Alessandra Ciattini (Sapienza – Università di Roma)
Premessa
In un mondo, nel quale a detta di alcuni, stiamo assistendo al trionfo della cosiddetta post-verità, in cui siamo intrisi sino alle midolla di ideologie invisibili che si presentano come l’effettiva rappresentazione dei fatti, in cui il paese più potente del mondo legge la storia attuale e futura come il dispiegamento del “secolo americano”, in cui trova spazio l’estremismo islamico, in cui risorge il populismo neofascista e neonazista, non possiamo in nessun modo accantonare la nozione di ideologia.
E ciò soprattutto perché si tratta di un’idea pericolosa, come dice il titolo italiano della traduzione del libro dello studioso britannico Terry Eagleton Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa (2007) (il titolo in inglese invece è Ideology. An Introduction, 1991)[1]. Idea pericolosa perché stabilisce una correlazione, complessa e articolata, tra certe idee e una certa struttura di potere. Oltre a queste considerazioni teniamo in conto che, dopo la caduta del muro di Berlino, alcuni non sprovveduti, cui i mass media hanno dato notevole e continua risonanza, hanno anche osato parlare di fine delle ideologie, evidentemente ignorando che la verità è solo un processo interminabile di paziente studio e ricerca, sul cui sfondo sta il nostro modo di concepire la vita sociale.
Un’altra considerazione che ci consiglia di tornare a riflettere sull’ideologia e le sue molteplici valenze è rappresentata dal fatto che costituisce un nodo problematico del pensiero marxista, sul quale molti si sono divisi, accusandosi di riproporre con l’opposizione struttura / sovrastruttura l’antico dualismo positivistico, di ricadere nel volgare economicismo per l’uso della categoria del riflesso o di finire nell’idealismo per l’accento posto con enfasi sulle idee rispetto alla dimensione materiale.
Ispirandosi a Eagleton, anche due autori latinoamericani sottolineano la necessità di tornare a riflettere sulla nozione di ideologia, la quale a loro parere rappresenta <<un conjunto atraversado, sobredeterminado, complejo de aceptaciones y de afirmaciones, de las cuales conviene clarificar algunas posiciones para hacer de ello una herramienta analítica y operativa de acuerdo a los problemas planteados en la luchas políticas y sociales con la perspectiva de la clase obrera y las llaves para la transformación social>> (Ramírez e Cardoso 2013: 30).
Naturalmente l’oggetto della mia analisi sarà ben circoscritto e delimitato, giacché mi limiterò a indicare alcuni temi sviluppati da taluni marxisti britannici, in Italia, non so in America Latina, non molto conosciuti. Un taglio più ambizioso non avrebbe alcun senso e sarebbe pretenzioso.
Cultura o ideologia?
Come scrive Eagleton, una ragione per la quale il concetto di ideologia è diventato sospetto sta nel fatto che è stato sostituito da quello di cultura, ritenuto più flessibile, meno schematico e soprattutto alquanto sganciato dalle condizioni materiali, da cui vuoi o non vuoi deve esser pur sgorgato (p. XVI). Oggi tutto è ridotto a fatto meramente culturale: la discriminazione nei confronti del genere femminile, gli atti terroristici, che si cerca di ricondurre ad una particolare relazione uomo/dio, il supersfruttamento della natura, probabilmente apparso con il dualismo cartesiano. Ciò che non si vuol vedere e non si deve assolutamente illuminare sono la brutale competizione per le risorse e le reali relazioni di potere tra le diverse regioni del mondo, ridotte a mere differenze culturali. In questo senso, paradossalmente l’abbandono della nozione di ideologia è un fatto squisitamente ideologico, nel senso che implicita la difesa di certi interessi altrimenti facilmente individuabili, il cui radicamento si vuole occultare. Ciò rende comprensibile l’ostilità del marxismo stalinista per le scienze sociali, come per esempio l’antropologia culturale di origine statunitense, anche se si pensava di sostituire ad esse il semplicismo economicistico.
Se nell’ambito del dibattito politico, qualcuno impiega la parola “ideologia” lo fa per denigrare il suo interlocutore, il quale non sarebbe in grado di guardare meramente ai “fatti”, i quali sollecitano sempre una soluzione che non sia né di “destra” né di “sinistra”.
