Marcello Mustè *
La vicenda delle interpretazioni di Gramsci è attraversata da un motivo ricorrente, quasi sotterraneo, che ha assunto diverse direzioni (ora “di destra”, ora “di sinistra”) e che ha spesso tentato di affermare una pretesa estraneità del pensatore sardo alla tradizione del marxismo teorico, la difformità dal pensiero di Marx, il carattere “sovrastrutturalista” della sua elaborazione, di teorico della società civile piuttosto che della struttura economica e dello Stato politico.
“Teorico della società civile”
La circolazione di tale tendenza è antica, risale ai primi avversari politici di Gramsci e precede la stessa edizione degli scritti carcerari, trovandosi, fra il 1944 e il 1945, in alcuni articoli di Leo Valiani e Franco Momigliano, poi nel più famoso articolo di Ernesto Buonaiuti (Nord contro Sud), che meritò una replica di Togliatti su “Rinascita”, dove Gramsci era appunto definito «non marxista». A partire dalla relazione che Norberto Bobbio tenne a Cagliari nel 1967 in occasione del secondo convegno per il decennale della morte (Gramsci e la concezione della società civile), questa linea interpretativa si è diffusa in maniera significativa, arrivando spesso a costituire una premessa tacita nella lettura dei Quaderni del carcere, sia per dimostrare la lontananza di Gramsci dalla politica culturale dei comunisti sia per argomentare, al contrario, i residui totalitari del suo pensiero, la mai conseguita conciliazione con la democrazia.
Il libro che Perry Anderson dedicò alle Antinomies of Antonio Gramsci era ancora ispirato dalle analisi di Bobbio, anche se le conclusioni (a cominciare da una diversa lettura di Marx) andavano in una direzione diversa. Ma l’idea che Gramsci avesse costruito una eresia solitaria («für ewig», come presto si cominciò a dire, estrapolando una battuta dello stesso Gramsci), isolando il concetto hegeliano di società civile e radicando l’egemonia sul solo terreno delle superstrutture, diventò un luogo comune, portando Augusto Del Noce a sostenere il principio suggestivo di un «suicidio della rivoluzione» e, più tardi, due autori ingegnosi come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe a rielaborare il pensiero di Gramsci in un «post-marxismo» largamente influenzato da posizioni post-strutturaliste, non mancando di segnalare le ambiguità non superate dell’«essenzialismo» di Gramsci.
Nella relazione del 1967 Bobbio poteva appoggiarsi sulle ricerche condotte, proprio in tali anni, su Hegel (Hegel e il giusnaturalismo, 1966) e sul concetto di società civile (Sulla nozione di società civile, 1967). E certamente trasse dallo studio dei quaderni elementi importanti che, nel giro di un decennio, lo porteranno a scavare nelle «grandi dicotomie» del pensiero contemporaneo e a costruire le basi di una «teoria generale della politica» (La grande dicotomia, 1974).
In effetti l’interpretazione di Gramsci era fondata sull’idea che nel pensiero giuridico di Hegel arrivassero a «confondersi» le due linee principali della politica moderna – giusnaturalismo e realismo –, attraverso la sostituzione dello stato di natura con una società civile destinata a essere superata nello Stato come «società razionale». Discutibile in sé, questa lettura di Hegel segnava i passaggi successivi della riflessione, iscrivendo Marx nella dicotomia società civile-Stato, come l’autore che avrebbe tolto allo Stato hegeliano il carattere della «razionalità» e affermato bensì la società civile (e non lo Stato) come forza creatrice della storia, ma identificando seccamente la società civile con la «struttura» e questa con la base economica. Da tale esegesi, ancora una volta discutibile, della Prefazione marxiana del 1859 discendeva, quasi per deduzione logica, la caratterizzazione della teoria gramsciana. Inserito nella «grande dicotomia» moderna tra società civile e Stato e, con Marx, fra struttura economica e superstrutture, Gramsci avrebbe infatti rovesciato l’ordine dei fattori, assegnando alle superstrutture la funzione formatrice nella storia e tornando al significato hegeliano della bürgerliche Gesellschaft (società civile), non più intesa (alla maniera di Marx) come «sistema dei bisogni» e struttura economica ma come «trama» di ideologie e istituzioni.
