Yuri Di Liberto
- Sulla fobia del potere
Rivolgendo uno sguardo ricognitivo al lessico della filosofia dopo la fine del socialismo reale, dopo la caduta del muro di Berlino, ma - in realtà - già a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, non si può fare a meno di notare come le parole d’ordine della vecchia filosofia (rivoluzione, partito, contraddizione, lotta di classe ecc.) siano state lentamente sostituite da un lessico ad esse complementare, ma talvolta con esse incompatibile. Una certa insofferenza per il fantasma di Stalin, nonché un certo imbarazzo per l’adesione di tanta intellighenzia mitteleuropea al progetto comunista, hanno fatto sì che lo scibbolet, la parola d’ordine, del pensiero filosofico-politico post-Unione Sovietica diventasse - e lo è tuttora - quella del ritiro.
Se il progetto emancipatorio della rivoluzione si trasforma in totalitarismo, l’unica prescrizione che vale è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.
Le «rivelazioni sul gulag», nota Jameson, hanno innescato «un’ossessione distopica, una paura quasi paranoica, di qualsiasi forma di organizzazione politica o sociale» (Jameson 2016:2), fobie che di volta in volta prendono di mira la forma-partito o la semplice speculazione su progetti che riguardano la società del futuro. In generale, non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione ‘potere=totalitarismo’, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo «schizo»). L’analisi delle lotte di classe viene spesso sostituita con gergo che rasenta un romanticismo intimista, quando non addirittura un vero e proprio populismo trasversale, populismo al quale non stanno più a cuore le asimmetrie di classe, ma la semplice attestazione che tutti desiderano, indipendentemente dalla classe d’appartenenza. A partire dall’estrema polarizzazione che le differenze di classe hanno manifestato a partire dall’utopia neoliberale, le filosofie del ritiro hanno scelto di trincerarsi all’interno di analisi che rifuggono questioni di composizione, suggerendo spesso modalità di resistenza aprioristicamente allergiche alla presa di potere.
Le ragioni di questa deriva ritiratista in filosofia sono diverse, ma le principali sono almeno due. Innanzitutto, come nota Enzo Traverso, «quando il socialismo reale è crollato, l’utopia comunista si era già esaurita. Nel 1989 la loro sovrapposizione ha rubricato l’intera storia della rivoluzione sotto la categoria di totalitarismo» (Traverso 2016: 18). La prima ragione riguarda quindi il trauma dello stalinismo, a partire dal quale nomi come ‘Marx, Engels, Lenin’ e parole come ‘comunismo, rivoluzione, lotta di classe, partito’ diventano tout court sinonimi di totalitarismo. La seconda ragione, che si manifestava in modo esemplare già nella Scuola di Francoforte, riguarda la demonizzazione della ragione strumentale e del progresso tecnologico, che ormai avevano - secondo Adorno - esaurito ogni potenziale emancipatore e diventavano così strumenti di distruzione, sfruttamento della natura ecc. (ivi p.38). A tal proposito, Traverso ha sottolineato la tendenza di questa «cultura della sconfitta» al «ripiegamento malinconico verso la meditazione e l’introspezione» (ivi p. 61). Ma non si tratta soltanto di un mero elogio dell’introspezione. Gli epigoni della filosofia del ritiro, infatti, proscrivendo qualsiasi organizzazione molare, inducono a pensare la libertà, il fare, l’attività, sempre più spesso in termini negativi o in termini di relazioni orizzontali, molteplicità immanenti. Le filosofie del ritiro sono in generale restie a qualsiasi pensiero utopico, perché è proprio a partire dal collasso dell’esperimento sovietico che «è diventato di moda individuare i semi del totalitario nell’utopico stesso» (Jameson 2016:41, corsivi nostri). L’utopia, nell’accezione utilizzata da Jameson, è da intendersi come progetto emancipatorio concreto; una modalità, quindi, proiettata nel futuro e che ingaggia la lotta di classe con atteggiamento attivo, ponendosi quindi in opposizione all’atteggiamento di rinuncia del potere che le filosofie del ritiro suggeriscono. L’anti-utopismo diventa infatti un generale «anti-radicalismo» (ivi p. 42) e l’ossessione fobica nei confronti del potere costringe queste filosofie al ritiro nelle mere libertà negative o nell’orizzontalità del desiderio. Il ritiratismo filosofico si basa quindi essenzialmente su due postulati: (1) qualsiasi presa di potere è foriera di totalitarismo; (2) l’unica azione rivoluzionaria è la resistenza-ritiro. Questi due postulati, che formano il kernel di questa tendenza filosofica, vengono poi a declinarsi di volta in volta, e a seconda degli autori, in modo diverso. In generale, tuttavia, è sempre manifesto un certo elogio del ritiro, indipendentemente dal modo in cui viene descritto teoricamente.