Tale richiamo ai “fatti” è però spesso contraddetto dall’assunzione di un atteggiamento relativistico, assai combattuto dalla Chiesa cattolica, in base al quale ognuno di noi può esprimere l’opinione che gli conviene, dal momento che ha una cultura differente. È questo circolo vizioso che rimanda, da un lato ai “fatti” intesi come entità indipendenti dalle nostre convinzioni, dall’altro, li mette tra parentesi perché esistono solo rappresentazioni o meglio costruzioni di essi, ognuna degna di essere rispettata; infatti, spesso si giunge addirittura alla dissoluzione della stessa rappresentazione, privata della sua capacità di rappresentare, giacché è essa stessa che, con le sue specifiche domande, “costruisce” il “fatto”, inesistente di per sé.
Un’altra conseguenza dello slittamento verso la nozione di cultura sta nel fatto che, una volta adottata, essa apre la strada solo all’ipotetico e volontaristico cambiamento interiore, che ognuno di noi dovrebbe fare, ma che di fatto nessuno fa; mutazione interiore prospettata duemila anni fa dal cristianesimo, ma che mi pare non abbia dato frutti, se non belle e vuote parole. E ciò perché noi cambiamo se le strutture, nelle quali siamo incardinati, si modicano e allo stesso tempo, divenuti coscienti della necessità del cambiamento, lottiamo per trasformarle.
L’egemonia della nozione di cultura si consolida con lo sviluppo dell’antropologia culturale di origine statunitense e introdotta in Italia sul finire degli anni ’50 da un gruppo di studiosi, tra i quali mi limito a menzionare Tullio Tentori. Tale disciplina, il cui primordio risale alla seconda metà dell’Ottocento, è senza dubbio collegata al processo di decolonizzazione, che rendeva impossibile continuare a sbandierare l’indiscussa superiorità occidentale, e nello stesso tempo permetteva di offuscare le forti asimmetrie socio-economiche, riconducendole tout court a stili di vita differenti. In particolare, essa si ispira alla definizione proposta da Edward Burnett Tylor nel suo importante libro Primitive Culture (1871), nel quale afferma che la cultura comprende il complesso di credenze, di conoscenze, di pratiche, abitudini che l’uomo acquisisce in quanto membro di una società. Definizione che, del resto, è stata rielaborata in forme assai differenti dai successivi antropologi.
Ma qual è la differenza tra i percorsi interpretativi ed esplicativi inerenti alle due diverse nozioni qui rapidamente analizzate? Direi che la differenza essenziale sta nel fatto che con la nozione di cultura, utilizzabile con la coscienza piena del suo senso, si intende mettere in opera una visione olistica della società, evitando non solo di stabilire una certa specifica gerarchia tra le varie istanze sociali, ma anche di individuare il loro specifico nucleo costitutivo. Tutto (politica, economia, religione, ambiente umanizzato) è permeato da un’unica dimensione, dai contorni non agilmente definibili, che, nelle forme relativistiche più estreme, non costituisce più una rappresentazione del mondo, ma essa stessa diventa il mezzo tramite il quale quest’ultimo si costituisce e si consolida dinanzi ai nostri occhi. Insomma, non rappresenta più, perché non c’è più nulla da rappresentare o noi non siamo in grado di cogliere cosa c’è al di là del nostro pensiero. Giunti a queste conclusioni, alcuni antropologi (per es. Eduardo Viveiros de Castro, Philippe Descola) hanno sostenuto che ogni cultura non è tanto una diversa concezione del mondo, da cui scaturirebbe il relativismo. Al posto di quest’ultimo, essi propongono il multinaturalismo, ossia l’idea che gli esseri umani vivono in mondi diversi e quindi elaborano diverse ontologie, tra le quali non ha un primato quella dualistica occidentale[2] (v. Tierra adentro, 2004).
Tale atteggiamento, per il quale tutto è modificabile attraverso il mutamento dei modi di pensare, non tiene conto che in essi si esprimono certi interessi, a loro volta intrecciati a determinati rapporti di potere, radicati in una realtà a noi esterna. Inoltre, esso rifiuta l’impostazione dualistica implicita a questa posizione. In questo senso, anche l’Europa è un’entità culturale – più che una potenza consolidata -, portatrice di certi valori (diritti umani, competizione volta alla valorizzazione del migliore, enfasi sull’individuo), che con un salto acrobatico diventano universali e per questo destinati ad essere imposti anche ai paesi recalcitranti. Del resto, tali valori non sono recepiti nemmeno dagli stessi cittadini europei, che nonostante i ripetuti appelli alla coesione contro il nemico comune, mostrano in vari modi segni profondi di disaffezione verso il progetto europeo, che avrebbe salvato il continente da possibili scontri bellici (si dimenticano dell’Jugoslavia).