Il concetto di egemonia
Gramsci tornava a Hegel, dunque, contro la lezione di Marx, sia pure togliendo alla società civile quel carattere pre-politico di negatività (surrogato e traduzione dello stato di natura) che Hegel vi avrebbe riconosciuto. In conclusione, non solo il concetto di egemonia era dedotto dall’orizzonte moderno della «grande dicotomia» tra società civile e Stato, ma tale principio (le cui origini venivano erroneamente indicate nel 1926) si divideva nettamente dalla lezione di Lenin e della rivoluzione sovietica, trattandosi in un caso di mera «direzione politica» e nell’altro di una più ampia «direzione culturale».
Nella relazione di Bobbio si leggevano intuizioni non prive di rilievo, a cominciare da quella relativa alla diversa lettura della società civile in Marx e Gramsci. Senza dubbio, nella struttura composita della categoria giuridica hegeliana, l’uno (Marx) aveva rivolto lo sguardo al «sistema dei bisogni» l’altro (Gramsci) alla «trama» civile, ideologica e istituzionale. I punti più problematici riguardavano sia la lettura di Hegel (il carattere negativo e pre-politico della società civile) sia quella di Marx (l’identificazione fra la struttura e la sua radice economica): ma soprattutto riguardavano lo schema dicotomico dentro cui il pensiero di Gramsci era inserito e da cui era dedotto il concetto di egemonia.
La presenza di Marx
Dopo cinquanta anni di studi (segnati dall’edizione critica del 1975 e dal nuovo metodo cronologico), non si potrebbe più ripetere quella rappresentazione del rapporto Gramsci-Marx che era alla base della proposta di Bobbio. Ricerche puntuali hanno ricostruito la presenza di Marx (specificando edizioni e testi) negli scritti giovanili, l’importanza dei periodi trascorsi a Mosca e Vienna (dove poté anche leggere brani dell’Ideologia tedesca), l’approfondimento (il così detto “ritorno a Marx”) avvenuto progressivamente negli anni del carcere. Anche in questo caso la pubblicazione integrale, con un ricco apparato critico, delle traduzioni che Gramsci elaborò nel 1930-1931 nel Quaderno 7 dall’antologia curata da Ernst Drahn ha fornito indicazioni precise sul metodo della sua intepretazione di Marx e sui testi che intervennero in maniera determinante nella formazione del concetto di egemonia. Non solo per l’ordine gerarchico di decrescente importanza in cui svolse il lavoro di traduzione, alterando la sequenza antologica fissata da Drahn, ma per la corrispondenza fra i testi marxiani e l’elaborazione di concetti capitali dei quaderni: così, le Tesi su Feuerbach indicavano il nucleo della filosofia della praxis (il «rovesciamento della praxis», come tradusse la «umwälzende Praxis» aggiunta da Engels nella terza tesi), la Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica stabiliva i due princìpi della formazione della volontà collettiva, un brano della Sacra famiglia forniva lo spunto per la teoria della «traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici». Inoltre i brani sul salario e sulla merce mettevano fine alla leggenda di un «marxismo senza il Capitale», mostrando la presenza del primo e del terzo libro del Capitale di Marx nella elaborazione dei nodi più profondi dei quaderni, quali – per limitarci ad alcuni esempi – le osservazioni sul mercato determinato, sul cosmopolitismo e sull’americanismo (inconcepibile senza il terzo libro e senza una riflessione sulla caduta del saggio di profitto).
Oggi, ripetiamo, non potrebbe più essere sostenuta la tesi di un Gramsci che «sostituisce» Marx con Hegel, che teorizza la società civile e la funzione delle superstrutture oltre i confini del marxismo teorico: al contrario, tutta la teoria dell’egemonia poggia su una meditazione originale dell’opera di Marx, come si vede, in maniera lampante, nell’uso che Gramsci fece della Prefazione del 1859.
