Carla Filosa

 

Scrive Marx nel suo Discorso sulla questione del libero scambio (Bruxelles, gennaio 1848):

“Bowring[1] presenta gli operai come mezzi di produzione che è necessario sostituire con altri mezzi di produzione meno costosi. Egli finge di vedere nel lavoro di cui parla un lavoro del tutto eccezionale, e nella macchina che ha schiacciato i tessitori una macchina altrettanto eccezionale. Dimentica che non vi è lavoro manuale che non sia suscettibile di subire da un momento all’altro la sorte dell’industria tessile…

Il dottor Ure… parla di alcuni mali individuali e dice, nel medesimo tempo, che questi mali individuali mandano in rovina intere classi; il quale parla di sofferenze passeggere del periodo di transizione e in pari tempo non dissimula il fatto che queste sofferenze passeggere hanno significato per i più il passaggio dalla vita alla morte e per i restanti il passaggio da una condizione migliore a una peggiore.

Quando dice, in seguito, che le sventure di questi operai sono inseparabili dal progresso dell’industria e necessarie al benessere nazionale, egli afferma semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione necessaria la miseria della classe lavoratrice…

Voi, migliaia di operai che morite, non doletevene. Voi potete morire in tutta tranquillità. La vostra classe non perirà. Essa sarà sempre tanto numerosa che il capitale la potrà decimare senza temere di annientarla. D’altronde, come volete che il capitale trovi un impiego utile se non avesse cura di tenersi costantemente in serbo la materia da sfruttare, gli operai, per sfruttarli di nuovo?”

Se queste parole fossero state scritte in questi ultimi tempi – non tradite da nomi noti di due secoli fa – avremmo dato un significato esclusivamente virale alle “sofferenze” e al “passaggio dalla vita alla morte”, come pure un’interpretazione di un inconscio o di un pensiero inespresso di molti capitalisti da quel “Voi, migliaia di operai…” fino al “di nuovo”. Il destino incontrovertibile delle analisi che trasferiscono la realtà in pensiero – cioè che la negano per inscriverla nella teoria universalmente disponibile, in una scienza che guidi le azioni umane future verso una nuova realtà costruibile razionalmente, non più solo dominio dell’accadimento storico - è proprio quello di essere capaci di oltrepassare i limiti del tempo contingente.

La possibilità di pensare se e come cambierà la condizione lavorativa oltre il passaggio del covid 19 viene ora limitata da fattori oggettivi e soggettivi. Per i primi, troppo presto per disporre di dati attendibili, non aleatori, in quanto sono saltati i sistemi di rilevazione, sia per i rilevatori sia per i rilevati; data la chiusura degli istituti di statistica, difficile avere dati non distorti di questi ultimi mesi. Nonostante questi margini di incertezza si cercherà di porre l’attenzione su ciò che fin qui è stato possibile osservare empiricamente, e pertanto materialmente formulare ipotesi da verificare in uno spazio temporale più lontano. Ai secondi, assolutamente dipendenti dai primi, si aggiunge l’imponderabilità delle conseguenze delle decisioni nazionali e internazionali tuttora in divenire, che condizioneranno i livelli ancora di consensualità o intolleranza delle masse divise nella nazionalizzazione, ora anche materialmente unificate dall’indifferenza e/o irresponsabilità dei rispettivi governi, per le migliaia di sofferenze, angosce e lutti, loro di fatto destinati. Mentre si scrive[2] i contagi a livello mondiale sono stati calcolati dalla Johns Hopkins University nel numero di più di 11milioni di unità in continuo aumento, e ben oltre 500.000 decessi, secondo un andamento inverso tra le prime zone colpite in rallentamento e le ultime in cui invece si ampliano i focolai, a velocità aumentata. Negli Usa il numero dei morti ha superato quelli della Prima guerra mondiale ed è andato oltre quelli della guerra in Vietnam, con un tasso del 20% dei casi totali (oltre 2,2 milioni), mentre poco tempo fa in Brasile è stato superato il milione di contagi, con 54.000 nuovi contagi in sole 24 ore (la Repubblica, 23.06.2020). E’ importante osservare questa coppia di Paesi i cui rispettivi governi meritano il guinness dei primati, quali campioni mondiali per la maggiore indifferenza realizzata per la vita dei propri concittadini subordinata alla continuità del lavoro. Non solo a causa dei ritardi deliberati nelle disposizioni istituzionali, ma anche nella perseguita priorità assoluta dell’inarrestabile processo di valorizzazione dei capitali ivi allocati, di cui, questi governi, sono stati e sono tuttora solerti e provvidi riconoscibili agenti.

L’attuale fase imperialistica, in cui alla crisi da sovrapproduzione si è sovrapposta la crisi epidemica senza precedenti che ne ha duplicato il peso – sebbene in modo diseguale sia per il Pil dei singoli stati sia per la sopravvivenza delle classi lavoratrici -, avrà come impatto un aumento della contraddittorietà inversamente proporzionale all’accumulazione di plusvalore e alla disoccupazione. In altri termini, l’ipotizzabile “snellimento” della forza-lavoro nei processi produttivi e di valorizzazione, grazie a un’innovazione tecnologica già annunciata e alla riorganizzazione del lavoro già in atto, troverà la resistenza di una forma sociale più lenta ad adeguarsi allo scatto in avanti delle forze produttive. Questa forma sociale infatti, rimanendo esposta proprio alle esigenze improrogabilmente poste dall’epidemia, ha dovuto ultimamente riaffermare, obtorto collo, i valori della priorità della vita sociale e con essi la revisione di una spesa sociale sottratta, e quindi nuovamente da incrementare. In Italia è stata subito stesa un’ulteriore facciata democratica, inoltre, del “nessuno sarà lasciato indietro”, cui ha corrisposto nell’immediato un paternalistico quanto esiguo aiuto economico, qualche leggina a tempo determinato quale la cosiddetta “regolarizzazione” dei braccianti stranieri, il ricorso agli articoli della Costituzione, ecc.. Più sotto silenzio sono stati poi erogati lauti “incentivi” a Confindustria, imprese piccole e medie, Fca, ecc. imbastendo una tutto sommato benevola presa di posizione in Europa nella richiesta dei Recovery Fund, Mes, o altri investimenti pro emergenza sanitaria, la cui restituzione successiva sarà semmai addossata – senza rumore - alla classe lavoratrice sotto forma fiscale.

