Mattia Gambilonghi *
Introduzione: autogoverno dei produttori e governo dell’economia nella strategia del comunismo italiano
L'ipotesi di riforma dello Stato che muove il PCI e il suo progetto riformatore, così come la sua concezione di democrazia mista – che vede la dimensione generale e rappresentativa rapportarsi alla base con una ricca articolazione di momenti ed istituti democratici (dai consigli di quartiere ai consigli di fabbrica, passando per le nuove forme di rappresentanza all'interno del mondo della scuola ottenute agli inizi dei Settanta) – delineano un preciso modo di essere della programmazione economica e del governo dell'economia che ha il suo fulcro nel concetto di autogoverno dei produttori.
I lavoratori e la classe operaia sono cioè chiamati ad incidere e (co)determinare la politica economica e i processi produttivi tanto sul livello nazionale, attraverso l'azione svolta dai partiti di riferimento nell'ambito della rappresentanza politica generale, quanto su quello aziendale, attraverso l'azione di pressione e contrattazione e successivo controllo esercitata dai consigli di fabbrica e dalle organizzazioni sindacali nei confronti delle dirigenze d'azienda, riguardo quelle tematiche relative all'organizzazione del lavoro e alla localizzazione e composizione degli investimenti. Nonostante le caratteristiche e le specificità della strategia di riforma e trasformazione sociale delineatasi a livello teorico nel comunismo italiano, quest'ultima risulta accomunata alle altre e differenti realtà della sinistra europea (includendo perlopiù all'interno di questa categoria le esperienze di governo socialdemocratiche) dall'ispirazione e dall'idea di fondo. Ossia, la convinzione che attraverso questo doppio movimento (“dall'alto” e “dal basso”, “statale” e “sociale”) di intervento e di governo delle dinamiche economiche, attraverso l'immissione nel circuito sotteso al processo di circolazione e valorizzazione capitalistica di «soggetti e finalità antagonistiche alla pura logica di mercato», fosse possibile non solo «sottrarre spazio al calcolo puramente economico», ma soprattutto «reagire alla condizione di merce della forza lavoro e agli effetti negativi […] della gestione privata dell'accumulazione»[1].
- Né liberalismo, né istituzionalismo: una nuova concezione dell’impresa, democratica e conflittuale
Alla base della proposta del PCI in materia di democrazia industriale e di controllo operaio, possiamo rintracciare una specifica e determinata concezione dell'impresa, che potremmo definire democratica e conflittuale, volta cioè a strutturare nel regime di fabbrica una tipologia condivisa di potere ed un indirizzo espressione di «una contrattazione tra le opposte forze sociali operanti […] e che si svolga sotto un controllo democratico»[2]. Ovvero, una concezione il cui elemento qualificante consista nell'obbligazione al confronto che viene a stabilirsi tra l'impresa e «le istanze di democrazia operanti nella società», un confronto che realizza la sintesi degli interessi contrapposti non nel chiuso dell'impresa – in modo, cioè, da configurare l'interesse superiore dell'«impresa in sé» – bensì «sulla più vasta scena della società generale, nel dialettico rapporto fra l'imprenditore e gli interlocutori politici e sindacali»[3], e proprio per questo aperta a prospettive di trasformazione dei rapporti sociali. Ciò rende dunque la concezione democratico-conflittuale alternativa sia a quelle concezioni arcaiche e riduttive dell'idea di impresa, in base alle quali quest'ultima veniva considerata «categoria dello scambio» e «istituzione del diritto commerciale», tralasciando al contrario la regolamentazione giuridica della concreta attività produttiva e della combinazione dei suoi fattori – uno «spazio vuoto del diritto»[4] chiaramente figlio della concezione liberal-borghese di libertà di intrapresa economica – e riconoscendo la qualità di produttore al solo imprenditore (e non invece alla forza-lavoro impiegata). Sia, invece, a quelle già citate concezioni (come ad esempio quella sottesa alla Mitbestimmung tedesco-occidentale) istituzionaliste e di carattere comunitario, tali da comportare l'abbandono di un approccio conflittuale alle relazioni industriali in nome di una visione dell'impresa «come sede di collaborazione fra imprenditore e lavoratori per la realizzazione di un interesse ad essi “comune”»[5]. A partire, insomma, dalla “crisi di legittimità” che investe e attraversa l'impresa e l'idea di questa come «mera organizzazione e composizione dei fattori produttivi», si fa strada con forza una concezione volta ad immettere nei meccanismi decisionali e gestionali «soggetti portatori di regole e valori» fino a quel momento assolutamente estranei alla logica grettamente aziendalistica che aveva ispirato e plasmato la conduzione del sistema imprenditoriale[6].
