Gabriele Répaci
La crisi esplosa lo scorso decennio non è certamente il frutto del caso né deriva dal malfunzionamento del capitalismo. Al contrario, essa rappresenta, nelle sue caratteristiche fondamentali, l'essenza del capitalismo stesso, fatto di corsa sfrenata al massimo profitto, di compressione dei diritti della classe lavoratrice, ma anche dei disperati tentativi di uscire dalla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, la produzione artificiosa di moneta, il conflitto permanente tra paesi capitalistici – che spesso comporta vere e proprie guerre sullo scenario internazionale – attraverso cui tentare di scaricare su altri gli effetti devastanti ed incontrollabili della crisi. L'irrazionalità del capitale, la sua anarchia, la sua disumanità emergono in tutta la loro drammaticità e travolgono le speranze di milioni di persone in tutti i continenti.
Il sistema capitalistico oggi non permette più di riproporre le vecchie ricette riformiste. Nella fase della globalizzazione, infatti le politiche di stampo keynesiano risultano fallimentari per due ragioni. La prima consiste nel fatto che le imprese globalizzate non hanno più interesse nel mercato nazionale, avendo come prospettiva il mercato internazionale. La seconda consiste nel fatto che, di conseguenza, le imprese globalizzate non hanno interesse in politiche di carattere espansivo, che anzi vedono con sfavore perché i debiti pubblici sottraggono capitali, né hanno interesse alla crescita economica, perché i loro profitti derivano non dalle dimensioni della domanda aggregata nazionale ma dalle innovazioni tecnologiche e dalle gigantesche economie di scala rese possibili dall'internazionalizzazione della produzione e del mercato. Inoltre se si accetta l’idea che il compromesso socialdemocratico e keynesiano dell'Europa Occidentale del dopoguerra dipese in buona parte dall’esistenza del blocco sovietico, è evidente che la questione proprio non si pone, è politicamente anacronistica. È necessario cambiare radicalmente le leggi che governano l’economia abolendo l’anarchia e il caos del capitalismo, prendendo in mano le banche e le grandi imprese e integrandole in un piano razionale di produzione. In altre parole, occorre avviare la trasformazione socialista della società. Questa è l’unica alternativa.
È inutile nascondere che in Europa, anche fra la sinistra “radicale”, parlare di socialismo ed economia pianificata significa sfidare un vero e proprio tabù. La stessa Unione monetaria europea, non va dimenticato, sorse dalle ceneri del socialismo reale, vale a dire il primo esperimento di organizzazione pianificata dei rapporti sociali alternativo alla riproduzione capitalistica. Il fatto che a distanza di quasi trent'anni dall'implosione dell'Urss ancora non si riescano a esaminare le grandezze, gli errori e gli orrori di quell'esperienza con il dovuto distacco necessario all'indagine scientifica, e quindi si fatichi a circoscrivere la sua rilevanza storica, ha determinato pure una sorta di rimozione collettiva sul tema più generale della pianificazione economica.
È giunto il momento di elaborare il “lutto sovietico” proprio per delimitarlo storicamente, per ridimensionarne la portata, e per rilanciare quindi il discorso sulla pianificazione.