- Su ciò che dobbiamo fare, tra monasteri e networks
È curioso, ad esempio, il titolo di un testo di Giorgio Agamben (presente in Nudità) dal titolo ‘Su ciò che possiamo non fare’, che fa ironicamente eco al noto Che fare? di Lenin (volontà dell’autore?). In un passaggio si può leggere che «nulla rende tanto poveri e così poco liberi come questa estraniazione dell’impotenza. Colui che è separato da ciò che può fare può ancora resistere, può ancora non fare. Colui che è separato dalla propria impotenza perde invece, innanzitutto, la capacità di resistere» (Agamben 2009:92-93). Ciò che sta a cuore al ritiratista non è cosa fare, ma soprattutto il potere del non-fare. Resistere sul posto, insomma. Magra consolazione… Eppure tanta filosofia, dal crollo del socialismo reale, del partito-guida, ecc. non ha saputo fare altro che proporre variazioni sul tema della strategia del ritiro.
Per filosofi come Deleuze e Guattari cambiano i toni, ma il canone di base è sempre lo stesso. In un passaggio di Rivoluzione molecolare, la nuova lotta di classe, Guattari afferma che dopo il ’68 «è stata iniziata una critica del burocratismo dei sindacati: il principio della ‘delega di potere’ al partito d’avanguardia, il sistema di ‘cinghia di trasmissione’ tra le masse e il partito, sono stati rimessi in questione,» aggiungendo però che tuttavia «i militanti restano prigionieri di molti pregiudizi della morale borghese, e di atteggiamenti repressivi nei confronti del desiderio» (Guattari 2017:11). Fa capolino un altro termine chiave: il desiderio. Mentre in Agamben il ritiratismo si manifesta come elogio del non (impotenza, inoperosità ecc.) e finisce persino per prendere come modello ideale la vita monastica e San Francesco (si veda il suo Altissima povertà), in Deleuze e Guattari il ritiro assume un volto ben più dinamico e anarcoide, il volto del desiderio. Certo, il contesto nel quale Guattari lancia i suoi strali critici è quello di un freudismo (o di un freudo-marxismo) che si era ormai irrigidito in un’ortodossia basata sull’iper-familismo (‘devi amare tua moglie/marito e il tuo padrone’), ma basta saggiare le pagine di Rivoluzione molecolare per rendersi conto che nel rigettare familismo, edipismo ad oltranza, stalinismo, l’autore getta - come si suol dire - il bambino con l’acqua sporca. Il problema del marxismo, per Guattari, è che «in tutte le sue versioni, si lascia sfuggire il desiderio e si svigorisce nel burocratismo e nell’umanesimo» (Guattari 2017:6); e, dall’altro lato, «il freudismo […] ha incessantemente deformato le proprie scoperte fondamentali sul desiderio inconscio, per tentare di ricondurlo, ammanettato, alle norme familiari e sociali dell’ordine dominante.» (Ibid.). Il marxismo e il freudismo sono accusati di rinchiudere o di escludere il desiderio: in un caso il desiderio delle masse si svilisce nel partito, in Lenin, nella guida, nel programma; nell’altro esso perde le sue potenzialità creatrici, costruttive, venendo riportato forzatamente nel letto di Procuste del triangolo mamma-papà-figlio/a. Guattari - ma è operazione sulla quale si basa anche L’anti-Edipo, scritto con Deleuze - sdoppia il movimento rivoluzionario in due: «Il problema che si pone al movimento operaio rivoluzionario è quello di un divario fra: (1) i rapporti di forza apparenti, a livello della lotta di classe e (2) l’investimento desiderante reale delle masse» (Ivi. p.7). Ciò che interessa di più al ritiratista è il secondo punto, ovvero il lato dell’investimento desiderante. Il problema, infatti, diventa quello di «impedire al potere centralizzatore e burocratico di sovrapporsi al necessario coordinamento che comporta una macchina da guerra rivoluzionaria» (ivi, p. 8, corsivi nostri). Questo problema sfocia presto, in Guattari come in Deleuze, in una critica isterica dello Stato: «la produzione reale non ha alcun bisogno di tale sorta di surcodifica [da parte dello Stato], la quale, anzi, non fa che ostacolarla» (ivi, p. 9). Poco dopo si può leggere che quello dell’investimento desiderante (ovvero della «micropolitica del desiderio») non è «un fronte secondario», bensì il focus del conflitto.