All’olismo il marxismo oppone una concezione gerarchica dei vari fattori, indissolubilmente legata alla nozione di “determinazione”, la quale però è stata oggetto di varie revisioni, perché rappresenta un nodo cruciale senza il quale – scrive Williams – il marxismo è <<in effetti privo di valore>>; tali revisioni rispetto al marxismo ortodosso – aggiunge lo studioso britannico – hanno fatto sì che esso sia stato dotato di molteplici modi di intendere la determinazione, fatto che gli impedisce <<qualunque possibilità di operare>> (1979: 111).
Questi aspetti fanno dell’approccio culturalistico una visione del tutto irrealistica del mondo contemporaneo, nel cui contesto le diverse “culture” confliggerebbero solo perché non hanno ancora imparato a rispettarsi e a dialogare tra loro. Allora il problema dei suoi fautori, reso più eclatante dalle migrazioni di massa, suscitate dalla politica del “caos creativo” sull’altra sponda del Mediterraneo, è rendere tutti capaci di accettare il “diverso” sulla base di una tolleranza generalizzata; la quale però viene abbandonata quando la diversità altrui mette a rischio la nostra “identità” Vedasi il caso dell’abbigliamento femminile islamico o quello più drammatico dell’attacco violento al nostro stesso stile di vita che gli attentati terroristici, terrorizzandoci e uccidendo indiscriminatamente, mirano a farci cambiare (almeno questa è l’interpretazione massmediatica).
Un altro tentativo, alquanto riuscito, di accantonare la nozione di “ideologia” è costituito dall’introduzione nelle scienze sociali di quella di discorso, proposta dal noto studioso francese Michel Foucault e dai suoi numerosi seguaci. Tale nozione, legata al modo di intendere il potere non più sedimentato in specifiche istituzioni, ma caratterizzato dalla pervasività che avvolge la nostra vita quotidiana nei suoi minimi dettagli, rischia di mettere sullo stesso piano eventi di portata assai diversa. Come scrive Eagleton, <<La forza del termine ideologia risiede nella sua capacità di determinare quali lotte di potere sono centrali per la vita sociale e quali non lo sono>>, forza di cui, invece, non è dotata l’espressione discorso. Infatti, se tutto diventa discorso, nel senso di costruzione di aspetti della realtà al fine di fondare sul processo discorsivo il proprio potere, finiamo con l’assimilare paradossalmente una lite tra bambini per un pallone e il conflitto scaturito tra le forze governative del Salvador e il movimento di liberazione di quel paese (Eagleton 2007: 21); e ciò avverrebbe perché il discorso, in quanto fondatore del potere, ci consente di considerare ogni evento in egual misura politico e portatore di una lotta per la supremazia. Come si ricorderà l’idea che “Tutto è politico” era propria degli studenti contestatori del 1968, assai influenzati dal pensiero anarchico e in particolare dal pensiero di Étienne de la Boétie (1530-1563), intimo amico di Michel de Montaigne.
Come è noto, questi scrisse lo straordinario Discorso sulla servitù volontaria, nel quale ha sostenuto la tesi che in realtà il potere e la gerarchia sono stati fondati dal basso, a partire dalla volontà dei molti di sottomettersi ai pochi, che Perluigi Fagan definisce <<pulsione all’auto-assoggettamento>>. E ciò allo scopo di ottenere in cambio sicurezza e tranquillità (https://pierluigifagan.wordpress.com/2017/07/24/leterno-ritorno-della-servitu-volontaria-riprendendo-in-mano-lintuizione-di-etienne-de-la-boetie/). Ma se il potere nasce dal basso e non dall’alto diventa evidente che è dal basso che può essere distrutto, come si può ricavare dallo slogan sessantottino “Il padrone ha bisogno di te, ma tu non hai bisogno di lui”.