- Le contraddizioni del taylorismo e la rielaborazione del consiliarismo ordinovista
Aldilà però delle concezioni teoriche dell'impresa, il controllo operaio degli investimenti e dell'organizzazione del lavoro prospettato dal PCI rintraccia la propria necessità storica nelle «contraddizioni specifiche all'interno del rapporto di lavoro nella grande fabbrica meccanizzata»[7].
In primo luogo, il riconoscimento dell'inefficacia del «riformismo tradizionale»[8] e di quelle proposte di “politica dei redditi” volte ad incidere sul versante della distribuzione del reddito, prescindendo dal momento della produzione e dalla struttura del mercato e considerando assolutamente indipendente e quindi volontaristicamente predeterminabile la dinamica salariale. Secondariamente, i più elevati livelli salariali affermatisi nel quadro dei patti sociali postbellici, uniti alle maggiori competenze culturali e professionali della manodopera occupata, ma soprattutto – nello specifico italiano – all'assenza di quella manodopera immigrata utilizzata come “valvola di sfogo” delle tensioni legate ai processi lavorativi[9]. È questo mix a generare un vero e proprio cortocircuito e a rendere maggiore la propensione della forza-lavoro ad occuparsi delle problematiche connesse alla produzione e alle modalità della sua organizzazione. Nell'analisi del PCI, le lotte operaie che si sviluppano a partire dalla fine degli anni Sessanta superano insomma l'immediatezza del momento salariale, giungendo ad investire «la struttura gerarchica dell'impresa capitalistica moderna, il lato “oppressivo” del rapporto di lavoro»[10], l'eterodirezione ad esso connaturata.
Una tendenza che, smonterebbe e confuterebbe a parere di un dirigente sindacale come Trentin, tutte quelle teorie tese a sminuire il ruolo dell'attività politico-conflittuale nei luoghi di lavoro e di produzione, o per individuare nel “consumatore”, in luogo dell'operaio, il nuovo soggetto sociale antagonistico – nel caso di una loro «filiazione bernsteiniana»[11] – o per relegare ad un ruolo puramente difensivo l'azione del sindacato di classe, a favore di una sopravvalutazione del ruolo delle «avanguardie politiche»[12] – nel caso invece delle teorie francesi del capitalismo monopolistico di Stato.
Questa valorizzazione delle lotte operaie contro le gerarchie d'impresa e per un intervento attivo nei processi produttivi non è però una scoperta estemporanea, ma affonda le proprie radici nel legame che nell'elaborazione gramsciana veniva a stabilirsi tra organizzazione consiliare ed «edificazione del potere operaio», tra controllo della produzione ed «autonomia della classe», considerando perciò i consigli come l'espressione concreta ed istituzionalizzata della «funzione dirigente della classe operaia» e della critica di massa da essa apportata alla «separazione tra economia e politica, tra società e Stato»[13].
