di Emiliano Alessandroni

 

Il concetto di Weltliteratur di cui parlò Goethe nel 1827 può essere senz'altro sottoposto a critiche riguardanti principalmente la prospettiva ancora troppo ristretta ed eurocentrica di cui esso si fa portatore, ma possiede nondimeno il merito di stabilire un nesso complessivo fra le varie peculiarità nazionali, aprendo la strada ad una comparatistica che finisce inevitabilmente col chiamare in causa dei criteri valutativi. Nel suo riferimento ad una prospettiva d'insieme e universale tale concetto ha via via acquisito una maggiore legittimità con il progressivo sviluppo del mondo industriale-capitalistico, il quale ha ridotto le distanze geografiche e intensificato quantitativamente le relazioni fra popoli e paesi in precedenza reciprocamente estranei. Si tratta di quel fenomeno che ha assunto poi il nome di globalizzazione, di cui Marx ed Engels, proprio riutilizzando il concetto di Weltliteratur goethiano, avevano cominciato a tracciare i contorni fin dal Manifesto del 1848:

 

Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale1.

 

Tale processo ha fatto crescere la consapevolezza del fatto che, se pure sia presente nelle varie culture una differenziazione data dalla peculiarità storica, geografica e linguistica, tale differenziazione non debba essere intesa in maniera ermetica e impermeabile. In un libro che per la sua verve polemica, ma anche per la sua ricchezza di contenuti, ha suscitato un acceso dibattito, Edward W. Said esprime la convinzione che

 

tutte le culture sono intrecciate le une alle altre, nessuna è singola e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche. Questo, a mio parere, vale tanto per gli Stati Uniti di oggi, quanto per il mondo arabo moderno […] Il nazionalismo difensivo, di reazione e talora paranoico è, ahimè, spesso parte integrante della stessa struttura del processo educativo che insegna ai bambini e agli studenti più grandi a venerare e celebrare l'unicità della loro tradizione (di solito e odiosamente a spese degli altri)2.

 

La ricostruzione di una identità (letteraria e culturale) può costituire un valore universale quando questa non venga costruita in maniera gelosa, protettiva o invasiva nei confronti delle altre identità, ma sappia istituire con esse un rapporto di reciproco riconoscimento, accettando e ammettendo, in primo luogo, gli elementi identitari altrui presenti nel proprio substrato. Nel comporre la propria antologia Poeti italiani del Novecento, P.V. Mengaldo si accorge di un limite oggettivo in essa presente che, con onestà intellettuale, evidenzia nell'introduzione (ed evidenziandolo getta già in qualche modo le basi per superarlo):

 

Sono...il primo ad ammettere che la presente antologia, in virtù dell'arco cronologico assunto e della stessa sua formula nazionale“, abbraccia insieme troppo e troppo poco. Per un verso infatti essa comprende sotto un'etichetta unitaria non solo fenomeni, ma anche momenti letterari notevolmente eterogenei...Per l'altro, che è più grave, essa isola cronologicamente e geograficamente testi scritti nella lingua italiana e nei suoi dialetti dai precedenti e paralleli europei che soli permettono di inquadrarne in modo soddisfacente tanti aspetti fondamentali. Molto semplicemente, è doveroso chiedersi quanto si può intendere della poesia contemporanea del nostro paese fuori del quadro della tradizione simbolista europea e più indietro dell'idea e pratica di lirica instaurata alle soglie del Romanticismo (diciamo pure: con Goethe) e prontamente teorizzata da Hegel e da altri, a capo di una linea di riflessione estetica che giunge ad Adorno e affini e a modo suo alla stessa Estetica di Lukács […] In poche parole il settorialismo sembra compromettere qui irrimediabilmente la comprensione di tutto ciò, e non è poco, della poesia italiana del nostro secolo che fa parte integrante del fenomeno o categoria lirica moderna“ in quanto modalità specifica di espressione e conoscenza, opposizione e utopia caratterizzata in rapporto alla nuova società borghese del capitalismo3.