L’analisi del sorgere della gerarchia e delle strutture di potere ad essa connaturate ha alimentato la messa in discussione generalizzata di ogni forma di strutturazione gerarchica, considerata anche come uno strumento idoneo alla riduzione della complessità sociale (https://pierluigifagan.wordpress.com/2017/07/03/seimila-anni-di-societa-complesse/); nello stesso tempo, ha fomentato la messa in discussione generalizzata di ogni forma di strutturazione gerarchica. Tale rifiuto anarcoide di fondare il proprio comportamento e la propria riflessione sull’individuazione delle priorità proprie di un certo contesto ci conduce in un vicolo cieco. Infatti, come si è visto, ci impedisce di scegliere quali sono gli effettivi bersagli principali cui mirare, se si ha come obiettivo l’abbattimento di un sistema di potere ingiusto e brutale.
Mi viene in mente un esempio, che forse potrebbe scandalizzare qualcuno, pensando all’uso diffuso di non usare più esclusivamente il maschile per riferirsi a un gruppo di uomini e donne, dando un forte significato simbolico a tale comportamento. Ma dobbiamo chiederci se esso cambia veramente qualcosa nelle relazioni tra uomini e donne, e se non sarebbe forse più appropriato alzare il tiro e mirare alla diffusione e al potenziamento degli asili nido, che consentirebbero alla donna di vivere con maggiore serenità la propria maternità?
Spero di essere riuscita a mostrare come la nozione di cultura e quella di discorso, rifiutando il riduzionismo economicistico con cui sostanzialmente il marxismo viene identificato, paradossalmente ripropongono un'altra forma di riduzionismo nel primo caso culturale, nel secondo politico (tutto è cultura, tutto è politica). Inoltre, comportando lo svantaggio derivato dalla rinuncia a un qualche criterio di priorità, fanno della società un amalgama indifferenziato in cui è impossibile discernere cosa è più importante rispetto al resto, il che non vuol dire debba essere messo tra parentesi, perché insignificante e superfluo. Infine, se tutto è cultura o tutto è politica, tali parole perdono un significato preciso, essendo impossibile individuare il loro contrario e il contesto appropriato della loro utilizzazione (v. Eagleton 2007: 20).
A mio parere, tali considerazioni rendono la ricerca più appassionante perché si deve in primis individuare un criterio di priorità e nello stesso tempo ricostruire le diverse articolazioni tra le priorità focalizzate e i livelli per così dire secondari. Se non si procedesse in questo modo – come scrive Engels -, <<l’applicazione della teoria [marxismo] a un qualsiasi periodo storico che uno sceglie sarebbe più facile che la soluzione di un’equazione semplice di primo grado>> (cit. in Williams 1968: 317).
Illusione e/o strumento della lotta di classe
Secondo Raymond Williams, altro marxista britannico, nella letteratura marxista il termine ideologia assume tre significati diversi: 1. Sistema di idee e di opinioni proprie di una classe o di un gruppo particolare, come per esempio il folclore per Gramsci o l’”ideologia socialista” per Lenin, che paradossalmente però viene creata da intellettuali borghesi[3]; a suo parere, infatti, da soli i proletari sarebbero giunti al tradunionismo (334-335)[4]; 2. Un insieme di idee illusorie e quindi false identificate con l’espressione “falsa coscienza”. 3. <<Il processo generale della produzione dei significati e delle idee>> (in questo caso assomiglia alla cultura). Osserva Williams spesso le due prime definizioni vengono combinate. A suo parere, la terza definizione è autonoma dalle due precedenti e, in qualche modo, le supera, anche se secondo lo studioso britannico in generale i marxisti hanno preferito le prime due versioni (almeno fino all’anno della pubblicazione del suo libro Marxismo e letteratura, 1979, 74-75).
Williams scrive che non vuole suscitare polemiche, ma vuole riportare la nozione di ideologia e le sue varianti al contesto storico in cui si sono formate. Ricordando l’elaborazione illuministica del termine ideologia e della teoria ad essa relativa, egli sottolinea che essa viene considerata un insieme di idee, che di fatto sono solo <<sensazioni trasformate>>, mettendo così l’accento sull’origine esclusivamente umana delle prime. Nello stesso tempo egli si richiama alla concezione di ideologia propria di Napoleone, il quale la considerava una <<teoria non pratica>> o un’<<illusione astratta>>; concezione ripresa da Marx ed Engels, anche se da un’angolatura differente (1979: 75-77).
