Donatello Santarone *
“La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude." (Marx, New York Daily Tribune, 8 agosto 1853).
Due sterline ad articolo: tanto era il compenso che Karl Marx, “il nostro corrispondente da Londra”, percepiva per i suoi densi e documentati articoli sul quotidiano statunitense New York Daily Tribune, articoli che spaziavano dalla schiavitù in America al Risorgimento italiano, dalle guerre dell’oppio in Cina al colonialismo britannico in India, dalla servitù della gleba nella Russia zarista alla guerra di Crimea, dalle dittature borghesi di Napoleone III (1808-1873) e Lord Palmerston (1784-1865) alle crisi finanziarie e commerciali dei principali paesi europei.
La New York Daily Tribune fu fondata nel 1841 come giornale della componente di sinistra del partito whig americano. Nei decenni Quaranta-Cinquanta si distinse per la campagna antischiavista, e negli anni in cui vi collaborarono Marx ed Engels era l’organo del partito repubblicano statunitense. Marx dall’inizio del 1853 scriveva gli articoli direttamente in inglese e alcuni venivano talvolta pubblicati senza l’indicazione dell’autore. Ma le indicazioni contenute nei taccuini in cui Marx e sua moglie Jenny annotavano la data di stesura o di spedizione dei singoli articoli e quelle presenti nella corrispondenza di Marx ed Engels negli stessi anni consentono di individuarne, al di là di ogni dubbio, la paternità letteraria. Gli articoli di Marx, inoltre, subivano spesso più o meno pesanti interventi redazionali.
“La Tribune è stata fondata da Horace Greeley nel 1841 come organo militante delle cause progressiste, benché con un particolare carattere americano e cristiano. […] Durante il periodo in cui egli [Marx] vi scrisse, il giornale contava più di 200.000 lettori ed era il quotidiano più diffuso nel mondo in quel periodo. […] La Tribune era di gran lunga il più grande editore dell’opera di Marx (e, in misura minore, di Engels): il giornale pubblicò in tutto 487 articoli, dei quali Marx da solo ne scrisse 350, Engels 125, e insieme ne scrissero 12. Il mero volume dell’opera è significativo: gli articoli della Tribune nel complesso occupano quasi sette volumi dei cinquanta dell’opera completa di Marx ed Engels.”[1]
Gli articoli che Marx scrisse sulla Cina per la New York Daily Tribune sono 16. Più uno, dal titolo “Persia-Cina”, scritto da Engels su richiesta di Marx (lettere dell’8 e del 20 maggio 1857[2]). Marx scrisse, inoltre, nel 1860, altri tre articoli sulla Cina che non vennero pubblicati.
Gli articoli “del nostro corrispondente da Londra” sulla Cina spaziano dalle Guerre dell’Oppio ai trattati commerciali, dai rapporti Cina-Russia alla rivolta dei T’ai-p’ing fino alle ripercussioni che la politica coloniale inglese ha sulla politica interna della Gran Bretagna. Il tutto tenuto insieme dalla chiara consapevolezza che Marx ha della necessità per lo sviluppo del capitalismo britannico di sottomettere i grandi giganti asiatici, India e Cina.
“I fenomeni dell’accumulazione primitiva che il I Libro del Capitale descriverà in pagine anche letterariamente poderose, vedendoli pure in controluce sullo sfondo delle imprese di conquista transoceaniche dell’Inghilterra capitalistica, apparivano qui ingigantiti dalla virulenza raggiunta in patria dalla rivoluzione industriale e dal crollo subitaneo nelle colonie assoggettate o da assoggettare degli ultimi bastioni di un’economia arretrata ma, nei suoi limiti storici, razionale e, per antichissima tradizione, molto più sollecita del destino dei gruppi, delle famiglie e degli individui. Le artiglierie pesanti del commercio abbattevano qui non solo le sovrastrutture putrefatte del “dispotismo orientale”, ma quelle piccole isole primitive di un solidarismo proto-comunista che erano le comunità di villaggio indiane, le unità domestico-patriarcali cinesi, più tardi le comuni agricole e le cooperative artigiane in Russia, tutte fondate sull’assenza di proprietà terriera privata e personale e sull’appropriazione collettiva, in varia forma, del prodotto di un’attività consociata. […]
Le pagine sull’India 1853 o sulla Cina 1857-60 sono, prima di tutto, una satira senza pietà della vita politica inglese, dell’ipocrisia umanitaria della giovane classe industriale britannica (soprattutto cotoniera; la millocracy [mill = fabbrica; cotton mill = cotonificio] ormai al comando delle leve dello Stato) e, in secondo luogo, una rievocazione non meno feroce del secolare depredamento delle terre di conquista, della loro riduzione in schiavitù con l’offensiva delle armi e con le campagne di smercio dei manufatti a buon mercato, o della loro “civilizzazione” attraverso il contrabbando dell’oppio.