Dei molti problemi che si affollano per affrontare un minimo di analisi su questa situazione presente, si cercherà di gettare un ponte tra il nostro più o meno recente passato per cogliere qualche barlume di prospettiva non solo sulle necessità della continuazione di questo sistema, ma anche sulle necessità di una sopravvivenza di specie che l’esperienza pandemica ancora in atto ha fatto emergere come minaccia seria e più che concreta. Per quest’ultimo problema la storia alle nostre spalle non ci permette di nutrire alcuna fiducia sulla “capacità” del sistema di farvi fronte, pena la sua definitiva scomparsa. Qui non si accennerà pertanto a fattori soggettivistici o di “intelligenza”, “volontà” o “comprensione”, “umanità” degli agenti della concentrazione finanziaria, poiché, in quanto tali, non possono sottrarsi alle leggi materiali dell’accumulazione capitalistica, senza che questo sistema produttivo sia inevitabilmente superato. Molti in questi ultimi tempi hanno espresso sconcerto, delusione, rabbia o quant’altro per l’“incapacità” di molti governi - quello usamericano, britannico o brasiliano in particolare – nell’affrontare la crisi pandemica sopraggiunta, senza approntare un’adeguata tutela sanitaria per i propri cittadini. Non si è considerato a sufficienza però che la capacità in tal senso è inevitabilmente legata alla necessità di riproduzione di un sistema economico, che non lascia spazi ad obiettivi che non siano quelli della incessante valorizzazione dei capitali operanti in un determinato territorio per determinati settori produttivi. I governi che pertanto consentono e sorvegliano tali movimenti, sono tenuti all’ottimizzazione dell’ottenimento dei profitti e non al propagandato “benessere sociale”, quale ormai obsoleta copertura. L’umanità ancora sottomessa al dominio delle cose, alle leggi cioè dello scambio, non può trovare la libertà di anteporre la cura e la tutela della vita all’imperio dell’accumulazione capitalistica quale unificato, nonché contraddittorio, sistema produttivo mondiale.

It’s a Long Long way to Tipperary….

Sebbene questa canzone sia stata un simbolo della I guerra mondiale, qui non si vuole andare tanto a ritroso se non per indicare nell’evoluzione dell’imperialismo belligerante la natura economica sempre identica della conflittualità duplice dei capitali: tra loro e nei confronti del lavoro. Senza poi voler intraprendere inadeguati paragoni storici, ritornando alle condizioni verificatesi alla fine dell’ultima guerra mondiale, si può rammentare che i nostri Paesi dell’“Occidente”, il mondo cosiddetto libero, vennero posti di fronte a una minaccia che sembrava poter contagiare il mondo. La minaccia, significativamente denominata come necessità di “contenimento del comunismo” da parte del presidente Truman nel 1947 (Ortoleva e Revelli 1990), era rappresentata dalla formazione del blocco sovietico con i paesi socialisti quale risposta all’altro blocco euroamericano, determinando così un sistema di alleanze politiche e militari contrapposte. Questa divisione comportò l’unificazione intorno agli interessi americani della ricostruzione postbellica che, in quel periodo, solo la potenza finanziaria Usa avrebbe potuto sostenere. Tale preponderanza avrebbe poi favorito il commercio estero e l’influenza dei capitali americani sulle industrie straniere, soprattutto in Europa, al fine di evitare la possibilità concreta della recessione economica dovuta alla devastazione realizzata. La costituzione della Nato e il varo del Piano Marshall ne furono l’immediata conseguenza, oltre a una serie di politiche articolate di non interventi in aree rischiose o di pressioni per l’apertura commerciale di aree imperiali ancora presenti, fino a realizzare vaste zone mondiali soggette all’influenza economica e politica americana in sostituzione di quella europea.

Questo riferimento storico porta alla luce un curioso accostamento, non solo linguistico ovviamente, per fatti ora apparentemente diversi tra loro. Una possibile “infezione” politica all’indomani della rivoluzione russa (di ben 30 anni prima!) aveva determinato una spaccatura così necessaria - per l’avvenuta scalata all’egemonia mondiale Usa, gestita poi come “guerra fredda” con l’Urss –, esattamente come oggi il “contenimento del coronavirus” ha determinato l’ulteriore occasione per una spaccatura tra governi concorrenti all’egemonia mondiale – Usa e Cina questa volta in primo luogo -, e come corollario poi tra governo e popolazione proprio in quel primo Paese, seguito dal suo satellite brasiliano, che dell’egemonia economico-militare ha fatto il proprio credo. Oggi infatti è come se si fosse determinata una sorta di dopoguerra senza guerra, in cui la vita dei cittadini vale quanto quella dei soldati al fronte, nella vana speranza di un’economia capitalistica che proceda senza essere mai intaccata, ritardando o sottovalutando il distanziamento fisico quale unica difesa al contagio, questa volta sì virale.