Benché l’autore non escluda aprioristicamente il coordinamento rappresentativo del partito, poco dopo afferma che «l’essenziale, diventa il collegamento di una molteplicità di desideri molecolari, collegamento che può portare a effetti di moltiplicazione, a prove di forza su vasta scala» (ivi, p. 12). L’elogio romanzato del desiderio, della vita, dell’orizzontalità, non può che fare il paio ad un rigetto in toto della nozione di ideologia. Ad essere ricusato, in questo scenario di molteplicità desideranti, è l’idea (cara anche alla psicanalisi, freudiana o lacaniana che sia) che nel desiderare, spesso e inconsciamente, ci auto-sabotiamo, ripetiamo scenari funesti, reiteriamo coattivamente modalità che ci recano nocumento, inseguiamo fantasmi pur di barattare con la realtà godimenti spiccioli. Niente di tutto ciò: «Il desiderio non è mai ingannato», dicono Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo, «l’interesse può essere ingannato, misconosciuto o tradito, non il desiderio» (Deleuze, Guattari, 2002:293). Mentre psicanalisi e marxismo prendono il desiderio con le pinze, perché esso patisce spesso di sottodeterminazioni contraddittorie, compromessi ideologici ecc., la nuova lotta di classe suggerita da Guattari, pur di porsi in opposizione con il «centralismo», caldeggia l’opzione di una liberazione totale dei flussi di desiderio. Se l’unica accezione di ‘potere’ è declinata nel senso di un arresto di questi flussi altrimenti liberi, l’unica cosa che resta da fare è quella di opporsi a qualsiasi prescrizione che li possa arrestare.
La ritrosia nei confronti delle (vecchie) armi della critica, epitomate nei nomi di Marx, Lenin, Freud (talvolta finanche Lacan) è spiegato da Todd McGowan attraverso un interessante ragionamento. ‘Marx’, in quanto significante-padrone («master signifier») - spiega McGowan - svolge a livello simbolico lo stesso ruolo che avrebbe un padre autoritario: «Il ruolo che il significante-padrone svolge nel porre fine allo scivolamento del senso e nel taglio delle possibilità lo ha reso impopolare nell’emergente società del godimento.» (McGowan 2004:42). Forse, tanta ritrosia nei confronti dei vecchi codici rivoluzionari (‘Partito’, ‘Lenin’, ‘Marx’) deriva dal fatto che in mezzo a tanto desiderio, questi significanti pongono un ordine e una chiave di lettura che baratta un po’ di idealismo anarchico con un’analisi strutturale e ideologica delle scaturigini del desiderio stesso. Invece, non ci rimangono altro che i concatenamenti desideranti e gli incontri che il desiderio produce. Dove essi ci portino, poi si vedrà… In realtà, in fondo al percorso delle molteplicità, del desiderio, delle molecole, non sembra esserci alcun evento; si tratta di una visione intensiva che basandosi su un affermazionismo ad oltranza, sulle deterritorializzazioni, sul desiderio, non ci dice nulla - ed è un silenzio costitutivo - sul dopo. Per liberarsi dal dogmatismo austero delle formule rivoluzionarie, in particolare la forma-Partito, il ritiratismo ha sacrificato qualsiasi programmaticità. Sempre Guattari, nel testo citato, indica che «bisognerebbe rifiutare […] di cadere nell’alternativa semplicistica fra: il centralismo ‘democratico’ [e] l’anarchismo, lo spontaneismo» (Guattari 2017:9). Eppure, da nessuna parte ci viene detto cosa, in alternativa al semper funestus Stato, possa costituire una via di mezzo tra i flussi di desiderio e la surcodifica inopportuna da parte dei grandi plessi molari (lo Stato, il partito ecc.). Qualsiasi tentativo di porsi come guida-programma del desiderio equivale a «pretendere di disciplinarlo» (Ivi. p. 44).