Come abbiamo osservato, l’orizzonte teorico di Bobbio era stabilito nella «grande dicotomia» tra società civile e Stato politico, che trovava uno svolgimento in quella, ulteriore, fra struttura e superstrutture. È probabile che tale lettura della politica moderna si fondasse su alcuni equivoci, sia perché Bobbio tendeva a considerare la società civile hegeliana come una espressione storica dello stato di natura hobbesiano (senza chiamare in causa né la filosofia della storia né le aporie interne della filosofia giuridica di Hegel), sia per la asserita «coincidenza» della società civile di Marx con la base economica. Egli presupponeva che Gramsci avesse trovato dinanzi a sé questo grande dilemma e lo avesse sciolto con un taglio netto.
Come nasce il soggetto politico
Non più Marx dunque, ma Hegel, e oltre Hegel l’idealismo moderno. In realtà (e comunque sia di quella rappresentazione della politica moderna) il pensiero di Gramsci era orientato in una direzione diversa. Per Gramsci non si trattava di scegliere l’uno o l’altro lato della dicotomia, ma di spiegare la formazione delle volontà collettive («come si formino le volontà collettive permanenti») e in generale del soggetto politico (il «moderno Principe», i partiti) dal terreno costitutivo della struttura. Questo era, per lui, il grande problema della politica moderna, che Marx non aveva risolto e che Lenin aveva avuto il merito di indicare (senza riuscire, anche lui, a risolverlo).
Era il nodo che derivava dalla crisi organica della sua epoca, dalla scissione catastrofica tra rappresentanti e rappresentati, dal disfacimento – politico e, prima ancora, teorico – del soggetto moderno. A partire dallo stesso Marx, si poneva il compito di concepire il soggetto non più come un dato ma come il risultato di combinazioni storiche, tra sfera nazionale e internazionale, tra intellettuali e masse. La questione della costituzione del soggetto politico nella crisi moderna diventò, oltre la dicotomia fra struttura e superstrutture, il germe della forma più matura della teoria dell’egemonia. E investì tutte le figure della soggettività, non solo le volontà collettive e i partiti, ma anche lo Stato politico, di cui offrì un «concetto allargato», tale da ridurre a soltanto «metodica» la distinzione tra società civile e Stato.
Ben presto (almeno dalle tre serie di Appunti di filosofia) Gramsci acquistò consapevolezza della portata filosofica del problema, che chiamava in causa non solo Hobbes e il giusnaturalismo ma Cartesio, quindi i princìpi trascendentali della gnoseologia kantiana (e hegeliana), che apparivano trasfigurati ma conservati nella dottrina crociana delle categorie e nel modo stesso in cui Marx e il marxismo avevano affidato la soggettività alla struttura oggettiva dell’economia e delle classi. Come spiegò in maniera limpida nel Quaderno 11, illustrando la genesi dell’egemonia, «l’uomo attivo di massa» (o «lavoratore medio») «ha due coscienze teoriche», fra loro contraddittorie, e senza la costituzione di una soggettività politica rimane prigioniero della fase «economico-corporativa», di una visione del mondo «che ha ereditato dal passato e accolto senza critica». La crisi del soggetto e il compito della sua costituzione diventavano perciò il centro di tutta la riflessione sulla politica moderna e sulla sua crisi.
Per motivi comprensibili, Bobbio datava l’uso gramsciano del concetto di egemonia al 1926 e ne limitava l’accezione in Lenin al significato di «direzione politica». Anche in questo caso le nostre conoscenze si sono estese in misura notevole. Da un lato sappiamo che il concetto di egemonia è più antico in Gramsci, dalle prime ricorrenze di carattere geopolitico all’uso sistematico, dopo il 1923, nella lotta contro Bordiga e nella proposta politica del governo operaio e contadino; d’altro lato, almeno a partire dai libri di Paggi e Buci-Glucksmann, ne conosciamo meglio la centralità nel dibattito sovietico fino al 1929 (quando venne sostanzialmente archiviato), in stretta relazione con la NEP e, dopo il 1924, nella disputa dottrinale contro Trockji.