La politica dell’America first è proprio sempre la stessa. Contenuto il “comunismo” – quello storico così chiamato, ma mai estinto quello scientifico e quello posto come continua tendenza reale –, questa supremazia politico-militare- industriale viene ora però, se non altro, messa in crisi dalla pandemia estesasi anche al suo interno per la devastazione congiunta di natura e organizzazione sociale, il cui depredamento illimitato e sconvolgimento lavorativo unito all’emarginazione razzista costituisce ormai la vera minaccia alla sopravvivenza, e non più solo localizzata. Le analisi di molti scienziati e ricercatori (Bersani 2020) ormai concordano infatti nell’affermare che questa crisi ultima è stata determinata da concause economiche, ecologiche, sociali e sanitarie specifiche del modello capitalistico, la cui riproposizione tout court significherebbe l’impossibilità già manifestatasi di tutelare adeguatamente la vita sul pianeta. Il costrittivo funzionamento di questo sistema, infatti, che lega in un abbraccio mortale governi competitivi coartati in alleanze gerarchizzate e mobili, richiede un’accumulazione di plusvalore che ormai la recessione mondiale segnala come progressivamente decrescente. L’importanza degli Usa anche nell’attuale frangente è dovuta alla sua centralità dominante nell’economia cosiddetta globalizzata, il cui assetto mondiale è determinato da contrapposizioni tra potenze per lo sfruttamento monopolistico delle risorse naturali, e deregolamentato per quelle umane. In quanto ancora sede del potere finanziario e militare in grado di gestire e/o ricattare paesi e capitali concorrenti o contrastanti, gli Usa hanno finora rivestito un ruolo decisivo nello sviluppo di un’economia mondiale forzata all’incremento incondizionato di un mercato globale, le cui innovazioni tecnologiche o “razionalizzazioni” tendono sempre più all’aumento della composizione organica dei capitali e conseguente risparmio della forza-lavoro. In siffatto contesto è da aggiungere che, alla ricerca della stabilità politica per il solo vantaggio dei capitali più forti, il degrado planetario e umano non può che avere un rilievo del tutto secondario, meritevole di considerazione soltanto nella misura in cui si ha ancora bisogno di un consenso sociale per procedere nella illimitata privatizzazione della ricchezza sociale.

Dalla recente crisi del 2007-2008, infine, si evince l’ormai irrealizzabile impulso del mercato dei capitali all’incremento della valorizzazione, da cui sarebbe scaturito il vetusto mito del benessere da generalizzare alle popolazioni sottomesse. La sopraggiunta crisi pandemica ha poi lasciato emergere un altro dato endogeno sempre latente, ma non così evidenziato – soprattutto a New York e in Brasile - proprio dal crescente numero di contagi e morti inumati nelle fosse comuni, stimati solo per difetto anche a livello mondiale, il dato cioè dell’incompatibilità tra gli automatismi del sistema e la sopravvivenza delle popolazioni impoverite del pianeta, escluse o comunque limitate nell’accesso al cibo e alle cure sanitarie. La compromissione del sistema immunitario, infatti, dovuto a mancanza o scarsità di alimentazione, cui si è aggiunta una pericolosa connettività tra specie che ha dato luogo alla mutazione virale nella individuazione dell’ospite, ha determinato la diffusione così repentina e letale della patologia virale, che avrebbe richiesto invece un impegno sanitario ampliato oltre la catastrofica limitazione al ribasso dei costi capitalistici, soprattutto anche nei molti paesi impoveriti. La impossibilità poi, soprattutto riguardando i nostri paesi europei, di interrompere le filiere di attività produttive per non abbassare ulteriormente l’estrazione di plusvalore, ha altresì reso visibile la contraddittorietà tra il “fine miserabile” della formazione dei profitti e quello invece della riproduzione sociale.

In questi giorni, quale esempio attinente a quanto suesposto, tra le tante altre cronache analoghe, è venuto alla luce lo “scandalo” del nuovo focolaio d’infezione nel Nordreno-Westfalia, in Germania (la Repubblica, ivi). 1.300 casi di coronavirus scoperti nel macello di Tönnies, potente industria della carne, dove vengono inflitte orrende torture agli animali – per velocizzare ovviamente il processo produttivo – e tenute nel degrado le maestranze straniere da sfruttare senza più regole, per ottenerne il massimo di “produttività”. La denuncia dell’animalista F. Müllin, che rischia la vita, attesta che non ci sono lavoratori tedeschi all’interno della fabbrica di Rheda-Wiedenbrück, ma solo dell’Europa dell’Est, cioè più ricattabili sia nella lecita falsificazione degli orari di lavoro, sia nella conseguente remunerazione al ribasso. Il cartellino delle presenze viene infatti timbrato a discrezione dal caporeparto, e le “bestie da lavoro” vengono stipate in ambienti angusti con un solo bagno e una sola cucina per 50 o 60 persone, nella noncuranza dell’igiene come pure del distanziamento fisico anche nelle mense, e perfino nel trasporto subappaltato in cui sono obbligate ad ammucchiarsi in 6 o 8 in piccoli bus. La denuncia depositata di questa realtà per ora non ha sortito effetti sul piano giuridico né politico né sindacale. L’eco, in questi giorni, con l’impunità economico-giuridico-politica dei dirigenti tedeschi della Tyssen-Krupp rimbalza velocemente. Il razzismo, questa volta non per il colore della pelle, ma comunque sotteso nei confronti degli stranieri, per lo più rumeni, è il solito meccanismo altrimenti denominato, ma funzionalmente opportuno nella divisione della forza-lavoro da sfruttare, più redditizia se inferiorizzata nell’umiliazione e nell’abbattimento di ogni diritto – anche umano, come quello del diritto alla salute e alla vita.