Nell’Ideologia tedesca i due inseparabili autori scrivono: <<Non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali>>.
Da ciò ricavano che tutte le forme di coscienza non hanno autonomia, ma hanno le loro radici nelle condizioni materiali di esistenza. Nell’opinione di Williams è del tutto corretto sostenere che l’ideologia non costituisce un’entità autonoma, ma non condivide l’impiego delle espressioni quali riflessi, echi, immagini nebulose da parte di Marx ed Engels, dato che a suo parere tali termini ci riconducono all’ingenuo dualismo proprio del <<materialismo meccanicistico>>.
Assai più apprezzabile gli sembra la posizione che Marx assume, invece, nel Capitale (vol. I), dove sviluppa il celebre accostamento tra l’ape e l’architetto, nel quale considera la coscienza <<come parte del processo materiale umano>>. <<Ciò che distingue il peggior architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la propria cella nella propria testa prima di costruirla in cera. Al termine del processo lavorativo, si ha un risultato che era già presente all’inizio nella mente del lavoratore>>.
Secondo lo studioso britannico, questo costituiva il vero passo avanti fatto da Marx, con il quale veniva introdotta come <<correttivo dell’astratto empirismo>> <<la storia materiale e sociale come rapporto reale tra uomo e natura>>, ma purtroppo questa prospettiva non fu seguita, e ci dimenticò che gli uomini vivi da cui bisogna partire erano anche coscienti. Egli pensa anche che potrebbe trattarsi di una fantasia oggettivistica, fondata sull’idea che si possa cogliere l’intero processo reale della vita degli uomini al di fuori del linguaggio e delle concezioni da esso espresse. L’aspetto centrale della scoperta di Marx ed Engels era che avevano individuato una nuova relazione tra la coscienza e il processo materiale umano, ma questa nuova visione non fu chiara e ciò costituì la fonte della <<ingenua riduzione, in gran parte del pensiero marxista successivo, di coscienza, immaginazione, arte e idee a “riflessi”, “echi”, “immagini nebulose” e “sublimazioni” (1979: 80-82).
Seguiamo passo passo la riflessione di Williams: egli cita un altro brano dell’Ideologia tedesca, in cui si sottolinea che è la separazione tra coscienza e pensiero dal processo sociale, operata inconsapevolmente, che trasforma questi ultimi in ideologia; Marx ed Engels introducono, pertanto, una scissione tra la coscienza ideologica, da un lato, e il <<sapere reale>> e il <<processo pratico>>, in contraddizione con la tesi precedente secondo cui essere e coscienza sono inseparabili. Ma tale separazione permette loro di distinguere tra scienza e ideologia, essendo la prima <<il sapere reale>> del <<processo pratico>> e la seconda la <<falsa coscienza>>[5]. Commenta lo studioso britannico: <<Il risultato di tale separazione (contrapposta alla concezione originaria d’un processo indissolubile) è la farsesca esclusione della coscienza dallo <<sviluppo degli uomini>> e dal <<sapere reale>> di questo sviluppo>>; a suo parere, per venire fuori dalla contraddizione tra indissolubilità e contrapposizione della relazione tra vita sociale materiale e coscienza, viene elaborato il modello dei due stadi (versione materialistica del dualismo idealista), <<secondo il quale vi è prima la vita sociale materiale, e poi, a una certa distanza temporale o spaziale, la coscienza e i “suoi” prodotti>> (primum vivere deinde philosophari). In base a tale schema coscienza e idee sono ridotti a meri riflessi di quanto si è già realizzato nel processo sociale materiale (1979: 82-83).
Contro questa impostazione, che considera riduttiva, Williams sostiene che la coscienza e i suoi prodotti sono sempre parte del processo materiale variabile, in quanto sono presenti sin dall’inizio nella mente del lavoratore (l’architetto), sia nelle condizioni necessarie del lavoro associato, nel linguaggio e nelle idee pratiche di rapporto, sia nei processi reali, che sono attività materiali sociali. Se non si tiene conto di ciò, non si prende coscienza che pensare e immaginare sono processi sociali, interiorizzati dagli individui e sono accessibili agli altri solo attraverso le loro espressioni materiali: voci, suoni, scrittura, materiali forgiati in vario modo (1979: 83-84).