Inorridito dalla deriva totalitaria del comunismo in Russia e in Cina, il ritiratista, quando non prende a modello la fuga dentro ai conventi (come nella claustrofilia inoperosa di Agamben), ci invita a pensare che qualsiasi ipotesi verticalista - in opposizione alle relazioni orizzontali del desiderio - sia immediatamente da scartare. Ciò che avviene in Francia dopo il maggio del ’68 è una critica di qualsiasi «punto fisso»; critica che, come notano Boltanski e Chiapello, finisce per coinvolgere qualsiasi «escatologia, religiosa o politica, perché queste renderebbero gli esseri dipendenti da un’essenza proiettata nel futuro» (Boltanski, Chiapello, 2007:145). L’orizzontalità desiderante tanto osannata è frutto, notano ancora Boltanski e Chiapello, di un modello connessionista che nasce proprio in quel periodo, e che perdura fino ad oggi. Il «network paradigm» si basa infatti su un interesse filosofico allora nascente riguardo alle proprietà relazionali («relational ontologies») (Ivi. p. 143). Si tratta di farla finita con le immagini gerarchiche e i modelli arborescenti (come le gerarchie di partito) per dare adito esclusivamente a relazioni eterarchiche, rizomatiche, orizzontali. In realtà, ricusare in questo modo qualsiasi verticalismo non garantisce nulla, visto che il modello connessionista (‘flussi di desiderio’) non esclude un potere ben più invisibile e pernicioso. L’equazione secondo la quale ‘liberazione=mobilità’ (nomadismo) fa sì - notano Boltanski e Chiapello - che si crei un regime d’esclusione diverso: se non partecipi alla liberazione (di te stesso) divenendo nomade, rischi in ogni momento di ricadere nell’oblio. Chi non partecipa alla rete semplicemente scompare. Si tratta di ontologie, quindi, che scimmiottano il mondo connessionista nel quale siamo ormai abituati a vivere. L’immagine del rizoma (in opposizione all’albero) risolve il problema del verticalismo creando tuttavia una nuova modalità d’esclusione. Essa lavora grazie ad un peculiare regime di visibilità che esclude ciò che cade fuori dalle sue ramificazioni come semplicemente non esistente. Come non vedere, inoltre, l’assimilazione quasi totale del funzionamento delle piattaforme (Google, Uber, Facebook ecc.) al modello orizzontalista di queste filosofie? Cosa rimane del connessionismo filosofico se non una versione romanzata del neoliberalismo delle piattaforme, delle smart cities?
- Il ritiratismo moralizzante e la revisione storica
Esistono soltanto «differenziali di forza i cui spostamenti producono (piccole) differenze, variazioni continue tra le quali non esiste gerarchia» (Boltanski, Chiapello, 2007:454): oltre a questo ormai vetusto topos della post-modernità non sembra sia rimasto molto da dire, da parte del ritiratismo filosofico. Esso si preoccupa soltanto di non sporcarsi le mani, di rimanere fedele alla sua legge del cuore (per usare un’espressione di Hegel). Nella prefazione all’edizione inglese de L’anti-Edipo, Michel Foucault ci lascia un prontuario dei punti chiave di questa nuova forma di militantismo; tra di essi spiccano «Do not become enamored of power» (Foucault 1983: XIV), non innamoratevi del potere; oppure «sviluppa l’azione, il pensiero e i desideri attraverso proliferazione, giustapposizione e disgiunzione, e non attraverso suddivisione e gerarchizzazione piramidale» (Ivi. p. xiii). Qualsiasi cosa, fuorché il potere. Ritirarsi: sì; desiderare: sì; potere: no. Perché il potere è Stalin, è Lenin, è il partito. Come dicono Deleuze e Guattari: «Tutto comincia con Marx, prosegue con Lenin e termina col ‘benvenuto signor Breznev’. Sono ancora rivoluzionari che parlano a rivoluzionari, o un villaggio che reclama la venuta di un nuovo prefetto? E quando ci si chiede quando cominci ad andar male, fin dove bisogna risalire, fino a Lenin, fino a Marx?» (Deleuze, Guattari 2002:432).