La superiorità vincente delle lobby industriali (Tönnies, Westfleisch, Danish Crown) è basata sempre sulla stessa minaccia di dislocare o di aumentare i prezzi, ovvero perdita della fiscalità e del consenso sociale. Lo stato sotto ricatto equivale all’azzeramento della legge esistente, l’umano è solo inutile appendice della forza-lavoro finalizzata alla produzione di plusvalore, altrimenti neppure lei possiede alcun valore. La svalutazione di quest’ultima si è smisuratamente accresciuta dall’eccesso di accumulazione, verificatosi nella crisi di capitale già in atto su cui quella sanitaria si è improvvisamente sovrapposta seppur scientificamente prevista e attendibile. L’impreparazione dei governi, quale legittimazione addotta alle carenze sanitarie oggettivatesi quasi ovunque, non va pertanto ascritta a incapacità istituzionali generiche o individuali - pur presenti! – ma a politiche liberiste di cui i capitali usualmente si servono in ossequio alle intangibili leggi dell’accumulazione capitalistica. Queste fanno innalzare il tasso di sfruttamento mediante la precarizzazione lavorativa generalizzata, privatizzando i settori più redditizi di produzione e servizi, infrastrutture, ecc., riducendo i propri costi o direttamente stornandoli allo stato, facendoli rifluire cioè sulla fiscalizzazione normata.

La frase lapidaria di B. Brecht nel Me-ti (1965) sembra scritta per i nostri tempi, nella speranza che non ridiventino “bui” come lui stesso li definì nel terribile periodo della sua vita: “Tutto ciò con cui non si poteva sfruttare nessun uomo, era privo di valore”.

Scoperta risolutiva dello smart working.

La modifica lavorativa più gettonata in questa fase, caratterizzata dalla necessità di distanziamento anti-contagio, è stata quella di utilizzare il lavoro da remoto. Quello che non richiedeva l’obbligo del ritorno in fabbrica, che ha riguardato quindi professionisti, intellettuali, servizi anche della pubblica amministrazione, dotati o dotabili di strumenti informatici e di collegamenti online. Si tratta in realtà della ri-scoperta di questa modalità lavorativa, dato che la sua prima utilizzazione risale a diversi anni fa, inizialmente pensata per facilitare nella mobilità il lavoro femminile, sempre oberato da una tradizione che ha consegnato alle donne l’ineliminabile fardello del lavoro di cura, da svolgere nella normalizzata gratuità dell’amore. Ora però lo smart working sembra un deus ex machina sceso dalle soffitte dell’attuale teatrino economico, a salvare i capitali in astinenza da lavoro bloccato dalla pandemia. Od anche, contemporaneamente, può funzionare concretamente da ombrello sotto cui riparare la brama di liquidità facile, “agile” o “intelligente” è il caso di dire, nel consueto scrocco nei confronti dello stato. Ma di ciò si dirà in seguito. Questi vampiri – per mantenere l’immagine accreditata nel Capitale – indeboliti dalla mancanza di sangue vivo produttivo di pluslavoro, sono finalmente approdati alla vecchissima formula del lavoro domestico, rimodernato però tecnologicamente e perciò sempre pronto a intensificare la giornata lavorativa all’ultimo grido, ovvero proiettata nell’estensione indiscriminata di un tempo senza limiti, di un tempo lavorativo contiguo o proprio in comune a quello di vita. D’altronde, la forza-lavoro concettualmente è un’astrazione se la pensiamo “sanificata” dal corpo che la contiene. L’escamotage del sistema è di rendere di nuovo reale, materia operante solo quest’astrazione formalmente acquistabile come valore di scambio, mentre nella “durata” temporale necessaria al suo compratore legale diventa poi un valore d’uso discrezionale. In seguito, quel corpo con i suoi bisogni naturali ed anche sociali diventa un residuo, un accessorio insignificante se non proprio un rifiuto da smaltire, il cui tempo perciò può dileguare nella subalternità dell’inutile. “In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore… cioè i mezzi di produzione… e i mezzi di sussistenza… benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato” (Marx 1867, libro I; Marx 1933).

In questa fase eccezionale la possibilità di usare la tecnologia esistente per il lavoro da remoto, dato il necessario distanziamento fisico, ha sicuramente fornito uno strumento ottimale alla prosecuzione di molto lavoro altrimenti impedito, ciò non avrebbe dovuto significare però che questa formula diventasse il grimaldello per costituire un aggravio lavorativo, e non solo, per i suoi tanti destinatari abbandonati all’assenza di qualunque normativa, che immediatamente ne avrebbe dovuto regolare lo svolgimento. Per capire l’entità del suo uso ci si è affidati ad alcuni dati di ricerche, per i soli calcoli numerici, che si osservano solo come base o spunto di considerazioni che tentino di mettere a fuoco la complessità, per lo più ignorata, dei problemi connessi alla generalizzazione di un uso della digitalizzazione lavorativa, quale oggettivazione progressiva dell’innovazione sociale.

Wall Street Italia (WSI): alcuni dati riportano che prima della pandemia i lavoratori in smart working erano solo 31% ora sono aumentati fino all’80%. Dalla Ricerca “Lo smart working in Italia, tra gestione dell’emergenza e scenari futuri” dell’ANRA (Associazione Nazionale dei Risk Manager e Aon) su come è cambiata la vita lavorativa degli italiani nella ricerca, emerge che sono coinvolte grandi imprese (45%) e micro e piccole (44%) con un duplice obiettivo: 1) offrire una panoramica su problematiche e vantaggi nell’affrontare la conversione al lavoro agile tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo; 2) comprendere come possa diventare uno strumento nel futuro e come modificare l’organizzazione e la quotidianità lavorativa. Le aziende che basavano la propria decisione su possibili problematiche relative alla pianificazione, gestione e controllo delle attività sono risultate il 44%, sulla mancanza di strumentazione idonea il 29%, o sul timore di un calo della produttività il 26%. I lavoratori hanno poi riscontrato che oltre il 70% delle proprie attività poteva essere svolto da remoto, anche se rimaneva la difficoltà nella pianificazione e gestione delle attività (che però scende dell’11% rispetto alla percezione pre-covid), forse perché è mancato il tempo per una migliore organizzazione.