Prima di analizzare le cause che hanno portato dapprima alla stagnazione relativa, poi alla crisi e in seguito al collasso del sistema sovietico è necessario esaminare le principali obiezioni addotte storicamente da alcuni economisti di orientamento neoliberale sull'impossibilità di pianificare l'economia. Il celebre economista austriaco Ludwig von Mises (1881 – 1973) negò, in un saggio del 1920, che in una società socialista, cioè senza proprietà privata di mezzi di produzione, si possa solo in linea di principio risolvere il problema dell'allocazione ottima delle risorse produttive. Per Mises, la natura del calcolo economico esige una valutazione quantitativa relativa delle risorse, attraverso un sistema dei prezzi che si forma soltanto su di un mercato di libera concorrenza dall'incontro di proprietari privati di beni e servizi. Invece il socialismo, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e sostituendo all'agire del mercato le “direttive” del centro, impedisce il costituirsi di un mercato dei beni capitali e quindi il formarsi dei loro prezzi. In mancanza di un “indice delle alternative” non può quindi realizzarsi un utilizzo razionale delle risorse, perché senza un meccanismo di formazione del prezzo, non c'è calcolo economico, e senza calcolo economico non può esservi alcuna attività economica. Il socialismo non sarebbe altro per Mises, che l'abolizione dell'economia razionale. Tuttavia il celebre economista austriaco aveva torto. L’URSS pianificò l’economia facendo a meno dei mercati e ciò costrinse gli allievi di Mises, come Friedrich von Hayek (1899 – 1992), a prendere una posizione diversa: la pianificazione è possibile ma inefficiente. Secondo von Hayek, Premio Nobel per l'economia nel 1974, il mercato sarebbe più efficiente della pianificazione centralizzata perché favorisce un migliore uso delle informazioni locali. Molte delle conoscenze necessarie per un'allocazione se non efficiente, meno inefficiente possibile – argomentava Hayek – sono disperse nelle menti delle singole unità decisionali, consumatori e imprese. Nessun “Ministro della Produzione” sarebbe in grado di acquisire con un qualsiasi grado di precisione tali conoscenze, da quelle attinenti alle tecnologie delle singole imprese a quelle relative ai gusti dei consumatori, e ciò per il semplice fatto che esse si rivelano solo negli atti di scelta delle unità decisionali. Tale ragionamento non sembra convincente. Esso non tiene conto che il mercato non è perfetto. Né il singolo consumatore né la singola impresa hanno una conoscenza precisa dell'andamento della domanda globale, delle distorsioni oligopolistiche, delle esternalità ambientali e tecnologiche, dell'utilità sociale dei beni pubblici, dei beni comuni e di quelli meritori, del modo in cui fronteggiare gli effetti delle assimmetrie informative, ecc. Oggi è riconosciuto anche da molti economisti liberali il fatto che il mercato produce vari tipi di fallimento dell'allocazione e del coordinamento. Storicamente a partire dalla crisi del '29 infatti, si è assistito anche all'interno del capitalismo, ad un sempre maggiore intervento dello Stato all'interno nell'economia.
Andando invece a indagare i fattori che hanno portato dapprima al declino e poi al crollo dell'economia sovietica è necessario prendere in considerazione i fattori di breve, medio e lungo termine. I fattori di lungo termine erano problemi strutturali ed abbisognavano di riforme per essere risolti. Le politiche messe allora in pratica dai governi di Gorbaciov ed Eltsin, invece di affrontare questi problemi resero ancora più catastrofica la situazione. Durante il periodo che va dal 1930 al 1970 ed escludendo gli anni della guerra, l'URSS ha sperimentato un periodo di rapida crescita economica. C'è una grossa disputa sull'intensità della crescita, ma è comunemente accettato il fatto che essa sia cresciuta più velocemente degli Usa tra il 1928 e il 1975. Tuttavia a partire da quella data il tasso di crescita cominciò a diminuire. Gli osservatori hanno fornito numerose spiegazioni per questa relativa decelerazione della crescita nell'ultimo periodo. È facile per un’economia crescere velocemente nella fase iniziale dell'industrializzazione quando il lavoro viene attratto dall'agricoltura all'industria. In un secondo momento la crescita deve basarsi su miglioramenti della produttività del lavoro in un'economia già industrializzata, che sono notoriamente ben diversi da quelli tra l'agricoltura e l'industria. Negli anni del dopoguerra, l'economia sovietica era entrata in un periodo di crescita intensiva (basata su miglioramenti della