 

Queste premesse sono a ben vedere più importanti di quanto a prima vista si possa reputare: nella misura in cui marcano la settorialità di una composizione settoriale ed evidenziano le ramificazioni esterne a cui questa rimanda, l'identità costruita rinuncia in partenza alla pretesa di una validità universale, ad ogni forma di gelosia, protettività e disconoscimento delle identità altrui. Diversamente stanno le cose per il libro di Harold Bloom, The Western Canon4. Il volume vanta una serie di meriti che vale la pena elencare: a) si prefigge di contrastare le concezioni prospettivistiche che hanno goduto di notevole fortuna entro l'ampio ventaglio dell'ideologia postmodernista; b) riconsidera l'importanza di una concezione oggettivista e di una ricerca scientifica attorno al valore delle opere letterarie libera da condizionamenti di carattere ideologico5; c) condanna la sovrapposizione di giudizio estetico e giudizio politico promossa da quella corrente che egli chiama con disprezzo School of Resentment, composta da marxisti, femministi, afrocentristi, e della vasta gamma di varianti che rientrano sotto il nome di Cultural Studies. Quest'ultimo punto comincia tuttavia ad evidenziare i limiti prospettici presenti nel lavoro di Bloom: la denuncia della sovrapposizione di giudizio estetico e giudizio politico di cui sono viziati i Cultural Studies è assolutamente legittima; la liquidazione totale e sprezzante che egli fa di questa branca finisce tuttavia, in ultima analisi, per rivelarsi non meno ideologica della stessa corrente che egli intende contrastare. L'assolutizzazione dell'aspetto razziale, sociale, sessuale, ecc., già ideologica come Weltanschauung integrale, lo risulta ancora di più quando si propone di elevarsi ad unico giudizio estetico: in entrambi i casi la parte invade il Tutto, il che costituisce, come abbiamo avuto modo di dimostrare, la dinamica quintessenziale dell'ideologia6. Bloom, reagisce tuttavia a queste operazioni ideologiche con una operazione opposta della stessa natura: nel processo di invasione che la parte compie nei confronti del Tutto, egli non si limita a denunciare tale operazione invasiva, ma finisce per disprezzare la parte in quanto tale fino al punto da negarle legittimità persino in quanto parte. Così facendo è la sua parte critica, che diviene invasiva nei confronti del Tutto, e in questo modo si rende ideologica. Gli aspetti razziale, sociale, sessuale ecc., lo ripetiamo, divengono ideologici come Weltanschauungen integrali e parametri di giudizio complessivi, e tuttavia essi costituiscono aspetti non irrilevanti dell'esistenza umana universale che una letteratura in grado di darne adeguata espressione artistica e sentimentale senza per questo sacrificare altri aspetti esistenziali di non minore rilevanza, non può che guadagnarne in ricchezza ed aumentare il proprio valore estetico complessivo. Criticabili per una serie di innumerevoli fattori, le diverse varianti dei Cultural Studies, dovrebbero in ogni caso esser trattate con minor disprezzo, quantomeno per il fatto di offrire un materiale ampio e vivo per la letteratura. Ma malgrado i buoni propositi che possiamo anche non mettere in dubbio, gli interessi latenti di Bloom sembrano tendere più verso la conservazione sociale e politica dell'Occidente che verso la difesa del valore letterario in quanto tale. L'onestà critica di Mengaldo, il cui interesse principale è rivolto alla letteratura, ammette la settorialità del proprio lavoro, affinché la parte rimanga parte senza diventare invasiva nei confronti dell'Intero, senza trasformarsi in ideologia: un lavoro più ampio, afferma Mengaldo con onesta franchezza, dovrebbe mostrare i legami tra Saba e Heine, tra Montale ed Eliot, tra Fortini e Brecht. Questa stessa onesta franchezza sembra tuttavia mancare a Bloom, che dalla rigidità della sua prospettiva ideologica può permettersi di aprire le porte del canone occidentale ad un autore come Borges senza neppure curarsi di menzionare l'influenza che sul suo percorso artistico ha giocato un'opera come Le mille e una notte. Così facendo, oltre a trasformare l'identità occidentale in una monade irrelata o in un fenomeno endogeno, Bloom finisce per sacrificare, più o meno consapevolmente, una buona parte del suo giudizio estetico sull'altare della gelosia morbosa e ideologica verso il tessuto sociale della civiltà euroatlantica, non differenziandosi troppo, in ultima analisi, dai limiti metodologici di quei Cultural Studies da egli tanto disprezzati.