Gli impedimenti per lo più riscontrati sono dovuti a una generica “mancanza di cultura” tra i piani alti cosiddetti, in particolare preconcetti legati a mancanza di fiducia nei propri dipendenti secondo i ritmi e i tempi diversi richiesti. Ma tale difficoltà sembra essersi abbastanza risolta da quando si è stabilizzata una certa quotidianità. Atri vantaggi e svantaggi sempre rilevati all’interno di questa ricerca riguardano il fattore tempo: un 47% è risultato a favore di un bilanciamento tra vita lavorativa e non, o di una maggiore autonomia (43%), con un migliore equilibrio tra vita privata e professionale. Gli svantaggi riguardano invece la separazione mancata tra ambiente lavorativo e domestico (48%), e soprattutto la difficoltà nel limitare le ore dedicate al lavoro (58%). Inoltre si sono riscontrate polarizzazioni per altre percezioni estremizzate. Lo smart working rimarrà infine come modalità di lavoro principale anche nel “new Normal”: a sostenerlo è il 48% di chi ne ha usufruito e il 64% di chi non ne ha avuto la possibilità.

Nella ricerca su InfoJobs[3], piattaforma per la ricerca del lavoro online, si trovano altre percentuali su altri punti quali assenza di: 1) socialità e confronto con colleghi 27%; 2) comodità della propria postazione 11%; 3) piacere di prepararsi alla giornata con outfit e make-up 10%; 4) chiacchierata con colleghi, clienti e fornitori 8%; 5) pausa caffè o pranzo con colleghi. La produttività rimane comunque invariata per oltre metà del campione, solo il 7% dichiara un calo per la difficoltà di gestire familiari in smart working o figli che necessitano di attenzione, dato che sale al 33% per donne con figli conviventi. Lo scenario post covid 19 in smart working viene visto come un’opportunità ma non come una possibilità alternativa al lavoro in presenza. Il 71% dice sì al lavoro agile ma solo per 1 o 2 giorni a settimana (89% per donne con figli 55% per uomini sotto stesso tetto con prole).

Le 5 cose risultate positive sono: 1) risparmio di tempo per gli spostamenti, 49%; 2) flessibilità degli orari, 19%; 3) possibilità di gestire le esigenze personali e lavorative, 17%, per donne con figli, 30%; 4) niente distrazioni, 11%; 5) videocall in sostituzione dei meeting in presenza. Abitudini: 14% maggiore responsabilità del team, maggiore fiducia dei capi privati del controllo.

Dalla maggior parte di questi dati, emerge una sorta di fotografia dell’esistente i cui pro e contro sono sostanzialmente privi di motivazioni, obiettivi e significato sociale sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori. Soprattutto non viene alla luce la storicizzazione – non quella numerica – di questa modalità lavorativa, in cui l’ormai lontana magnificazione ideologico-politica ad opera dell’ex ministro Poletti [4], ragguagliava rozzamente sulla necessità di abolire il criterio temporale quale prodotto innovativo. Pochi giorni prima,[5] il suddetto ministro si era infatti esibito alla Luiss in un discorso “culturale”, dato che questo piano era quello più importante da mutare per abbattere “l’ora-lavoro” come “attrezzo vecchio che non permette l’innovazione”. Questa dunque richiedeva “meno cessione di energia meccanica a ore e sempre più risultato. Per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”. Quella “libertà”, nelle parole dell’allora ministro, era chiaramente la libertà degli imprenditori di imporre loro i nuovi ritmi, in contrasto a quelli biologici, ottimali per le nuove condizioni lavorative, la cui modifica era già largamente prevista. L’incremento di produttività - ossia di allungamento del solo tempo di lavoro superfluo o supplementare produttivo di plusvalore, riducendo relativamente quello necessario - da estendere al lavoro agile, avrebbe dovuto vedere una “partecipazione organizzativa” dei lavoratori, in un mutamento “culturale” che non riguardava affatto istanze sindacali!

Il breve excursus di questo recente passato si propone di rammentare che è solo nel momento opportuno che si utilizzano le innovazioni disponibili, quando cioè l’organizzazione sociale è pronta o ha la necessità impellente di mostrare tutta la sua capacità di affrontare la situazione sopraggiunta, in modo risolutivo ed efficiente. Quanto poi alla produttività che in altri termini riguarda l’intensificazione dei ritmi lavorativi a parità di salario, l’isolamento materiale dei lavoratori, privi anche del confronto e scambio con i colleghi, porterebbe a una condizione di ritrovarsi inermi di fronte all’eventuale e sempre facile arbitrio datoriale.

Il cambiamento culturale cui sin da allora ci si riferiva era allora l’abbandono di un riferimento prioritario ai rapporti di proprietà, da cui sempre discende il “comando sul lavoro altrui”, quello che decide sulle “condizioni lavorative” quale monopolio del rapporto di classe. Questo comando, suadentemente dissimulato nell’apparente innovazione tecnologica, perdura invece apertamente oggi nell’uso che i datori di lavoro continuano ad esercitare nell’eliminazione della misura temporale della prestazione lavorativa costretta entro un orario discrezionale, in cui ad ogni ora è possibile inviare ordini e domandare “favori”, o richieste di aiuti da parte di colleghi in difficoltà cui non si vuole negare solidarietà umana.