Tenendo conto dunque della riflessione di Marx ed Engels, l’ideologia costituisce un sistema di opinioni, legato ad un certo gruppo sociale, e nello stesso tempo un sistema di opinioni illusorie (falsa coscienza) opponibile alla conoscenza vera e scientifica.
Nel caso in cui, tuttavia, tali idee vengono ridotte a echi e riflessi, la coscienza viene considerata un’emanazione delle condizioni sociali di vita e Marx ed Engels finirebbero con lo sprofondare nel materialismo meccanicistico, contro cui polemizzano (e questa sarebbe secondo Eagleton, allievo di Williams, una definizione di carattere epistemologico di ideologia, 2007: 105); nell’ipotesi in cui l’ideologia diventi, invece, un’<<attrezzatura intellettuale>> di una classe sociale, che potrebbe contenere elementi di verità, pur essendo impiegata da un potere ingiusto e dominante, siamo di fronte ad una definizione di matrice politica (Eagleton 2007: 115). Per esempio, si potrebbe prendere in considerazione la riflessione di Gramsci sul folclore progressivo, vincolato alle classi subalterne, nel quale a suo parere sarebbe presente l’embrione della coscienza di classe (Ciattini 2013: 93-108).
Secondo lo studioso britannico il superamento di queste ambiguità può avvenire sostanzialmente con l’abbandono dell’opposizione coscienza <<vera>> coscienza <<falsa>>, e riformulando l’ideologia come <<il complesso processo all’interno del quale gli uomini “divengono” (sono) consci dei loro interessi e dei loro conflitti>> (Williams 1979: 91). D’altra parte, se l’ideologia è falsa nella misura in cui è plasmata dalle sue determinazioni sociali – alle quali dobbiamo ricondurla per comprendere i suoi contenuti – ogni sistema di pensiero è falso in quanto socialmente condizionato. Allora il problema si sposta e diventa quello di esaminare le sue specifiche determinanti. Interessante mi sembra la soluzione che Eagleton dà a questo problema e che possiamo far nostra: <<Non c’è motivo di ritenere che l’unica alternativa all’ideologia (falsa coscienza) sia una conoscenza “non prospettica” e socialmente disimpegnata; possiamo semplicemente affermare che, in certi momenti storici, certi punti di vista socialmente determinati siano più veri di altri. Qualcuno può essere in “condizione di sapere” e altri no. Il fatto che tutti i punti di vista siano socialmente determinati non implica che tutti i punti di vista abbiano lo stesso valore>> (2007: 69-70)[6].
Queste affermazioni ci portano a ribadire che la coscienza è <<essere sociale, è il possesso – tramite lo sviluppo di rapporti sociali attivi e specifici – di una precisa capacità sociale che si concreta in un sistema dei segni>>. Quest’ultimo, assimilabile ad ogni forma di linguaggio e di espressione simbolica, è al contempo interiorizzabile e materiale, in quanto deve estrinsecarsi in supporti visibili e percepibili (Williams 1979: 55). Tale concezione del linguaggio, sviluppata da Valentin N. Volosinov in un libro in cui sarebbero state recepite le idee di M. Bachtin (Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari 1976, ed. or 1929)[7], ci consente di non separare il linguaggio, inteso come “coscienza pratica” (espressione di Marx ed Engels) dal processo della vita reale, da momento che il segno o l’elemento significante di un linguaggio, radicati in un supporto materiale, sono il risultato dell’interazione sociale e sono dotati di un ventaglio variabile di significati in relazione alle diverse situazioni in cui vengono impiegati (1979: 53). Evitando di scindere materiale e rappresentativo, Volosinov scrive che: <<…qualsiasi oggetto materiale, tecnologico e di consumo, può diventare un segno, acquistando in tale processo un significato che va oltre la sua data particolarità>>. E aggiunge: <<Un segno non esiste semplicemente come parte della realtà – esso riflette e rifrange[8] un’altra realtà. Perciò, esso può distorcere questa realtà, o essere fedele ad essa, o vederla da un particolare punto di vista, e così via>> (1976: 59). Esso sorge <<nelle condizioni e nelle forme della comunicazione sociale>>, anzi <<l’esistenza del segno non è altro che la materializzazione di questa comunicazione>>. Tali aspetti appaiono in maniera chiara nella <<parola che è il fenomeno ideologico per eccellenza>> (corsivo nel testo), e al contempo <<il segno più puro e più sensibile del rapporto sociale>> (1976: 64). In questo senso, per lo studioso sovietico <<Il segno è un atto creativo interindividuale, un atto creativo all’interno di un ambiente sociale…solo ciò che ha acquistato un valore sociale può penetrare nel mondo dell’ideologia, prendere forma e stabilirvisi>> (1976: 76, corsivo nel testo).