Ma il nocciolo centrale della dialettica marxista – la si accetti o la si respinga – risiede nel non fermarsi alla condanna di un ordine sociale basato sulla più civile brutalità […], ma nel vedere, di là dalle sofferenze delle quali è seminato il corso vertiginoso dell’espansione capitalistica, le forze che, “strumento inconscio della storia”, essa stessa crea, matura e ingigantisce.”[3]
Per Marx la penetrazione del capitalismo in società non capitaliste, dopo una prima brutale fase di sconvolgimenti e orrori, che egli non manca di condannare svelando l’ipocrita barbarie della Gran Bretagna che sempre si è vantata di aver portato la civiltà in Asia e nel mondo (“il fardello dell’uomo bianco” di Kipling), è un processo necessario per consentire l’industrializzazione di quei paesi e la conseguente formazione di un proletariato moderno. Sappiamo che tale schema non sempre ha funzionato, specialmente quando è stato applicato in modo dogmatico, e che anzi proprio in Cina la grande rivoluzione comunista del 1949 guidata da Mao Zedong fu una rivoluzione prevalentemente contadina e non operaia.
Ma “pensare che il materialismo storico implicasse un’unica sequenza di modi di produzione – ‘comunismo primitivo’-schiavitù-feudalesimo-capitalismo-socialismo – significa fraintendere Marx e il marxismo. La lettera a Vera Zasulic in cui Marx definiva possibile e anzi probabile che la Russia non sarebbe passata attraverso una fase capitalista e avrebbe invece compiuto un salto diretto dal feudalesimo al socialismo dimostra che il suo principio del materialismo storico era più hegeliano che cartesiano.”[4].
Nel primo articolo che Marx scrisse sulla Cina per la New York Daily Tribune, pubblicato il 14 giugno 1853, la funzione di rottura della Gran Bretagna in Cina è espressa chiaramente:
“Quali che siano le cause determinanti delle croniche rivolte che da quasi un decennio hanno travagliato la Cina per confluire oggidì in una rivoluzione formidabile, e qualunque forma religiosa, dinastica o nazionale esse prendano, è certo che l’occasione a questo scoppio è stata fornita dai cannoni britannici quando imposero alla Cina la soporifera droga chiamata oppio. Di fronte alle armi britanniche, l’autorità della dinastia Mancia cadde in frantumi; la fede superstiziosa nell’eternità del Celeste Impero dileguò; il barbaro isolamento ermetico dal mondo civile venne infranto; e si iniziarono quei rapporti scambievoli, che da allora si sono così rapidamente sviluppati sotto il segno delle dorate attrazioni della California e dell’Australia. Nello stesso tempo, cominciava l’emorragia delle monete d’argento del Celeste Impero, sua linfa vitale, verso l’India britannica.”[5].
Già dal titolo, Rivoluzione in Cina e in Europa, Marx insiste sugli intrecci che legano i destini delle due parti del mondo. Il risveglio della vecchia Cina avrà inevitabilmente – scrive – un riflesso sulle lotte popolari in Europa:
“Un isolamento completo era la premessa necessaria della conservazione della vecchia Cina. Ora che quest’isolamento, per mezzo della Gran Bretagna, è cessato di morte violenta, la dissoluzione interna sopravverrà con la stessa certezza che per ogni mummia conservata in una bara ermeticamente chiusa, quando la si metta a contatto con l’aria aperta. Ma, scatenata dall’Inghilterra la rivoluzione cinese, il problema è come questa rivoluzione reagirà col tempo sulla stessa Inghilterra e, attraverso questa, sul continente europeo.”[6].