Da documenti aziendali da mantenere nell’anonimato a tutela dei lavoratori colà occupati, emerge infatti un incarico di maggiore responsabilizzazione dei lavoratori autorizzati a svolgere mansioni in smart working, per una maggiore autonomia rispetto al lavoratore tradizionale. Il lavoratore incaricato deve pensare di: 1) organizzare entro la propria abitazione una postazione di lavoro dedicata con appositi device (mezzi) analogamente a quella lavorativa in ufficio; 2) ridurre le interferenze di altri soggetti (rumore o ingerenze/distrazioni); 3) organizzare il lavoro con orari precisi, riducendo al massimo interruzioni o “pause caffè”, pur prendendosi quelle necessarie; 4) rendere conto o ragione del proprio lavoro per dare e ricevere feedback, rendendosi presente e efficiente anche da remoto. La strumentazione necessaria dev’essere quella di proprietà personale, ovvero telefono, computer, connessione (fissa, wi-fi, wireless) è a carico del lavoratore.

Al fattore “risultato” il capitale ha sempre teso. La retribuzione presumibile è di un ripristino di salario a cottimo, già analizzato nel Capitale (Marx 1867) come una forma di salario a tempo, che in genere però risulta meno vantaggioso di quello a cottimo, ovvero a pezzo, a risultato, a progetto ultimato. La commissione lavorativa si basa sull’ottimizzazione temporale della realizzazione del lavoro, calcolata quindi in modo prevedibile dal datore, la cui esecuzione viene però affidata all’abilità, esperienza, qualità del cottimista, che pertanto sviluppa insieme alla sua individualità, un sentimento di libertà, autonomia e autocontrollo che non sempre rispecchiano la realtà effettiva. In base a questo piano percettivo, cioè se l’incaricato non possiede la capacità media di rendimento in termini di tempo di lavoro socialmente necessario, è possibile conseguire l’obiettivo di intensificazione lavorativa o sfruttamento, pena la rimozione dall’incarico, con licenziamento o sanzioni di vario tipo. In ogni caso viene ad attuarsi un’auto-coercizione al lavoro più o meno cosciente, le cui perdite di tempo sono solo a proprio carico. Oltre all’annullamento illusorio della dimensione temporale, infine, il lavoro smart riduce i costi aziendali scaricati sul lavoratore, senza però abolire il controllo anche da remoto con tutti i dispositivi di rendicontazione richiesta. Il risparmio sui costi riguarda anche quelli relativi a infortuni, pulizia, igienizzazione, riduzione dei locali aziendali, piani di investimento tecnologico, acquisti con incentivi, bonus quindi commesse, ecc.. In tale contesto incrementare le attività digitali, i processi innovativi che hanno effetti anche su altri settori economici, può indurre in errore chi pensa alla non neutralità della scienza e della tecnologia. Anche in questo caso, va invece sempre salvaguardato il concetto per cui, sebbene la ricerca sia sponsorizzata e indirizzata a beneficio degli obiettivi storici dominanti, l’oggettivazione del risultato raggiunto non va confuso tout court con il suo uso previsto o conseguito quale alienazione specifica del modo di produzione presente, nel senso che l’uso di qualunque strumento è modificabile sulla base di fini alternativi concretizzati. Se dunque la tecnologia è sicuramente figlia del suo tempo, comprese le sue inevitabili limitazioni, il suo uso appartiene poi alla storia universale umana, diviene mezzo per l’eterogenesi dei fini.

Il tempo di lavoro infine tende a scomparire solo perché tende sempre più a coincidere col tempo di vita, portando così alla luce un elemento anche giuridico: se si cede una quota parziale di tempo di vita, si è liberi per la restante parte, ma se il tempo di vita è divenuto completamente proprietà in uso di altri, allora si è schiavi. “Delle mie attitudini particolari, corporali e spirituali e delle possibilità dell’attività posso alienare prodotti singoli ad un uso limitato nel tempo da parte di un altro, poiché esse mantengono, giusta tale limitazione, un rapporto esterno con la mia totalità e universalità. Con l’alienazione di tutto il mio tempo concreto, per mezzo del lavoro e della totalità del mio prodotto, renderei proprietà di un altro la sostanzialità di essi, la mia universale attività e realtà, la mia personalità”. Diversa è la cosa e il suo uso. Solo in quanto questo è limitato è differente da quella. “La totalità delle manifestazioni di una forza è la forza stessa – degli accidenti, è la sostanza – delle individuazioni, è l’universale” (Hegel 1821). “Esempi di alienazione della personalità sono: la schiavitù, la servitù, l’incapacità di possedere proprietà, la non-libertà della medesima, ecc.; un’alienazione della razionalità intelligente, della moralità, dell’eticità, della religione, si presenta nella superstizione, nell’autorità e nel potere, ceduto ad altri, di determinare e di prescrivere a me ciò ch’io debbo compiere come azioni (quando uno s’impegna espressamente alla rapina, all’omicidio e così via o alla possibilità del delitto), a me, che cosa sia obbligo di coscienza, verità, religione, ecc. Il diritto a tale inalienabilità è imprescrittibile;…in quanto possessore della mia personalità sono soggetto capace di diritto” (Hegel 1821).

Per saper ridere di cose serie – secondo il suggerimento brechtiano sull’umorismo - un’ultima “innovazione” va infine menzionata: grazie al coronavirus molti (qualche milione di) lavoratori in smart working sono stati messi in cassa integrazione, a volte anche a loro insaputa, pur continuando a lavorare dalla propria abitazione[6]! La retribuzione viene così pagata dallo stato gravando su costi pubblici e non aziendali privati. La richiesta effettuata all’Inps è stata facilitata dalla indicazione, come causale, “Covid-19 nazionale”, e i controlli previsti non hanno colto, come spesso accade, la truffa ai danni dello stato e dei lavoratori in questione che hanno percepito anche una decurtazione dello stipendio. Dal punto di vista giuridico sarebbe previsto che ritmi e tempi vengano liberamenti scelti dal dipendente in smart working, mentre se si è in cig non sarebbe consentito lavorare. L’incompatibilità legale di siffatta compresenza risulta evidente, eccetto a quei datori di lavoro che si sono furbescamente sganciati da ogni responsabilità nel merito. Questi hanno infatti demandato ai propri lavoratori la valutazione se continuare o meno il lavoro o progetto iniziato, sebbene non si dovesse, in piena “libertà di scelta”, portare a compimento l’attività in questione, quasi fosse un affare privato non riguardante la contribuzione pubblica! Lo strumento di welfare aziendale, se così lo si voglia considerare, si presta non solo all’incremento incondizionato dello sfruttamento difficilmente quantificabile, ma anche all’incremento dell’uso dello stato per fini privati, nell’abitudine conclamata della socializzazione delle perdite.