produttività), con un nuovo insieme di sfide, diverse da quelle della crescita estensiva (mobilitazione del capitale e della forza lavoro) dell'epoca staliniana. Una parte relativamente ampia dell'industria sovietica era dedita alla difesa, soprattutto negli ultimi tempi della Guerra fredda, quando si era in competizione con i programmi reaganiani di “Guerra Stellare”. Il lavoro qualificato utilizzato in questo settore restrinse il numero di scienziati ed ingegneri da poter allocare nell'ambito della ricerca ed invenzione di nuovi macchinari produttivi. Gli Usa e gli altri paesi capitalistici, inoltre imposero l'embargo alle forniture di tecnologia avanzata all'URSS. Ciò comportava che l'Unione Sovietica doveva basarsi prevalentemente – cosa non comune – su tecnologia interna. Nonostante ciò l'URSS riuscì ad esportare molti brevetti e in tema di ricerca persino negli anni brezneviani, i risultati furono comparabili a quelli dei migliori paesi capitalistici. Il lavoro d'altronde, probabilmente nell'industria sovietica non venne utilizzato con la stessa efficienza che negli Usa o in Germania Occidentale. Certo, l'URSS fece ampio utilizzo del lavoro se è vero che non c'era disoccupazione e la percentuale di donne occupate a tempo pieno era più elevata rispetto ad altri paesi. Tuttavia un'economia industriale sviluppata deve essere in grado di trasferire il lavoro dove sia più efficientemente impiegabile. Nel capitalismo ciò è ottenuto grazie alla riserva di disoccupati, che sebbene sia inefficiente da un punto di vista macroeconomico, consente una rapida espansione di nuove industrie. Le aziende sovietiche tendevano ad accumulare lavoratori, assumendo persone solo nei casi in cui avevano la necessità di rispondere a future richieste provenienti dalle autorità di pianificazione. Ciò era possibile sia per via dei salari monetari relativamente bassi sia perché la banca statale prontamente estendeva il credito per coprire questi costi. Il basso livello monetario dei salari è un motivo per cui lo stato incamerò maggiori entrate dai profitti delle imprese statali piuttosto che dalle tasse. Sebbene la crescita industriale sovietica negli anni '80 fosse scesa al livello statunitense ciò di per se non era un disastro, se è vero che gli Usa avevano sperimentato un simile tasso di crescita (2,5% all'anno) senza incorrere in crisi. Tuttavia, mentre negli USA i salari della classe lavoratrice negli anni '80 stagnavano, in URSS continuavano a crescere. La differenza stava nel diverso posizionamento che nei due paesi avevano l'intellighenzia e gli strati manageriali. Negli USA i differenziali reddituali aumentavano progressivamente, così come la crescita del reddito nazionale andò quasi esclusivamente a beneficio del 10% della popolazione. In URSS i differenziali erano relativamente ridotti, e sebbene tutti i gruppi sociali continuavano a beneficiare di aumenti reddituali, la crescita era inferiore a quella registrata negli anni '50 e '60. Il tasso di crescita del 2,5% veniva considerato da parte dell'intellighenzia sovietica una stagnazione intollerabile – forse perché si paragonava ai manager e ai professionisti statunitensi e tedeschi. Cominciò quindi a circolare, in questa classe, la percezione che il sistema socialista stesse fallendo se messo a paragone con quello statunitense. Tutto ciò non sarebbe stato così decisivo per la sopravvivenza del sistema se questi strati sociali non avessero avuto un'influenza così grossa all'interno dell'URSS. Sebbene il Partito Comunista fosse nominalmente il partito dei lavoratori, una percentuale sproporzionata veniva dai tecnici più qualificati e dai professionisti, essendo invece i lavoratori manuali sottorappresentati. Il rallentamento della crescita fu in buona parte una conseguenza inevitabile della maturità economica, un movimento verso tassi di crescita tipici di ogni paese industrialmente maturo. Un modesto programma di misure finalizzate al miglioramento dell'efficienza della dirigenza economica avrebbe probabilmente sortito alcuni effetti positivi sul tasso di crescita, ma sarebbe stato comunque irrealistico aspettarsi un ritorno ai livelli di crescita degli anni '50 e '60. Ciò che tuttavia si fece in URSS non fu un modesto programma di riforme, bensì un radicale lavoro di demolizione sulle strutture economiche di base.
Le cause di medio periodo del collasso economico sovietico risiedono nelle politiche che il governo di Gorbaciov adottò nel tentativo di migliorare le condizioni economiche. L'effetto combinato di queste politiche finì per condurre lo stato alla bancarotta e la moneta al crollo.
