, Empires : The Story of Korea’s Struggle for Freedom, Montreal, 2018.
Harris, Gardiner, “At Hiroshima Memorial, Obama Says Nuclear Arms Require ‘Moral Revolution’”, The New York Yimes, May 27,2016.
Hasegawa, Tsuyoshi, Racing the Enemy : Stalin, Truman, and the Surrender of Japan, Cambridge, MA, 2005.
Kohls, Gary G., “Whitewashing Hiroshima : The Uncritical Glorification of American Militarism”, http://www.lewrockwell.com/orig5/kohls1.html
Kolko, Gabriel, The Politics of War : The World and United States Foreign Policy, 1943-1945, New York, 1968.
Kolko, Gabriel, Main Currents in Modern American History, New York, 1976.
Pauwels, Jacques, Il mito della Guerra Buona. Gli USA e la Seconda Guerra Mondiale, Roma, 2003.
Stokes, Bruce, “70 years after Hiroshima, opinions have shifted on use of atomic bomb”, Factank, August 4, 2015, https://www.pewresearch.org/fact-tank/2015/08/04/70-years-after-hiroshima-opinions-have-shifted-on-use-of-atomic-bomb .
Terkel, Studs, “The Good War” : An Oral History of World War Two, New York, 1984.
Williams, William Appleman, The Tragedy of American Diplomacy, revised edition, New York, 1962.
Wilson, Ward, “The Bomb Didn’t Beat Japan … Stalin Did. Have 70 years of nuclear policy been based on a lie ?”, Foreign Policy, May 30, 2013, https://foreignpolicy.com/2013/05/30/the-bomb-didnt-beat-japan-stalin-did .
NOTE
[1] La Francia si sarebbe unita a questo trio successivamente e così sarebbero nati ‘I Quattro Grandi’.
[2] Kolko (1968), pp. 50-51.
[3] Williams, p. 250.
[4] Dülffer, p. 155.
[5] Kolko (1976), p. 355.
[6] Alperovitz, p. 223.
[7] Alperovitz, p. 156.
[8] Pauwels, pp. 178-179.
[9] Citato in Alperovitz, p. 24.
[10] Wilson.
[11] Citato in Terkel, p. 535.
[12] Kohls.
[13] Hasegawa, pp. 185-186; Wilson.
[14] Per una storia, sgombra da miti, della tragedia della divisione della Corea, vedi i libri di Cummings e Gowans.
[15] Citazione I Horowitz, p. 53.
[16] Cashman, p. 369.
[17] Sarah C. Paine, storica americana citata da Gowans, p. 106.
[18] Wilson.
[19] Stokes.
[20] Harris.
Questo saggio è un adattamento di un capitolo del nuovo libro di Jacques Pauwels, di imminente uscita, dal titolo The Great Myths of Modern History .
(traduzione di Silvio Calzavarini)