A denunciare questo stile è il Presidente dell’Inps Tridico[7] che afferma: “Con la Cig aiutiamo anche aziende che non riaprono per pigrizia o opportunismo”. Sembra infatti che dopo i tre mesi della dichiarata emergenza sanitaria siano stati chiesti aiuti complessivi per 8 milioni circa di dipendenti, di cui non tutti hanno ricevuto ancora l’assegno, mentre da parte di Confindustria si è risposto solo con lo “sconforto” per le “offese al mondo imprenditoriale”. Questa difesa sostanzialmente elusiva del problema, ma paga di aver sostenuto il Paese nel periodo del lockdown nella continuità operativa dei settori essenziali, pare ignorare o voler disconoscere la realtà di molti lavoratori costretti ad andare al lavoro di nascosto, dopo esser stati messi in cigd (cig in deroga) per covid, perché silenziosamente richiamati in azienda, magari con un piccolo contributo come allettamento. Soprattutto al Sud, dove la presenza sindacale è da sempre più debole e “disattenta”, diverse imprese beneficiano dell’emergenza sanitaria, come di qualunque altro disastro ambientale e non, per rimpinguare le proprie casse a spese dei contribuenti italiani che, come diceva Petrolini a proposito dei poveri, “hanno poco, ma sono tanti”. La denuncia che Carlo Bonomi dovrebbe effettuare nei confronti di questi imprenditori fuorilegge, magari espellendoli da Confindustria, non può arrivare per mancanza di consapevolezza, o di interesse a particolari “etici”, o per l’impegno prioritario a combattere “il pregiudizio anti-imprenditoriale”.[8] Ma la mancata denuncia dovrebbe anche contemplare il caso in cui i 600 euro di bonus dovuti a chi risulta in partita Iva, vengono dietro richiesta esplicita “girati” all’azienda per la continuità lavorativa del dipendente “autonomo” – cioè non assunto, pertanto non avente diritto alla cigd. Questo, che avrebbe l’aspetto di un vero e proprio ricatto, è diventato invece uno stile aziendale-covid, innovazione ad hoc   nell’organizzazione del lavoro che coinvolge molti professionisti che vogliono continuare a lavorare, facendo emergere almeno la finzione del lavoro “indipendente”, visibilmente ricondotto in tal modo alla dipendenza del lavoro salariato, ovvero strutturalmente funzionale alla riduzione del lavoro necessario per la propria sussistenza, a favore della produzione di profitti. Infine, da più parti si segnala l’utilizzo della cig per non pagare molti lavoratori e accollarli allo stato quale ammortizzatore sociale di turno. Qualche esempio per tutti: Arcelor-Mittal che senza preavviso ha messo in cig altri 1000 lavoratori; Sirti che ha annunciato 700 esuberi attivi nel settore della manutenzione della rete telefonica, ma dietro cui si cela il mondo sotterraneo dei subappalti, le cui vincite al ribasso di gara vengono pagate dal ribasso retributivo dei dipendenti, secondo un criterio di aggiudicazione molto in voga anche presso ‘ndrangheta o camorra.  

Dalla più che attuale analisi del Capitale (Marx 1867, I, vol. III, 23) si trae la continua produzione da parte di questo sistema di una sovrappopolazione relativa, ossia la messa in libertà di lavoratori che risultano in eccesso rispetto alle mutate esigenze dell’accumulazione. “L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena, durante il periodo della sovrapproduzione e del parossismo, le rivendicazioni”. Quanto più si produce per una maggior ricchezza altrui, tanto più viene precarizzata la funzione lavorativa e viene impedita la cooperazione tra occupati e non occupati, di cui si è fatta perdere la memoria anche ai sindacati cosiddetti più rappresentativi. La categoria di questa sovrappopolazione relativa che ora si è presa in esame è quella dei lavoratori stagnanti, attivi come lavoro ma con un’occupazione irregolare, le cui caratteristiche sono: “massimo tempo di lavoro e minimo di salario”. Oltre a tutte le forme di lavoro a domicilio, riguarda anche il bracciantato stagionale, quello soggetto al caporalato, al lavoro nero, i cosiddetti riders, i settori della logistica, ecc., ovvero tutte le reclute di una temporalità lavorativa incerta e soggetta a quantificazione arbitraria, cui è sottratto ogni ricorso a diritti sociali resi indisponibili. L’epidemia tuttora in atto ha messo a nudo molte falsità apologetiche di questo sistema e ne ha evidenziato la contraddittoria progressività nel suo aspetto più distruttivo, che ha messo a rischio la sopravvivenza immediata e futura della stessa natura oltre quella della specie umana. L’epidemia sanitaria è solo seconda alla quella del lavoro stagnante, modernizzato nel termine apparentemente neutro di “atipico”, “informale”, dove l’irregolarità strutturale non rinvia più all’incremento dello sfruttamento - ovvero dell’erogazione gratuita del lavoro coatto. L’epidemia della precarizzazione, ha un effetto analogo a quella sanitaria inducendo una modalità di morte sicuramente più lenta, meno visibile e inquietante, ma altrettanto efficace a causa di impoverimento, fame, impossibilità di accesso a cure, ecc. Le parole di Brecht (1965) a tale riguardo sono insuperabili nella loro sintesi ed intensità razionale: “Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato”.