Bisogna considerare che la base finanziaria dello Stato sovietico era composta prevalentemente dalle tasse che esso riscuoteva con la tassazione sul fatturato delle vendite. Nel tentativo di abolire l'uso massiccio di alcol che portava all'assenteismo dal lavoro, oltre che ai problemi di salute, il governo di Gorbaciov proibì l'alcol. Questa misura, insieme al più generale irrigidimento della disciplina sui luoghi di lavoro, portò nei primi due anni del suo governo a qualche miglioramento nella crescita economica. Ebbe però degli effetti collaterali non previsti. Dal momento che la vodka non poteva essere più venduta nei negozi statali, sorse un mercato nero della vodka criminale. La classe criminale che guadagnò ricchezza e potere da questo traffico, diventerà in seguito, il più pericoloso nemico. Mentre il denaro ricavato dal commercio degli alcolici illegali rimpinzava le casse dei criminali, lo Stato perdeva un importante voce di entrata, che, non sostituita da altre tasse, portò ad un processo inflazionistico. Se fosse stato l'unico problema per le finanze statali, quello della perdita delle tasse sugli alcolici, avrebbe potuto essere risolto aumentando i prezzi di altre merci da compensare. Ma la situazione peggiorò quando, influenzato dalle tesi degli economisti riformatori, Gorbaciov consentì alle imprese di trattenere buona parte del fatturato che dovevano versare allo stato. I riformatori sostenevano che se ai manager fosse stato consentito di trattenere queste quote, ne avrebbero fatto un uso più efficiente di quello governativo. La conseguenza fu una catastrofica crisi fiscale dello Stato, costretto a ricorrere al credito della Banca centrale per finanziare le spese correnti. L'espansione dello stock monetario portò ad una rapida inflazione e all'erosione della fiducia pubblica nell'economia. Nel contempo, i grandi quantitativi di denaro concentrati nelle mani dei manager delle imprese, come mai era accaduto prima, aprirono enormi opportunità per la corruzione. Il governo di Gorbaciov da poco aveva legalizzato le cooperative dei lavoratori, consentendo di commerciare indipendentemente. Questa nuova forma legale di impresa fu utilizzata da un nuovo strato sociale di dipendenti pubblici corrotti, gangster e piccoli uomini d'affari per riciclare denaro sporco proveniente dalla corruzione.
L'economia sovietica ha attraversato il periodo di rallentamento della crescita, successivamente della crisi e quindi del collasso catastrofico, sostanzialmente in un contesto di pace sociale. In seguito al fallito colpo di stato di alcune frazioni delle forze armate e dei servizi di sicurezza, Eltsin, invece di contribuire alla restaurazione del governo costituzionale del Presidente Gorbaciov, assunse il potere in prima persona. Operando su precise istruzioni dei consiglieri statunitensi introdusse un programma shock per convertire l'economia dal socialismo al capitalismo in 100 giorni.
Nella vecchia URSS non c'era una classe capitalistica. In Occidente i governi potevano privatizzare singole imprese vendendole sul mercato dove le azioni sarebbero state immediatamente acquistate dalle classi sociali dominanti, o come nel caso delle privatizzazioni della Thatcher, da alcune frazioni delle classi medie. Ma nel caso dell'URSS le cose erano molto differenti. Non c'era una classe di individui abbastanza ricchi da acquistare le imprese di Stato legalmente. Inoltre le privatizzazioni furono così vaste che anche in un economia di mercato i risparmi della popolazione sarebbero stati insufficienti ad acquistare l'intero settore industriale della nazione. La semplice logica avrebbe consentito di comprendere come l'unico modo per vendere ai privati l'industria statale era tramite il gangsterismo e la corruzione, proprio quanto accaduto: una manciata di mafiosi in stretta connessione con gli oligarchi hanno finito per impadronirsi di buona parte dell'economia. La teoria neoliberista sosteneva che, una volta che le imprese fossero state liberate dallo Stato, la “magia del mercato” avrebbe assicurato che avrebbero operato produttivamente per il bene pubblico. Tuttavia questa visione dell'economia sovrastimò grandemente il ruolo dei mercati. Anche nelle economie di mercato, i mercati così come descritti nei testi scolatici di economia sono un'eccezione – limitate ad alcune limitate aree, come nel caso del mercato mondiale del petrolio e dei mercati valutari. La prevalente struttura industriale di un'economia dipende da un complesso sistema interconnesso di relazioni regolari tra produttore e consumatore, ove gli stessi offerenti distribuiscono beni regolarmente ai consumatori settimana dopo settimana. Nel caso dell'URSS il sistema di interconnessioni interessò due continenti, inserendo nella propria rete di collegamenti altri paesi: Europa dell'est, Cuba, Vietnam, ecc. Le imprese dipendevano sui regolari ordini statali, ove i componenti potevano essere inviati ad altre imprese anche a migliaia di chilometri di distanza. Tutti i paesi e le comunità delle regioni selvagge della Siberia contavano, per la propria sopravvivenza economica, su questi ordinativi. Nel momento in cui lo Stato arrivò ad un punto di bancarotta tale per cui non potè più sostenere questi ordini, quando non fu più in grado di pagare i salari, ed una volta che la rete di pianificazione che aveva fino ad allora coordinato quegli ordini fu messa da parte, ciò che si verificò non fu una spontanea autoorganizzazione dell'economia, così come promessa dai neoliberisti, ma un processo di collasso “a domino”.