- Il rapporto tra democrazia industriale e governo dell’economia: per una programmazione policentrica
Il controllo operaio e sindacale degli investimenti viene dunque considerato la leva principale per una programmazione economica non tecnocratica ed in grado, da un lato, di rendere la distribuzione territoriale e settoriale degli investimenti permeabile alle esigenze di riconversione ed allargamento della base produttiva proprie del movimento operaio e sindacale, e dall'altro di finalizzare l'attività produttiva alla piena occupazione. Si tratta, insomma, di delineare un nuovo e alternativo modello di sviluppo, tale da produrre una «riduzione delle disuguaglianze sociali»[14], rivalutare il «lavoro produttivo e socialmente utile»[15] e contemperare al suo interno «elementi di socialismo»[16] – e non dunque un modello compiuto di socialismo, quanto piuttosto una società di transizione verso di esso. Un modello, a parere del PCI degli anni Settanta, necessariamente imperniato sull'idea di austerità, intesa non come “mortificazione della carne” e compressione indiscriminata dei consumi, ma come instaurazione di una «nuova scala di valori»[17] e di una drastica selezione e ridefinizione delle priorità in base alle quali indirizzare scelte e risorse all'interno del processo economico e produttivo[18]. È chiaro come un simile disegno non possa affidarsi agli automatismi e alla spontaneità dei meccanismi di mercato e delle esigenze di profittabilità che li orientano e li organizzano, necessitando al contrario – senza per questo giungere alla riproposizione di schemi e modelli burocratici di socialismo[19] – di un accorto e puntuale intervento dei pubblici poteri e della loro strumentazione al fine di delineare un «nuovo quadro di riferimento», un nuovo sistema di convenienza «che possa orientare il mercato»[20] e trasformarne la struttura. Si tratta cioè di dare concreta applicazione all'art. 41 della Costituzione, invertendo il rapporto fra Stato e impresa all'insegna, fino a quel momento, di un «ausilio senza corrispettivo»[21].
Più che alla pianificazione integrale e alla statalizzazione della totalità dei mezzi di produzione, il PCI sembra però puntare alla definizione di un modello che potremmo definire di “pianificazione decentralizzata” o di “socialismo di mercato”, un modello cioè tale da prevedere non un unico centro programmatore, ma una pluralità di centri decisionali posti in equilibrio fra loro e soggetti ad una reciproca influenza. A determinarsi è così un rapporto dinamico tra piano e mercato, fra Stato e sistema delle imprese, configurato in modo tale da non intaccare e non compromettere il pluralismo economico e sociale[22].
- Il rifiuto della codeterminazione e del modello tedesco: per una concezione “circolare” del governo dell’economia
È importante, se non fondamentale, ripercorrere e ricostruire i tratti salienti, gli aspetti principali della politica di programmazione democratica e di governo democratico dell'economia ai fini di una piena e migliore comprensione della proposta comunista sviluppata in quegli anni in tema di democrazia industriale. Nella tradizione del comunismo italiano e a differenza dei modelli centro e nordeuropei, la problematica del controllo operaio e della democrazia industriale, sulla base di quella che viene definita una «visione circolare, unitaria dei rapporti che intercorrono fra la società civile e la società politica»[23], viene infatti a porsi non come elemento a sé stante, come sezione autonoma di un progetto di riforma sociale, bensì come parte integrante e qualificante di questo progetto, determinata da esso ma al tempo stesso determinante la fisionomia stessa del progetto. «Occorre – afferma Galgano - […] una riforma dell'impresa concepita come momento non separato di una più generale trasformazione democratica delle istituzioni»[24]. É sulla base di questa necessità che il controllo operaio degli investimenti (realizzato nelle forme organizzative ed “istituzionali” che ora esamineremo: consigli di fabbrica, conferenze di produzione, piano d'impresa) si configura dunque come «cellula di base della programmazione»[25], primo momento di quella «ascesa delle classi lavoratrici alla direzione dello Stato»[26] così centrale nel discorso pubblico e nell'impalcatura ideologica del gruppo dirigente comunista. Quella che viene respinta è in tal modo la «proposta borghese di democrazia economica»[27], sarebbe a dire, un modo di intendere la riforma dell'impresa – oltre che la ricerca di una mediazione sociale con la classe operaia resa necessaria dalla crisi di egemonia conosciuta dalla società per azioni fondata sul principio della sovranità dell'assemblea dei soci – volto a separare, rendendoli quasi dei compartimenti stagni, il livello delle singole unità