La politica coloniale inglese, che conosce il suo massimo splendore nel XIX secolo, ma che durerà fino alla seconda metà del Novecento (l’indipendenza del “gigante nero” dell’Africa, la Nigeria, risale appena al 1960), ha rappresentato la più potente espansione del capitalismo su scala planetaria prima dell’inizio dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti d’America. Negli anni dei governi liberali di Palmerston e di Gladstone (1850-1874) l’Inghilterra esercitò una supremazia assoluta nel mondo. La Grande Esposizione Industriale, inaugurata a Londra il primo maggio del 1851, rappresentò il riconoscimento mondiale dei risultati della Rivoluzione industriale inglese. L’”officina del mondo” monopolizzava quasi tutti i commerci ed esercitava un dominio sicuro sui mari del pianeta.
“In tutto il periodo dell’apogeo liberale, la Gran Bretagna conobbe un periodo di grande prosperità economica. La popolazione passò da 27 a 31 milioni; mentre la produzione crebbe a ritmi vertiginosi. Intorno al 1860 il paese produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro prodotto in tutto il mondo. La rete ferroviaria nel 1850 era pressoché completata. I sistemi di comunicazione marittimi, con l’impiego crescente di navi in ferro e poi in acciaio, erano i migliori in assoluto, collegavano con regolarità (la flotta inglese ammontava a metà di quella di tutti gli Stati europei) il paese ai cinque continenti, garantendo alle esportazioni inglesi (cotonate, ferro, acciaio, carbone, macchine utensili) e alle importazioni (grano, carne, prodotti dell’artigianato di lusso) un mezzo di trasporto efficiente e sicuro. Londra, verso cui affluiva in grandi quantità l’oro delle nuove miniere australiane, era il più importante centro finanziario del mondo. Gli ingegneri, gli imprenditori e i finanzieri esportavano in tutti i continenti la tecnica, le imprese e i capitali britannici. Anche l’agricoltura conobbe un periodo di forte sviluppo”[7].
Si tratta di un quadro già abbondantemente globalizzato al quale, per quanto concerne la Gran Bretagna (ma non dimentichiamo i possedimenti coloniali francesi, olandesi, belgi, ecc.), hanno contribuito in maniera determinante le colonie e, tra queste, l’India, la “perla” dell’impero.
Marx aveva chiara la funzione dell’Inghilterra, “rivoluzionaria malgrado se stessa”, nell’espansione mondiale del capitalismo e nella distruzione di tutti gli antichi modi di vivere e produrre.
“Fu l’invasore inglese a spezzare il telaio e il filatoio a mano. L’Inghilterra cominciò ad espellere le cotonerie indiane dal mercato europeo; poi introdusse nell’Indostan [cioè l’India, n.d.r.] i suoi filati ritorti; infine, inondò dei suoi manufatti cotonieri la patria stessa del cotone”[8].
A proposito del tradizionale sistema di villaggio indiano, che scomparirà “per gli effetti del vapore e del libero scambio made in England” Marx non mostra alcuna esotica nostalgia:
“Non si deve dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base del dispotismo orientale; che racchiudevano lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento docile della superstizione, asservendolo a norme consuetudinarie, privandolo di ogni grandezza, di ogni energia storica. […] Non si deve dimenticare che queste piccole comunità erano contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù. […] Il problema è: può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia”[9].
Edward Said ha rimproverato a Marx di non essere immune dall’orientalismo dei suoi tempi. Probabilmente il critico palestinese-statunitense non ha avuto modo di studiare, per ragioni temporali, gli innumerevoli scritti del Moro (alcuni inediti e fatti conoscere dal lavoro dei curatori della nuova edizione critica della MEGA2) i quali, al contrario di quanto sostiene Said, ci mostrano l’interesse di Marx verso le sofferenze dei popoli asiatici causate dal colonialismo occidentale e la chiara comprensione della forza mondiale del capitale che tutto trasforma e ingloba. Il colonialismo, secondo Marx, è strettamente connesso alla nascita del capitalismo, ed è in quest’ottica – e non in quella di una generica contrapposizione tra Oriente e Occidente – che Marx analizza le relazioni tra Asia ed Europa, sia nel presente che dal punto di vista storico[10].