Inoltre la ricerca storica tende sempre più a connettere l’uso che dell’egemonia si fece tra Ottocento e Novecento in Russia e in Italia con la complessa vicenda del concetto, che nasce nella Grecia classica (da Erodoto a Tucidide, da Platone agli stoici) e torna nell’Ottocento tedesco (Ranke, Droysen) e italiano (Cesare Balbo, Gioberti): che indica, perciò, un principio consolidato del realismo politico europeo, destinato a riemergere variamente nella stessa epoca di Gramsci (Heinrich Triepel, Ludwig Dehio), a informare la moderna metodologia delle relazioni internazionali, fino a diventare una categoria comprensiva dell’economia-mondo contemporanea, come nell’opera di Wallerstein. Il concetto di egemonia ha dunque una vicenda che travalica lo stesso Gramsci e al cui interno Gramsci può essere collocato come un punto alto di elaborazione e sviluppo.
D’altronde la nuova filologia gramsciana ha reso possibile scandire le tappe del progressivo affinamento di questa nozione, dalla prima sistemazione che si legge nel saggio del 1926 sulla questione meridionale alla rielaborazione del Quaderno 1 in relazione al Risorgimento (§§ 43-48), alle tre serie di Appunti di filosofia (che svolgono il tema dell’egemonia sul terreno della teoria), fino al concetto di «egemonia civile», dove il centro della meditazione non riguarda più l’alleanza tra operai e contadini ma il rapporto con la democrazia.
La crisi della democrazia moderna
Possiamo anzi dire che il grande problema della democrazia moderna, il rischio, divenuto attuale in tutta l’Europa, della sua crisi e decadenza nella frammentazione corporativa degli interessi, arrivò a rappresentare il fuoco di tale meditazione, che anche per questo conserva una viva attualità.
Il concetto di egemonia derivò dunque, in misura prevalente, dalla cospicua discussione che aveva accompagnato le rivoluzioni russe e che (come ha mostrato fra gli altri Brandist) si interruppe nel 1929, nel momento in cui Gramsci, dopo la lettera al Comitato Centrale del Partito russo dell’ottobre 1926, manifestava una netta opposizione alla “svolta” e insisteva sul principio della costituente. Proprio allora Gramsci cominciò a ripensare in profondità quella categoria, innestandola nell’orizzonte della democrazia moderna e apportandovi uno sviluppo teorico inaudito. Ciò che importa sottolineare è che, nella rapida evoluzione dei quaderni, non acquistò mai il carattere di un modello sociologico (in coerenza alla critica, rivolta a Bucharin, del marxismo come sociologia) ma delineò un dispositivo analitico mobile e flessibile, un tentativo di ricostruzione del marxismo teorico, centrato, come abbiamo visto, sul compito della costituzione moderna del soggetto politico, nella combinazione in divenire tra sfera nazionale e dimensione globale.
Oltre l’analisi delle ricorrenze lessicali, la genesi profonda del concetto di egemonia risaliva al modo in cui, fin dal lontano 1919, egli aveva interpretato la crisi mondiale come contraddizione fra cosmopolitismo della vita economica e nazionalismo degli Stati, nella mancanza del «conguagliamento della politica con l’economia», che implicava una periodizzazione capace di indicare un punto di frattura nel compimento degli Stati nazionali europei (il 1870) e una ulteriore discontinuità nell’ultimo episodio della «guerra di movimento» e nell’inizio dell’epoca della «guerra di posizione». Una contraddizione, quella fra cosmopolitismo economico e nazionalismo politico, che restava alla radice della crisi organica globale in cui il mondo era precipitato, con l’incapacità di tutti i soggetti a esercitare una reale funzione egemonica.
Il giudizio colpiva, in primo luogo, l’Unione Sovietica, scolpita nell’immagine di un «cesarismo progressivo», inabile a promuovere una nuova forma di internazionalismo. La crisi degli Stati nazionali, la ricerca di un «cosmopolitismo di tipo moderno», che sapesse riguadagnare l’antico progetto di unificazione del genere umano (che era stato del cristianesimo, dell’illuminismo, del socialismo) in una forma non astratta o utopistica, ma coniugandolo con il «punto di partenza» delle nazioni (cioè della storia stessa), rappresentava la fonte di quella combinazione originale tra sfera nazionale e dimensione globale che, nei quaderni, costituisce il fulcro della teoria dell’egemonia.
* Fonte: Marcello Mustè, Leggere Gramsci, fra tradizione e futuro, in Giuseppe Vacca, In cammino con Gramsci, Viella, Roma 2020, in https://www.strisciarossa.it/gramsci-marx-e-il-concetto-di-egemonia/.