produttive dalla sede politica generale, ossia dal «livello dell'organizzazione complessiva del sistema economico»[28]. Confinare nel primo livello – come ad esempio la Mitbestimmung tedesco-federale – la partecipazione dei lavoratori significa infatti per i comunisti italiani preservare la loro subalternità politica e sociale, disegnare una «democrazia corporativa»[29], essendo quello aziendale un livello contrassegnato dalla «logica della necessità», e dotato dunque di margini di manovra ristrettissimi. Una strategia interessata invece non tanto ad incanalare la partecipazione operaia nei sentieri predeterminati dalle compatibilità di sistema, quanto piuttosto ad incidere e a modificare le strutture sociali, gli assetti di potere e le logiche da cui essi risultano permeati, necessita di dislocare l'attività partecipativa dei lavoratori entro le sedi del potere politico generale e di stabilire un legame, una dialettica continua e permanente fra il livello generale e il livello aziendale, incrementando cioè la loro “porosità” in luogo del loro isolamento[30]:
«La riforma dell'impresa non dovrà aprire ai lavoratori le porte degli organi decisionali dell'impresa; dovrà invece consentire il dialogo fra gli organi decisionali dell'impresa e le istituzioni di democrazia politica, dovrà instaurare la possibilità di un permanente raccordo fra formazione delle interne decisioni degli organi dell'impresa e formazione della volontà delle assemblee elettive. Perciò la riforma dell'impresa postula, da un lato, che il parlamento, i consigli regionali, le assemblee elettive di base siano investiti dei poteri di governo dell'economia, nella rispettiva dimensione nazionale, regionale, locale; e postula, dall'altro lato, una modificazione delle strutture giuridiche dell'impresa, che dell'imprenditore il responsabile interlocutore di un dialogo democratico dell'economia[...].»[31]
- I caratteri del modello italiano di democrazia industriale: la partecipazione conflittuale
È chiaro dunque come la prospettiva fatta propria dalla tradizione comunista italiana in tema di democrazia industriale sia quella, non della cogestione e della partecipazione interna, ma di un approccio conflittuale, negoziale ed esterno agli organi di governo societario dell'impresa, che potremmo sintetizzare con la formula di «partecipazione conflittuale» o di «partecipazione negoziale»[32]. Quello della «partecipazione conflittuale» è un modello di relazioni industriali che affonda le sue radici nella stagione di lotte apertasi con l'autunno caldo, avendo poi trovato progressivamente attuazione dapprima nello Statuto dei lavoratori – e nello specifico in quegli articoli, come il 4, il 6 ed il 9, atti a stabilire non solo obblighi di confronto ed accordi preventivi tra le controparti interne all'azienda circa «l'installazione di impianti audiovisivi», ma anche precisi diritti di controllo e facoltà promozionali in tema di sicurezza del lavoro»[33] – e successivamente nei testi degli accordi (aziendali o di gruppo) alla base dei rinnovi contrattuali e del '72, '75 e '76. Nel corso di queste tre differenti scadenze contrattuali, l'attore sindacale avrebbe infatti ottenuto sia il diritto di procedere ad esami congiunti per tutte quelle materie riguardanti l'ambiente, l'organizzazione del lavoro e le «prospettive di investimenti», sia (con la tornata del '76) un diritto di informazione – sulla cui base impostare la propria attività di lotta, contrattazione e negoziazione – in grado di investire «momenti di particolare delicatezza e rilevanza del processo produttivo», vertendo cioè «sulle prospettive produttive, sugli investimenti, sui programmi di nuovi insediamenti, sulle operazioni di scorporo e di decentramento produttivo, sulle ristrutturazioni, sulla mobilità orizzontale»[34]. Una serie di conquiste, una ridefinizione del sistema delle libertà nei luoghi di lavoro e di produzione che segna l'ingresso in una “seconda fase” per ciò che concerne le lotte politiche del mondo del lavoro e della classe operaia. Se infatti la prima era stata una fase caratterizzata dalla lotta per una libertà di tipo negativo, intesa come tutela dall'autoritarismo del potere imprenditoriale in fabbrica – di cui lo Statuto dei lavoratori, testo, come abbiamo visto, non a caso considerato «più libertario che sovietico»[35], rappresenta «il punto d'approdo più alto» – ; la seconda fase si contraddistingue invece per la declinazione positiva delle libertà individuali, che le pone «nell'ambito delle facoltà», della “libertà di”, e che concretizzandosi in un «intervento attivo nel processo produttivo» allarga «la sfera individuale a forma di intervento associato e organizzato, con una tendenza a superare la separazione fra lavoratore e controllo dei mezzi di produzione»[36].