Marx è consapevole delle enormi sofferenze del popolo indiano e in tante parti della sua opera denuncia tali sofferenze; così come, nel contempo, egli è altrettanto consapevole che il processo di trasformazione capitalistica del pianeta è ineluttabile e necessario (pur con i dubbi della tarda maturità di cui abbiamo prima accennato) per consentire fasi superiori dello sviluppo storico (che egli identifica con il comunismo).
“La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude. […] Gli effetti distruttivi dell’industria inglese, visti in rapporto all’India – un paese grande come tutta l’Europa – si toccano con mano, e sono tremendi. Ma non dimentichiamo ch’essi non sono che il risultato organico dell’intero sistema di produzione com’è costituito oggi. Questa produzione si fonda sul dominio assoluto del capitale.”[11].
Per ritornare alla Cina di Marx, ricordiamo la grande attenzione che egli dedica ad una delle pagine più nere della storia cinese, quelle legate alla imposizione del consumo di oppio da parte degli inglesi. A conclusione di uno degli articoli dedicati al commercio dell’oppio (25 settembre 1858), articoli nei quali si alternano il rigore documentario e la l’attenta ricostruzione storica, Marx denuncia con toni veementi le politiche monopolistiche di imposizione dell’oppio alla Cina da parte della Gran Bretagna che si vorrebbe paladina indiscutibile del libero scambio.
“Non possiamo tuttavia lasciare questa parte del discorso senza rilevare una contraddizione flagrante del governo britannico, questo spacciatore di cristianesimo e trafficante in civiltà. Nella sua veste imperiale, esso si finge del tutto estraneo allo smercio della droga, e perfino sottoscrive trattati che lo mettono al bando. Nella sua veste indiana, costringe il Bengala a coltivare il papavero con grave danno delle sue risorse produttive, obbliga una piccola parte dei piccoli contadini a praticarne la coltura, ne alletta un’altra a seguirne l’esempio anticipando loro i capitali; stringe in pugno il monopolio della manifattura della perniciosa droga; ne controlla mediante un esercito di spie la produzione, la consegna in punti stabiliti, la concentrazione e manipolazione secondo i gusti del consumatore cinese, la confezione in balle particolarmente atte al contrabbando, e infine il trasporto a Calcutta, dove l’oppio è messo all’incanto e ceduto agli speculatori dai funzionari dello stato, per finir nelle mani di contrabbandieri in Cina. […]
In realtà, il bilancio del governo britannico in India dipende ormai non solo dal commercio dell’oppio con la Cina, ma dal suo carattere illegale, per cui, se il governo cinese dovesse legalizzare questo genere particolarissimo di scambi, tollerando nello stesso tempo la coltura del papavero in Cina, l’erario angloindiano ne subirebbe una catastrofe. Perciò, mentre predica ufficialmente la libertà di commercio del veleno, in segreto esso difende il monopolio della sua confezione. Davvero, a studiare da vicino l’essenza del liberoscambismo britannico, alla base della sua “libertà”, in novantanove casi su cento, si scopre il monopolio.”[12].