Se la divisione del lavoro ha costituito storicamente la condizione del progresso umano, ora questo è divenuto prevalentemente strumento di oppressione. Si viene a disporre della divisione del lavoro in modo tale che lo sfruttamento e l’oppressione possano sussistervi in mezzo come se anch’esse fossero un lavoro cui alcuni abbiano a accudire alacremente secondo convinzioni inculcate. Le convinzioni devono invece significare dominio degli argomenti, cioè del funzionamento dei meccanismi sociali per convincere altri esseri umani ad esercitare il dominio sulla propria vita e su quella del futuro delle generazioni a venire. Brecht (1965) ci ha indicato il “punto di vista straniato nei riguardi della propria singola individualità, entro un contesto sociale che condiziona ma anche che permette di contribuire a incidere consapevolmente. Solo così il singolo può vivere una vita degna di essere vissuta piuttosto che lasciarsi vivere”. La “dignità”, sempre ribadita e invocata all’interno del rapporto lavorativo, non ha senso né realtà se dipende dalle condizioni lavorative su cui non si ha alcun controllo. Queste sono appannaggio di un sistema che rende fluttuanti, stagnanti, poveri milioni di potenziali lavoratori esclusi o reintegrati precariamente nel mercato del lavoro, indipendentemente dalla loro volontà e possibilità. L’unica dignità di cui si può disporre è quella di lottare per ottenere il dominio collettivo sul proprio lavoro e con questo sulla società tutta, secondo cui – ancora con Brecht – “il destino dell’uomo è l’uomo”.

     L’incapacità del sistema di capitale a gestire e garantire la vita è ormai divenuta palese. Come aveva analizzato Marx relativamente al prodotto di cui non si avverte il lavoro erogato finché non emerga un “difetto”, così la governance mondiale di fronte al coronavirus ha mostrato, e in alcuni casi ampiamente dimostrato, di non riuscire a “contenere” questo difetto di funzionamento sistemico come per il cosiddetto succitato “comunismo”. Le regole (leggi) di questo modo di produzione, per esistere e riprodursi, possono valere solo come leggi medie della sregolatezza propria del sistema interna alle proprie contraddizioni, senza la certezza di essere adeguate alla capacità di fuoriuscirne. Siffatta incapacità politica, istituzionale e ideologica affonda però – non bisogna mai dimenticarlo - nel movimento secondo cui il denaro (cioè la ricchezza prodotta) si trasforma in capitale, e questo rimanda alla distinzione tra la circolazione semplice e quella capitalistica. Nella prima la ripetizione della vendita allo scopo di comprare trova la sua misura e il suo termine in uno scopo finale che sta fuori di essa, nel consumo, nella soddisfazione di determinati bisogni. Nella seconda, compera a scopo di vendita, invece principio e fine sono la medesima cosa, il denaro come arricchimento assoluto, che pone il proprio scopo non in quanto mezzo ma in quanto fine ultimo, dalla tendenza illimitata. In questo secondo caso, quello nel quale il capitale domina in ossequio a tali leggi, pena il suo tracollo come modo di produzione egemone sul piano mondiale, i bisogni umani sono solo mezzi per l’arricchimento altrui e il lavoro sociale la fonte inesauribile della ricchezza, quale arte del guadagno senza misura, conservazione e aumento esclusivo del denaro, all’infinito (Marx 1867, I, vol. I, 4, p. 167-68). Il senso di questo ultimo riferimento è l’indicazione a tenere sempre presente la necessità materiale dello scambio quale base della politica che ne realizza la modalità e la continuità storica. La contraddittorietà reale tra valore d’uso e valore di scambio non risulta evidente socialmente, se non nei suoi effetti più disastrosi e spesso incontrastabili. Il lavoro, costretto a produrre una ricchezza solo parzialmente fruibile socialmente perché sottratta privatamente secondo quantità tendenzialmente inesauribili, non contribuisce in tali condizioni all’aumento del benessere di tutti, ma può innalzare il livello delle contraddizioni di questo sistema fino al punto di rottura.

Bibliografia

Bersani, Marco. 2020. Riflessioni per un altro mondo necessario, in Oltre il capitale.

Brecht, Bertolt. 1965. Me-ti Libro delle svolte. Einaudi, Torino.

Hegel, Georg W. F. 1821. Lineamenti di filosofia del diritto. Laterza, Bari, 1974, §66 e §67.

Marx, Karl. 1867. Il Capitale.

Marx, Karl. 1933. Capitolo VI inedito.

Ortoleva, Peppino, e Marco Revelli. 1990. Storia dell’Età contemporanea. B. Mondadori, Milano, pp. 573-4.

 

[1] Sir John Bowring (1792-1872), politico inglese, linguista e letterato, scolaro di Bentham; fautore del libero scambio; riuscì a imporre la politica coloniale inglese nell’Estremo Oriente.

[2] La Repubblica, (06.07.2020) riporta 11,3 milioni di contagi e 530.858 morti. Tra i 210 Paesi colpiti nel mondo primeggiano Usa, Brasile e India. Negli Usa si sono verificati quasi 40.000 nuovi casi in 24 ore.

[3] Mariangela Tessa, Infojobs 17.06 e 28.05 2020

[4] Il Sole-24 ore, 1.12.2015.

[5] la Repubblica, 28.11.2015.

[6] Notizie.it, 25.06.2020

[7] Il Fatto Quotidiano, 08.06.2020.

[8] Il Fatto Quotidiano, Giandomenico Crapis, 19.05.2020. “Cassa integrazione per alcuni significa andare a lavorare di nascosto. Ma nessuno ne parla”.

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