Il sistema partecipativo e di relazioni industriali che ne viene fuori – profondamente influenzato dalle convinzioni e dall'impostazione assunta dai comunisti italiani e dalla CGIL in materia di democrazia industriale – si trova dunque a ruotare attorno a due elementi principali: da un lato, la contrattazione, qualificando quello italiano come un modello di relazioni industriali incentrato sul single channel, ossia su un'attività rivendicativa che trova espressione nel solo canale sindacale – sia pure, come abbiamo visto, articolato sul livello aziendale tramite istituti consiliari di base e rappresentativi della totalità della forza-lavoro – necessariamente esterno all'impresa e ai suoi organi decisionali; dall'altro, l'informazione ed il sistema di diritti che ad essa si riconnette, vista l'imprescindibilità – per un sindacato che intenda svolgere un'azione non limitata al piano della singola unità produttiva ma estesa al contrario alla politica economica nazionale e al modello di sviluppo complessivo – della conoscenza dei dati afferenti alla pianificazione aziendale.
È così che la partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali dell'impresa, alla definizione delle priorità di investimento, così come al controllo dell'attuazione delle intese raggiunta, trova una forma di realizzazione che non inficia in alcun modo il principio dell'autonomia delle parti sociali, che non pregiudica il diritto di sciopero e l'esercizio responsabile della conflittualità sociale:
«E confronto evidentemente non significa semplice denuncia degli aspetti negativi o delle insufficienze o dei limiti dei programmi predisposti dalle imprese, non significa soltanto richieste di chiarimenti su quei programmi. Confronto significa anche possibilità di controproposta da parte dei rappresentanti dei lavoratori; e se c'è possibilità di controproposta, ovviamente non si può escludere l'ipotesi di una convergenza. Si arriva così ad un punto di possibile non conflitto in questa fase: il rapporto può non essere necessariamente un rapporto conflittuale.»
Lo stesso rifiuto opposto dalla cultura politica comunista alla teoria dei «contropoteri» mostra come quello in esame non sia un conflittualismo fine a sé stesso, ma interessato comunque – fatta salva l'autonomia della classe operaia e del sindacato – al raggiungimento di un'intesa con la controparte[37].
Differenziandosi dunque dalle altre esperienze europee, e risultando cioè alternativo sia all'ipotesi cogestionaria – e ai suoi effetti integrazionistici – che a quella immediatamente autogestionaria – e alla logica di contropotere che la contraddistingue –, la partecipazione conflittuale trova la sua ragion d'essere e la sua principale finalità nella limitazione del potere economico:
«Per quanto riguarda il contenuto, si esclude sia l'ipotesi del passaggio dal tradizionale sistema monistico di potere al sistema dualistico, sia quello del passaggio ad un potere monistico diverso (concentrato nelle mani dei soli lavoratori), per avvicinarsi piuttosto ad un sistema di tipo pluralistico, nel quale il potere è sempre concentrato nelle mani del capitale, ma con condizionamenti, interventi e meccanismi di controllo (dello Stato, dei sindacati, dei lavoratori, ecc.) che prefigurano l'immagine di scelte previamente concordate fra varie parti, almeno in alcuni dei momenti essenziali della vita dell'impresa.»[38]
Una prospettiva, questa, che rende il movimento operaio italiano, congiuntamente all'elaborazione giuslavoristica che lo supporta, fattore di rinnovamento dell'essenza stessa del costituzionalismo, in quanto riconoscerebbe come ineludibile, ai fini della costruzione di una società sostanzialmente democratica, la limitazione del potere finanche nella sua dimensione economica e sociale, non arrestandosi perciò alle sole manifestazioni del potere politico e dei suoi corpi. Va poi sottolineato come alla base di questo apparente disinteresse verso il superamento della proprietà privata dell'impresa e dell'attività che le è connessa, non vi sia solo la già ricordata consapevolezza dell'inevitabile storicità dei tempi di questo processo di “estinzione” – la cui progressione non può infatti che andare di pari passo con lo sviluppo e la maturazione di una “imprenditorialità collettiva”, di una socializzazione della funzione e della capacità imprenditoriale ad opera dei “produttori associati” – ma anche la convinzione per cui «il problema della forma della proprietà non coincide con quello della titolarità, cioè della natura pubblica o privata del soggetto proprietario, ma riguarda piuttosto la struttura della forma di appropriazione»[39].