Qui, come in altre parte dei sui scritti giornalistici, Marx mostra un non comune scrupolo documentario costruito attraverso la lettura di lettere, atti parlamentari, testi di commissioni parlamentari, rapporti politici ed economici, oltreché di studi dedicati a questioni particolari. Negli scritti giornalistici è presente, inoltre, uno stile sferzante, pungente, veemente, a tratti ironico, velenoso e penetrante, che spesso ricorre alla martellante iterazione di fatti e nomi, uno stile irriverente del potere, ma mai declamatorio, con metafore, immagini, espressioni colorite, emblematiche, memorabili, con colti riferimenti storici, economici, letterari. Gli articoli di Marx ci riportano nella viva vicenda storica degli anni in cui furono scritti, fanno rivivere uomini politici e intellettuali, anonimi funzionari dello stato e capitani d’industria, diplomatici e generali, ministri e deputati trasformisti che si muovono accorti nelle aule parlamentari. E poi i luoghi: i porti di Canton, le residenze coloniali degli ufficiali, le navi da guerra…
In conclusione, la lettura degli scritti giornalistici di Marx ci conferma della straordinaria attualità del lucido analista del capitale globale, proponendoci una chiave di lettura della società e della storia che potremmo forse considerare più attuale oggi, nell’epoca della compiuta unificazione planetaria ad opera del capitale, di centocinquant’anni anni fa.
* Fonte: https://www.ospiteingrato.unisi.it/
[1] James Ledbetter, Introduction, in Karl Marx, Dispatches for the New York Tribune: Selected Journalism of Karl Marx, Penguin Books, London 2007, pp. xvii-xviii (traduzione mia).
[2] Marx - Engels Opere Complete, vol. XL, Lettere 1856-1859, Editori Riuniti, Roma 1973., pp. 135-136 e 139-140.
[3] Bruno Maffi, Prefazione, in K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 2008 , pp. 22-23.
[4] Hosea Jaffe, Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaca Book, Milano 2007, p. 67. Cfr. anche dello stesso autore Marx e il colonialismo, Jaca Book, Milano 1977.
[5] K. Marx – F. Engels, India Cina Russia,.a cura di Bruno Maffi,, Il Saggiatore, Milano 2008 , pp. 43-44.
[6] Ivi, p. 45-46.
[7] M. Salvadori, Storia dell’età contemporanea. Torino, Loescher, 1976, p. 211. Cfr. pure E. J. Hobsbawm, La rivoluzione industriale e l’impero. Dal 1750 ai giorni nostri.Torino, Einaudi, 1972. “Tuttavia, - scrive Hobsbawm a proposito del Manifesto di Marx e Engels – alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, i risultati acquisiti dalla ‘borghesia’ erano assi più modesti dei miracoli che a essa vengono attribuiti nel Manifesto. Dopotutto, nel 1850 il mondo non produceva più di 71.000 tonnellate di acciaio (di cui quasi il 70 per cento in Gran Bretagna) e aveva costruito meno di 38.000 chilometri di strade ferrate (due terzi delle quali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Gli storici non hanno avuto difficoltà a dimostrare che, persino in Gran Bretagna, la rivoluzione industriale (un termine specificamente usato da Engels a partire dal 1844) non aveva creato un paese industriale o anche prevalentemente urbano prima degli anni Cinquanta dell’Ottocento. Marx ed Engels non descrissero il mondo come era già stato trasformato dal capitalismo nel 1848, ma predissero come era logicamente destinato a venire trasformato da esso.” (E. J. Hobsbawm, Introduzione, a K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Rizzoli, Milano 2004, pp. 22-23).
[8] K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, a cura di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 71.
[9] Ivi, pp. 73-74
[10] E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 155-159 (Bollati Boringhieri, Torino 1991). Ed. orig.: Orientalism, Pantheon Books, New York 1978. Marx con il passare degli anni ebbe posizioni sempre più critiche nei confronti del colonialismo dei paesi capitalistico-occidentali. L’estraneità di Marx a qualsivoglia “costruzione” orientalista è documentata, anche sulla base della nuova edizione critica della MEGA², da Marcello Musto nei volumi L’ultimo Marx. 1881-1883, Donzelli, Roma 2016 e Karl Marx. Biografia intellettuale e politica. 1857-1883, Einaudi, Torino 2018. In un altro scritto sul tema (Un europeo non eurocentrico, in A. Carioti, a cura di, Karl Marx vivo o morto?, Solferino, Milano 2018), Musto ricorda le critiche dell’indiano Ranajit Guha, fondatore dei “Subaltern Studies”, a quanti, e tra questi Said, non contestualizzano storicamente le affermazioni di Marx spesso estrapolandone alcune frasi.
[11] Ivi, pp. 108-109.
[12] K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, a cura di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 176.