Prima di stabilire un canone nazionale o occidentale, se non si vuole correre il rischio di anteporre la questione politica a quella estetica, è necessario in primo luogo tentare di definire un canone letterario complessivo desunto a posteriori da tutte le opere della letteratura mondiale, senza alcun tipo di distinzione preventiva. Questo canone letterario può, in ultima analisi, mostrare anche una egemonia della letteratura occidentale, ma questa non deve essere stabilita a priori e in maniera preconcetta, senza passare per quelli che Hegel stesso ha definito i «grandiosi poemi» del mondo orientale: già in Cina troviamo, ad esempio, «piccoli racconti» e «vastissimi romanzi che non possono non stupirci per la chiara rappresentazione intuitiva di tutte le situazioni, per la esposizione precisa di rapporti pubblici e privati, per la varietà, la finezza, anzi spesso per la attraente delicatezza dei caratteri femminili in particolare, così come per tutta l'arte di queste opere in sé compiute»7. In India troviamo poi i «due poemi più celebri, il Ramayana e il Mahabharata» che nella loro ampiezza «ci espongono la concezione del mondo degli Indiani in tutto il suo splendore, la sua magnificenza, la sua confusione, le sue assurdità fantastiche e la sua dispersione ma al contempo nella grazia ridondante e nei tratti individuali e fini del sentimento e dell'anima»8; nel complesso tutto «lo spirito a cui sono improntati questi grandiosi poemi testimonia...di una fantasia» che «è stata in grado di dare forma con originaria poesia alle tendenze fondamentali della coscienza indiana come una sintesi in sé totale del mondo». Una considerazione particolare va fatta inoltre per la grandezza artistica degli Arabi, questi «veri poeti per natura». Presso di loro, «già i canti lirici che raccontano gesta d'eroi, i Mu'allaqat...raccontano, ora con rapido e scattante ardire e con lussureggiante foga, ora con calma assennata e dolce morbidezza le condizioni originarie degli Arabi ancora pagani: l'onore della stirpe, la sete di vendetta, il senso dell'ospitalità, l'amore, il gusto delle avventure, la beneficenza, la tristezza, la melanconia; e ciò con forza non affievolita e con tratti che possono ricordare il carattere romantico della cavalleria spagnola». Si tratta di una «vera poesia...dotata di figure consistenti, autonome e, sebbene abbia tratti stravaganti, eccentrici e giochi con immagini e paragoni, è umanamente reale e saldamente in sé conchiusa». Infine va tenuto altresì conto della poesia persiana: «l'arte epica dei Persiani», benché priva di quel soffio di vitalità immediata necessaria all'epos nazionale e di quella solidità artistica padroneggiata dalla poesia araba, nel suo sviluppo «si estende da un lato a epopee d'amore e di grande morbidezza e profonda dolcezza, con cui divenne celebre soprattutto Nizami; mentre dall'altro nella sua ricca esperienza di vita essa si volge verso la poesia didascalica, di cui fu maestro il rinomato Sa' di, per immergersi infine in quella mistica panteistica che Gialal ad-din Rumi insegna e raccomanda in storie e racconti che hanno la forma di leggende»9. Elaborare un canone scientifico, senza tener conto di questo straordinario e vastissimo mondo letterario, è testimonianza del fatto che il nostro approccio non si è ancora liberato a sufficienza di quei sedimenti ideologici che ostacolano la piena valorizzazione estetica di un'opera, permettendo che interessi e restrizioni concettuali di natura storico/politica si frappongano ad un approccio meramente estetico e disinteressato nei confronti della produzione d'arte.

Merito del libro di Bloom consiste, tuttavia, nell'aver tentato di contrastare quell'atteggiamento, sorto dal sottosuolo dell'ideologia postmodernista, che conduce al rifiuto del canone in quanto tale. Questo atteggiamento si inscrive esattamente all'interno di quell'orbita prospettica già esaminata10 che porta al rifiuto della legge di funzionamento, vale a dire, come abbiamo visto, al rifiuto della comprensione e della Ragione. Entrambi i casi (sia il rifiuto del canone che il rifiuto della legge di funzionamento), oltre che impossibili sul piano pratico-metologico11 (come impossibile è la reale negazione di una filosofia della storia) conducono, in ultima analisi, ad un livellamento dei criteri valutativi molto pericoloso per la vita stessa della letteratura e della sua interna differenziazione valoriale, come è stato giustamente notato:

 

un atteggiamento agnostico o nichilistico intorno al canone sarebbe alquanto pericoloso. Anzitutto – e per me è, questo, un argomento di per sé decisivo –, perché si incoraggerebbe l’appiattimento di valori e il dilagante nichilismo che purtroppo caratterizzano questi nostri anni. In secondo luogo, perché sarebbe un contributo alla perdita di una identità culturale di tipo nazionale, favorendo frantumazioni e spinte localistiche oggi pericolosamente presenti nella società italiana. In terzo luogo, perché, anche da un punto di vista pratico, per un cittadino italiano che giri per l’Europa aver letto solo le poesie del vicino di casa del professore di italiano, o magari degli autori della penisola salentina o dell’Alto Adige, e non invece le opere di Shakespeare e di Leopardi, di Montale e di T. S. Eliot, sembra assai poco utile e produttivo. In quarto luogo, infine, perché non si può ignorare che da quando mondo è mondo non si dà scuola senza canone, e, di conseguenza, non si può lasciare che la questione venga decisa alla chetichella da qualche ispettore ministeriale, come è accaduto col recente concorso (in cui si richiedeva ai futuri professori d’italiano di conoscere quattro poeti del Novecento, fra cui Quasimodo, messo sullo stesso piano di Montale, Ungaretti e Saba, e quattro narratori del Novecento, fra cui Pavese e Vittorini, messi sullo stesso piano di Pirandello e Svevo e trascurando invece Tozzi, Gadda, Primo Levi, Fenoglio)12.