* Estratti dal libro Controllo operaio e transizione al socialismo. Le sinistre italiane e la democrazia industriale tra anni Settanta e Ottanta, Aracne, 2017.
[1] P. Barcellona- M. Carrieri, Governo dell'economia e controllo operaio nelle strategie della sinistra europea, Democrazia e diritto, 1982, n. 4, p. 5
[2] Ibid., p. 34
[3] F. Galgano, L'impresa, il sistema economico, la partecipazione operaia, in C. Smuraglia-C. Assanti-C. Ghezzi-F. Galgano, La democrazia industriale. Il caso italiano, Editori Riuniti, 1980, p. 94
[4] F. Galgano, Le istituzioni dell'economia di transizione cit., p. 134
[5] Ibid., p. 150
[6] A. Cantaro- M. Carrieri, Sindacato, accumulazione, democrazia industriale, Democrazia e diritto, 1980, n. 5, p. 593
[7] B. Trentin, Economia e politica nelle lotte operaie cit., p. XV
[8] Ibid., p. XXIII
[9] Ibid., pp. XXXII-LVI
[10] Ibid., p. XXVI
[11] B. Trentin, Economia e politica nelle lotte operaie cit., p. XVI
[12]Ibid., p. XVII
[13] F. Ferri, La tradizione italiana, in AA. VV., Partecipazione e impresa, Editori Riuniti, 1978, pp. 12-15
[14] Proposta di progetto a medio termine cit., p. 48
[15] Ibid., p. 26
[16] Ibid., p. 19
[17] Ibid., p. 26
[18] In questo senso si esprime Achille Occhetto nel corso di un convegno organizzato dalla Sezione centrale delle scuole di partito dedicato a Stato e progetto di trasformazione della società italiana: «Infatti, mentre l'austerità intesa come politica congiunturale, come sacrifici imposti per la ripresa del vecchio meccanismo di economico non muta necessariamente i rapporti tra Stato e società, tra politica ed economia, una politica di rigore, che sia volta al rinnovamento, proprio perché intende intervenire sull'automatismo dei vecchi meccanismi economici, richiede un nuovo governo dell'economia, richiede in sostanza un nuovo Stato, richiede un nuovo rapporto fra istituzioni, masse ed economia.» (A. Occhetto, Governo democratico dell'economia e riforma dello Stato nel progetto di trasformazione della società italiana, in Perna- D'Albergo- Occhetto- Ingrao, Stato e società in Italia, Editori Riuniti, 1978, p. 94)
[19] Ibid., p. 39
[20] C. De Vincenzi – P. C. Padoan, Per cambiare il mercato far leva sui consumatori collettivi cit., p. 218
[21] S. Merlini, in (tavola rotonda) L. Berlinguer – F. Galgano – C. Luporini – S. Merlini – G. Napolitano – C. Salvi, Gestione dell'economia e pluralismo sociale, Democrazia e diritto, 1976, n. 2, p. 326
[22] Così Giorgio Napolitano: «Io quindi ritengo […] che si debba sottolineare la piena legittimità costituzionale […] di un'attuazione di programmi e controlli tali da indirizzare l'iniziativa privata verso determinati fini sociali. Questo non significa affatto annullare la libertà dell'impresa intesa come libertà d'iniziativa ovvero come libertà di scelta, almeno entro un certo campo – ma un campo molto ampio – di opzioni possibili e riconosciute valide socialmente dai poteri pubblici, come libertà di decisione finale per quello che riguarda i propri programmi, e come libertà di conseguimento di un utile. Ora, come si combina questa libertà con l'intervento sia dei lavoratori che dei poteri pubblici in funzione e di indirizzo e di controllo? […] la conciliazione avviene nel quadro di una programmazione democratica, che non sia né semplicemente indicativa, né coercitiva o amministrativa.» (in (tavola rotonda) L. Berlinguer – F. Galgano – C. Luporini – S. Merlini – G. Napolitano – C. Salvi, Gestione dell'economia e pluralismo sociale cit., Democrazia e diritto, p. 329). E ancora, Luciano Barca: «In verità il Pci non si è mai posto l'obiettivo della statizzazione dei mezzi di produzione e dell'abolizione del mercato. […] Il riconoscimento di uno spazio per l'iniziativa privata, nell'ambito di una economia democraticamente programmata, le tesi del X Congresso sulla bivalenza del capitalismo di Stato, bivalenza che va risolta sul terreno dello sviluppo della demorazia, sono dunque in nuce già nei primi passi del partito nuovo» ( L. Barca, Il sistema delle imprese nella transizione al socialismo, Democrazia e diritto, 1977, n. 1, p. 9)