Connesso al segno è il tema, ossia il contenuto del segno, il quale è sempre dotato di un’accentuazione sociale, ossia di una sfumatura significativa che acquisisce nell’uso che ne viene fatto nell’interazione sociale. Il tema di un segno ideologico e la sua forma sono inestricabilmente connessi. Dal momento che la classe non costituisce una comunità segnica e che classi differenti usano nelle comunicazioni la stessa lingua, <<accenti differentemente orientati si intersecano in ogni segno ideologico>> In tale intersecazione si esprimono interessi diversi collegati alle differenti classi, ed è per questo che nella comunicazione sociale si palesa la lotta di classe (1976: 78).
Tale osservazione riprende le celebri parole di Marx ed Engels che qui riporto: <<Fin dall’inizio lo “spirito” porta con sé la maledizione di essere “infetto” dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati di aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini>> (cit. in Williams 1979: 38). Bisogna aggiungere che in quanto sistema ha una sua forma cristallizzata, ma non pietrificata, che non esclude il mutamento in linea con il processo sociale (cit. in Williams 1979: 56).
Inoltre, altri elementi problematici vengono messi in luce dal passo di Lenin, citato in precedenza, in cui si parla di <<coscienza socialista>>, che mette in rilievo due aspetti importanti: 1) essa non può essere illusoria ed è identificabile con la <<coscienza di classe>>; 2) se i lavoratori possono giungere a tale livello coscienziale solo con l’apporto degli intellettuali borghesi, essa non può scaturire direttamente dal <<processo reale della loro vita>>.
Non credo sia possibile parlare di questa specifica riflessione britannica sulla nozione di ideologia, senza dedicare un po’ di spazio al concetto marxiano di feticismo e al processo dal quale scaturirebbe.
Feticismo e ideologia
Anche in questo caso farò ricorso alle osservazioni di Eagleton, il quale mette in evidenza che il feticismo della merce rappresenta una versione assai diversa di ideologia (2007: 108). In primo luogo, in virtù di questo meccanismo, <<i rapporti umani appaiono in modo mistificato come rapporti tra cose>>. Da ciò consegue che il reale funzionamento della vita sociale viene occultato, dal momento che la dimensione sociale dell’attività lavorativa, che si fonda sulla relazione tra persone, viene resa invisibile e nascosta dalla circolazione delle merci.
A parere di Eagleton vi è una trasformazione tra la concezione dell’ideologia presente nell’Ideologia tedesca e quella elaborata invece nelle pagine del Capitale dedicate al feticismo della merce. Tale differenza sta nel fatto che nella prima opera essa poteva venir ridotta a <<falsa coscienza>>, perché in certe condizioni gli uomini non coglievano l’intima relazione tra l’ideologia e il processo della vita reale, invece, nell’opera matura la costruzione dell’ideologia segue un altro percorso. Infatti <<Il problema non è solo la percezione distorta da parte degli esseri umani, la cui coscienza rovescia il mondo reale e immagina un controllo delle loro vite da parte delle merci. Marx non afferma che in un regime capitalistico le merci sembrano esercitare un’influenza tirannica sulle relazioni sociali; afferma che esse le influenzano davvero>>. Quindi, siamo qui di fronte a un reale rovesciamento della realtà e non al processo in base al quale la realtà si presenta invertita nella mente e l’immagine così prodotta deve essere ricollegata alla fonte da cui si è sprigionata per esser decifrata. La stessa economia capitalistica <<produce la sua stessa percezione erronea>> (Eagleton 2007: 109-110). In questo caso, mi pare, che noi possiamo comprendere la falsità della nostra percezione solo con un’implicita opera di comparazione con una ipotetica società in cui le relazioni tra gli uomini non si presentano e non funzionino come relazioni tra oggetti, oppure adottando un punto di vista estraneo al sistema ma incarnato in certi settori sociali, in esso presenti.