 

La battaglia meritevole condotta da Bloom contro l'atteggiamento nichilistico o agnostico lo ha tuttavia condotto a rimanere incagliato in una posizione dogmatica, fondata, come abbiam visto, su interessi e valori extraestetici.

Il critico italiano Romano Luperini ha affrontato in più luoghi tale problematica13 esprimendo analisi e considerazioni condivisibili. In un caso, tuttavia, il giudizio critico si appiattisce sul livello dell'analisi, così che questa finisce per ricoprirsi di una sorta di carica legittimante. Pur prendendo le distanze sia dal dogmatismo che dal nichilismo nella discussione sul canone, egli concede, in ultima istanza, degli spazi su cui ambedue tali atteggiamenti possono sopravvivere e riprendere a germogliare. Per il critico toscano il canone «è il risultato di una negoziazione continua cui concorrono agenti diversi (la critica, le istituzioni, l'industria culturale, il pubblico dei lettori, la politica culturale del ceto dirigente)»14; come tale esso è «il segno dell’identità culturale di una nazione, la somma dei suoi valori...riflette la cultura e le gerarchie ideologiche dei gruppi dirigenti, ma è anche il risultato di un conflitto, di una lotta per l’egemonia», pertanto esso «per sua natura è sempre relativo a una determinata situazione storica, sempre in movimento e in discussione»15.

Luperini ha senz'altro ragione ad evidenziare come il processo di costruzione di un canone sia la risultante di numerosi fattori, che ubbidiscono prevalentemente a criteri extraestetici: lotta per l'egemonia, industria culturale, valori nazionali ecc. ecc. Questo non significa tuttavia che non sia possibile criticare questa intera operazione di fondo e stabilire un canone basato su criteri valutativi interni alla letteratura stessa. Accettando l'oscillabilità del canone come fatto irreversibile, Luperini rischia di negare la stessa possibilità di una trattazione scientifica e non ideologica dell'universo letterario. L'insistenza legittima sui fattori ideologici e di contingenza storica che inondano i giudizi di valore, la storicizzazione e del prodotto artistico e della valutazione critica, non riesce a dar risposta o soluzione ad un problema che già a suo tempo aveva sollevato Marx:

 

La difficoltà non consiste nel capire che l'arte e l'epica greca sono legate a certe forme di sviluppo sociale. La difficoltà è che esse continuano a suscitare in noi un godimento artistico e a valere sotto certi rapporti come norma e modello ineguagliabile16.

 

Se non esistessero principi valutativi del bello in grado di resistere agli sballottamenti dei processi storici, i giudizi rimarrebbero semplicemente subalterni ai rapporti di forza in gioco, e vana diverrebbe a questo punto persino l'attività del critico: quest'ultima acquista difatti un senso soltanto quando nelle analisi delle opere letterarie contribuisce, con la propria operazione, a stabilire dei criteri valutativi estetici, il più possibile liberi dai condizionamenti che su di essi possono esercitare gli interessi immediati delle forze in lotta. Una valutazione dell'opera sulla base della sua rispondenza ad obbiettivi esterni ad essa (di natura, ad es., politica o sociale) finisce per condurre ad un deprezzamento e ad una incomprensione della stessa: interessi politico/sociali ed interessi artistici mantengono infatti tra loro una distanza ontologica che un noto intellettuale e politico del secolo scorso esprime in questi termini:

 

per il rapporto tra letteratura e politica, occorre tener presente questo criterio: che il letterato deve avere prospettive necessariamente meno precise e definite che l'uomo politico, deve essere meno "settario" se così si può dire, ma in modo "contraddittorio". Per l'uomo politico ogni immagine "fissata" a priori è reazionaria: il politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L'artista deve avere invece immagini "fissate" e colate nella loro forma definitiva. Il politico immagina l'uomo come è e nello stesso tempo come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a "conformarsi" al fine. L'artista rappresenta necessariamente "ciò che è" in un certo momento di personale, di non conformista ecc., realisticamente. Perciò dal punto di vista politico, il politico non sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale. Se la storia è un continuo processo di liberazione e di autocoscienza, è evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come cultura, sarà subito superato e non interesserà più.17