[23] A. Occhetto, Governo democratico dell'economia e riforma dello Stato cit., p. 94
[24] F. Galgano, La riforma dell'impresa, in Le istituzioni dell'economia cit., p. 159; e ancora, sullo stesso tema, Smuraglia: «É noto che per alcuni la partecipazione ha senso solo se limitata ai periodi congiunturali, come strumento per addivenire ad una gestione pluralistica della crisi. Se così fosse, tutto si ridurrebbe a ben poco ed anzi evidenti sarebbero i pericoli dell'intera operazione. La partecipazione, invece, va vista come uno strumento di soluzione dei problemi di crisi dell'impresa non meno che dei problemi di crisi della società; uno strumento cioè di ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di nuovi sistemi di direzione dell'economia» (C. Smuraglia, Impresa, sindacati e forze politiche, Democrazia e diritto, 1977, n. 1, pp. 119-120
[25] G. Borghini, l ruolo dei lavoratori nell'impresa cit., p. 32
[26] Ibid., p. 31
[27] Galgano, La riforma dell'impresa, in Le istituzioni dell'economia cit., p.164
[28] Ibid., p. 168
[29] G. Borghini, l ruolo dei lavoratori nell'impresa cit., p. 41
[30] Galgano, La riforma dell'impresa cit., p. 169; a questo proposito, si esprime così Borghini: «Mentre in Germania e in altri paesi la partecipazione è finalizzata essenzialmente a realizzare una gestione dell'impresa che garantisca anche i lavoratori occupati in quella impresa, in Italia la partecipazione non è finalizzata soltanto a questo, ma è finalizzata soprattutto a garantire che le scelte che l'impresa compie siano davvero coerenti con l'esigenza di avviare un diverso sviluppo economico e sociale del paese. Anche per questa ragione, mentre in Germania la partecipazione e la lotta non coesistono e anzi la prima è volta esplicitamente a impedire o limitare la seconda, in Italia la partecipazione tende a dare una nuova, più solida e articolata, al movimento di lotta per conquistare un nuovo sviluppo.» (G. Borghini, Il ruolo dei lavoratori nell'impresa cit., p. 30)
[31] Ivi
[32] G. Napolitano, Conclusioni, in AA.VV., Partecipazione e impresa cit., p. 148
[33] C. Smuraglia, Impresa, sindacati e forze politiche cit., pp. 115-116
[34] Ibid., p. 116
[35] Infra, p. 62
[36] L. Berlinguer, in (tavola rotonda) L. Berlinguer – F. Galgano – C. Luporini – S. Merlini – G. Napolitano – C. Salvi, Gestione dell'economia e pluralismo sociale cit., p. 303
[37]C. Smuraglia, Aspetti istituzionali della partecipazione cit., p. 93: «Non altrettanto può dirsi dell'idea dei “contropoteri”, che – ampiamente teorizzata ed elaborata alla fine degli anni Sessanta – appare già oggi dotata di una sua arcaicità e soprattutto appare nettamente in contrasto con le tendenze degli altri paesi. L'organizzazione dei contropoteri è una esigenza imposta dai momenti tipicamente ed esclusivamente conflittuali. Ma quando si va alla ricerca del confronto, di soluzioni possibilmente comuni e fondate su un consapevole consenso, essa rivela allora una pratica inconsistenza e soprattutto la scarsità delle prospettive.»
[38] C. Smuraglia, Impresa, sindacati e forze politiche cit., p. 118
[39] C. Salvi, in (tavola rotonda) L. Berlinguer – F. Galgano – C. Luporini – S. Merlini – G. Napolitano – C. Salvi, Gestione dell'economia e pluralismo sociale cit., p. 323