Si crea così una pericolosa (nonché storicamente fallace) equazione tra il verticalismo, che fobicamente queste filosofie osteggiano, e il fascismo: non c’è alcuna differenza tra Lenin, Marx e Breznev. La parola d’ordine è ritirarsi, creare concatenamenti desideranti, combattere il fascismo che è dentro di noi, non-fare, diventare inoperosi. Il ritiratista è costantemente impegnato a indicare il fascismo degli altri e a mondare il proprio; diventa sensibile alle ‘cattive passioni’ di chi pensa che la lotta di classe sia una lotta dove ‘potere’ è categoria centrale. Il fascismo storico diventa secondario rispetto al fascismo posturale, quello che hanno un po’ tutti, anche senza saperlo. Il tornante ritiratista in filosofia arriva fino alle penne (a dir poco revisioniste) di Pierre Dardot e Christian Laval. Nel loro Il potere ai soviet (2017), ascrivono il fallimento dell’esperienza comunista russa (esclusivamente) a Lenin, retrodatando l’inizio del crinale autoritario e dispotico alle decisioni prese all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Il modello che ricusano è quello del partito-leva, inventato da Lenin. I toni del libro sono, in generale, quelli desumibili da questo lungo passaggio: «Il partito contribuisce alla produzione della classe rivoluzionaria per il tramite della sua avanguardia, che al tempo stesso riproduce la classe iscrivendosi in un’organizzazione razionale del lavoro rivoluzionario, centralizzata e gerarchizzata, e se ne separa per dirigerla. Il partito obbedisce di fatto a un modello disciplinare ricalcato su quelli dell’esercito e della grande industria: è diretto da uno stato maggiore da cui emanano tutte le direttive e le iniziative, è sottomesso all’autorità assoluta del capo, è retto dal potere illimitato dell’organizzazione sulla vita dei militanti che non hanno alcuno spazio di iniziativa e devono dare prova di conformismo, accettare il sacrificio della loro individualità e votarsi al partito sacralizzato. In breve, lo schema del partito è quello della sovranità» (Dardot, Laval 2017: 68). Seguono poi una serie di osservazioni su Lenin, disseminate in tutto il testo, che lo accusano di non aver mantenuto un modello di autonomia (quello dei Soviet prerivoluzionari) e di aver iniziato una vera e propria repressione. È curioso come gli autori attribuiscano a Lenin molte delle più veementi e repressive azioni svolte, in realtà, dal governo provvisorio che proprio la Rivoluzione d’Ottobre veniva a destituire. L’abolizione (parziale) dell’autonomia locale era, per Lenin, funzionale ad un momento di riorganizzazione post-rivoluzionaria in cui lo Stato (non più nelle mani della borghesia) poteva assumere tutte le funzioni che un tempo venivano svolte localmente. Dardot e Laval tratteggiano invece un profilo di Lenin che, più che avvicinarlo a Stalin (come vorrebbero) lo avvicina paradossalmente a Kerensky e alla controrivoluzione pre-ottobrina il cui governo «annunciava come parte della sua politica la liquidazione delle ‘organizzazioni senza responsabilità’ (cioè i Soviet)» (Reed 2017:42), liquidazione che gli autori vorrebbero ascrivere a Lenin senza contestualizzarne le differenti ragioni (e modalità) sottostanti.
Dardot e Laval fanno poca menzione di questi atti reazionari, mentre dipingono un Lenin che in realtà è uno Stalin avant la lettre. Gli autori si impegnano per tutto il testo a fornire una versione storicamente distorta e caricaturale degli eventi e delle condizioni immediatamente pre- e post- rivoluzionarie, e tutto questo solo per poter avanzare l’ipotesi alternativa di un modello rivoluzionario localista, talvolta anche romanticamente frugale; modello che, a ben vedere, poco ci aiuterebbe oggi, momento nel quale i problemi creati dalle crisi (ambientale, economica, geopolitica) richiedono sempre di più un coordinamento internazionale, una cognizione delle mappe globali (basti pensare alla crisi tra nazioni creditrici e nazioni indebitate che fa scricchiolare il mondo sotto i nostri piedi). Forse il tempo delle filosofie del ritiro è finito, o sta per finire. Probabilmente sono formule, quelle del ritiratismo, che perdono sempre di più la loro presa sul mondo, perché ritirarsi è stato più il sintomo di una reazione traumatica (al fallimento del socialismo reale) che una vera e propria proposta politica.
Bibliografia:
Agamben G., (2009), Nudità, nottetempo, Milano.
Boltanski L., Chiapello E., (2007), The New Spirit of Capitalism, Verso, London-New York.
Dardot P., Laval C., (2017), Il potere ai soviet: L’ombra dell’Ottobre ’17 e la democrazia diretta, DeriveApprodi, Roma.
Deleuze G., Guattari F., (2002), L’anti-Edipo: Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino.
Foucault M., (1983) ‘Preface’ a Anti-Œdipus: Capitalism and schizofrenia, University of Minnesota Press, Minneapolis.
Guattari F., (2017), Rivoluzione molecolare, la nuova lotta di classe, Pgreco, Milano.
Jameson F., (2016), An American Utopia: Dual Power and the Universal Army, Verso, London-New York.
McGowan T., (2004), The End of dissatisfaction: Jacques Lacan and the emergent Society of Enjoyment, SUNY Press, New York.
Reed J., (2017) I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Mondadori, Milano.
Traverso E., (2016), Malinconia di sinistra, Feltrinelli, Milano.