 

La ricerca scientifica sui fenomeni naturali vanta una storia millenaria. Una storia che ha subito anch'essa il filtro delle ideologie, degli interessi materiali e politici, i quali, in numerosi casi, hanno contrastato l'emergere della legge di funzionamento con prospettive di parte che facevano capo, per l'appunto, a prerogative esterne all'oggetto, al fenomeno naturale in quanto tale. Ciononostante numerose conquiste sono state acquisite: la legge di gravitazione universale, la teoria di Darwin, l'affermarsi del sistema eliocentrico, sono risultati fondamentali per estendere il campo di una comprensione e di una valutazione più precisa dei vari fenomeni. La letteratura quale oggetto d'indagine possiede una storia molto più breve e meno sistematica di quella dei fenomeni naturali, e i parametri critici riguardo ad essa sono, pertanto, ancora molto più viziati da interessi esterni all'oggetto di quanto non lo siano nel caso della natura. Eppure compito della critica è quello di indagare le mille sfaccettature di questo oggetto per estendere anche in relazione ad esso il campo della comprensione e della valutazione, fino a stabilire un canone oggettivo, il quale possa essere senz'altro modificabile, ma non sulla base del mutamento di interessi storici, bensì sulla base di una più ampia e corretta conoscenza dell'oggetto in questione, allo stesso modo di come la scienza propriamente detta, corregge e perfeziona se stessa con il progressivo affiorare di nuove scoperte. Anche in questo caso occorre fare riferimento al concetto di progressiva approssimazione alla verità: un concetto in grado di superare quello che suppone, in ultima analisi, il semplice sballottamento accidentale dell'elaborazione teorica da parte degli interessi immediati delle forze in lotta. Questi interessi esterni e la loro azione sui parametri di giudizio vanno senz'altro evidenziati, ma soltanto per aver di essi una più ampia consapevolezza, aumentando la capacità di riconoscerli per così espungerli più facilmente dall'elaborazione dei nostri sistemi valutativi. La scientificità di questi ultimi dipende, in ultima istanza, dalla facoltà intellettuale di scrollarsi di dosso quei residui ideologici che rimandano ad interessi esterni al testo letterario e che, in quanto tali, risultano invasivi nei confronti di quest'ultimo. Soltanto in tal modo l'elaborazione del canone cesserà di apparire, come è avvenuto finora, una pratica autoritaria e si configurerà, all'opposto, come un vero e proprio atto di libertà.

 

 

1Karl Marx/Friedrich Engels, Werke, (Karl) Dietz Verlag, Berlin. Band 4, 6. Auflage 1972, unveränderter Nachdruck der 1. Auflage 1959, Berlin/DDR, p. 466.

2Edward W. Said, Culture and Imperialism (1993), trad. it. Cultura e Imperialismo, Gamberetti, Roma 1997, p. 23.

3Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Oscar Mondadori, Milano 1978, pp. XX-XXI.

4Harold Bloom, The Western Canon: The Books and School of the Ages (1994), trad. it. Il Canone Occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano, 1996.

5Cosa certo non facile da ottenere ma non per questo meno importante.

6Cfr. Emiliano Alessandroni, L'ideologia, una nuova formulazione, in Id., Ideologia e strutture letterarie, Aracne 2014, pp. 111-115.

7Hegel, Estetica, Vol. II, Einaudi, Torino 1997, p. 1226.

8Ivi.

9Ivi., pp. 1228-1229.

10Cfr. Emiliano Alessandroni, Dalla legge sociale alla legge di funzionamento. Ricerca, rifiuto e trasformazione, in Id., Ideologia e strutture letterarie, Aracne, Roma 2014, pp. 39-47.

11Cfr. Romano Luperini, Dogmatismo e nichilismo nella discussione sul canone, Chichibìo n. 10/11, novembre 2000 - febbraio 2001.

12Ivi.

13Cfr. ad es. Romano Luperini, Due nozioni di canone, in Allegoria, 29-30, 1998; Id. La questione del canone, la scuola e lo studio del Novecento, in AA.VV., Un canone per il terzo millennio, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 154-173; Id. Insegnare la letteratura oggi , Piero Manni, Lecce 2000.

14Romano Luperini, La fine del postmoderno, Alfredo Guida Editore, Napoli 2008, p. 67.

15Cfr. n. 31.

16Karl Marx, Il condizionamento storico dell'arte, in Karl Marx-Friedrich Engels, Scritti sull'arte, Pgreco edizioni, Milano 2012, p. 21.

17 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, 2001 Einaudi Torino p. 1821.

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