Dopo aver osservato questa differenza tra le diverse concezioni dell’ideologia nella riflessione di Marx ed Engels, Eagleton giudica negativamente la svolta operata nel Capitale. Egli ritiene, infatti, che nelle considerazioni sul feticismo della merce gli uomini finiscono col diventare i <<ricettori passivi di certi effetti oggettivi, le vittime di una struttura sociale data spontaneamente alla loro coscienza>>. Ciò che a suo parere non viene preso in considerazione sono le varie modalità interpretative che gli uomini possono elaborare dei meccanismi di funzionamento della realtà sociale in cui si trovano a vivere. Comunque, anche in questo caso, questa impossibilità di vedere di primo acchito come stanno effettivamente stanno le cose, rafforza il potere dominante e la struttura classista della società (2007: 113).
Concludendo, nonostante le complessità e le ambiguità di cui sembra essere intriso il concetto di ideologia, mi sembra che soprattutto rispetto alla nozione di cultura e a quella di discorso conservi tutto il suo carattere rivoluzionario ed emancipatorio, se si mette l’accento su una serie di elementi che abbiamo ricavato dalla nostra lettura analitica: essa è coscienza sociale e non precede l’essere ma è ad esso simultanea, è legata ad una data esperienza, che può sprigionarsi anche dal modo in cui la stessa realtà si configura effettivamente, è connessa a un gruppo sociale, ai suoi interessi e alla sue aspirazioni, esprime il modo in cui questi ultimi sono percepiti e valutati nell’ambito della lotta di classe che il gruppo in questione vuole portare avanti. In questo senso, le sue elaborazioni non sono mai totalmente false, in quanto contengono una visione angolata che dal punto di vista di chi l’adotta ha un’innegabile validità e sono radicate nel modo in cui la realtà si dispiega. Inoltre, e non di meno, come ci dice Gramsci (1975, vol. III, Q. 27: 2311, 2313), l’ideologia, in particolare la cultura popolare, contiene residui importanti di concezioni culturali e filosofiche del passato, oltre a rispondere a quesiti di carattere esistenziale, come la sofferenza e la morte.
Bibliografia
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Williams R., Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Einaudi, Torino 1968.
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Note
[1] Eagleton è accusato da un suo competente critico, David Brooks (1995), di fornire molteplici definizioni di ideologia, rendendo il suo ragionamento difficile da seguire e confuso.
[2] Naturalmente l’idea che la cultura e la filosofia occidentale si basino solo su un’ontologia dualistica è ampiamente criticabile.
[3] Invece, per il marxismo storicista (Gramsci) vi è una relazione di continuità tra materialismo storico e coscienza proletaria (Eagleton 2007: 116).
[4] Scrive Lenin nel Che fare?: <<Socialismo e lotta di classe nascono l’uno accanto all’altra, ma non uno dall’altra; La coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche…Il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi…anche il socialismo contemporaneo è nato dal cervello di alcuni membri di questa ceto, ed è stato da essi comunicato ai proletari più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i quali in seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni lo permettono>> (1972: 72 da Che fare?). Queste parole riprendono un’affermazione di Marx ed Engels nel Manifesto: <<… ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che sono giunti ad intendere teoreticamente tutto il movimento storico>> (1994: 27).
[5] Non Marx ma Engels introduce questa espressione (Eagleton 2007: 113).
[6] Se non si accetta questa prospettiva abbiamo due possibilità: lo scetticismo legato all’impossibilità di scegliere tra due punti di vista, o l’idea via sia una monade superiore, in grado di unificare tutti i punti di vista possibili (G. W. Leibniz). Quest’ultima visione implica il ritorno alla nozione di “verità assoluta”.
[7] Alcuni sostengono che il vero autore del libro sia Bachtin.filosofia%20del.).
[8] Si noti che dal punto di vista fisico riflessione e rifrazione non sono identiche; nel primo caso, attraversando un mezzo trasparente la luce si divide in due raggi, nel secondo, il raggio subisce una deviazione quando si sposta da un mezzo trasparente a uno meno trasparente. Tale metafora rende più complessa la relazione tra struttura e sovrastruttura.