Non arrivando più ordinativi, le fabbriche impegnate nelle industrie primarie chiusero. Senza l'arrivo di componenti di sostituzione, le industrie secondarie non potevano più produrre, così che anche esse chiusero. Il processo fu peggiorato dal fatto che l'URSS lo affrontò non unitariamente ma divisa, in una dozzina di paesi, ognuno con la propria economia separata. Il sistema industriale che era stato costruito in maniera integrata, diviso successivamente dalle barriere nazionali cadde in rovina. Se l'economia avesse continuato a crescere anche ad un tasso modesto come nell'ultimo periodo di Brèžnev (circa il 2,5%), oggi la produzione industriale avrebbe dovuto raggiungere il 140% dei livelli del 1990. L'effetto netto di oltre vent'anni di capitalismo è stato quello di lasciare la Russia con la metà della capacità industriale rispetto a quella che ci si sarebbe potuti attendere anche con i livelli più bassi di crescita dell'economia socialista.
I limiti della pianificazione burocratica, inevitabilmente inefficiente e arbitraria, non possono essere utilizzati come un argomento contro l'idea stessa della pianificazione.
Un'economia pianificata offre infatti, rispetto ad una volta alla spasmodica ricerca del massimo profitto, degli indubbi vantaggi. Nel capitalismo gli interessi dei produttori sono in contrasto con quelli dei consumatori, tendenti ad avere prodotti a prezzi economici e in abbondanza. La concorrenza per la conquista del mercato non fa venir meno questa contraddizione: pensiamo alle ingenti somme spese per la pubblicità, ai prodotti-richiamo delle grandi catene di distribuzione ad acquistare altri prodotti al prezzo scelto dal padrone. Si tratta di tecniche di persuasione per cui al consumatore viene “lavato il cervello” in modo da fargli credere che un prodotto è essenziale, se non altro per non sfigurare con gli amici e i conoscenti (pensiamo all'industria automobilistica, ma gli esempi potrebbero estendersi all'infinito).
La pianificazione socialista, al contrario, guarda le cose dal punto di vista dell'intera società, non delle corporations e dei loro azionisti. Non ha alcun interesse, ad esempio, a restringere la produzione per mantenere alti i prezzi e, soprattutto, non vede contrapporsi gli interessi dei consumatori con quelli dei produttori semplicemente perché questa distinzione perde ogni significato. Produzione e consumo sono differenti aspetti che riguardano le persone che appartengono alla comunità dei lavoratori. Una volta eliminate le diseguaglianze – perché sono state eliminate le classi e i loro interessi egoistici – produttori e consumatori coincidono.
Uno dei compiti fondamentali della pianificazione è quella di subordinare gli interessi particolari all'interesse generale e di armonizzare i punti di vista parziali con una visione complessiva della società. In un'economia socialista nessuno sfrutta il lavoro di altri, ma vige il principio che chi non lavora non mangia.
Inoltre un economia di mercato non è interessata a considerare gli effetti dell'attività economica né a prendere in considerazione tutti i bisogni umani dal cui soddisfacimento dipende il benessere della comunità. Cosa può interessare ai detentori del capitale, o ai manager d'azienda, dei problemi legati all'inquinamento dell'atmosfera o dei fiumi o dei mari? Cosa gli può interessare della distruzione della natura, delle conseguenze disastrose degli scarichi chimici, del disboscamento selvaggio, dello smog immesso nell'ambiente? Assolutamente nulla.
Solo la pianificazione socialista consente di ponderare le decisioni alla luce delle loro reali implicazioni perché portatrice di una visione complessiva della società.
Un altro motivo per ripensare la pianificazione è che a livello tecnico, grazie alla rivoluzione digitale, è oggi molto più semplice pianificare un'economia complessa rispetto a quanto lo fosse trenta o quarant'anni fa. Negli anni Ottanta in URSS esistevano 24 milioni di prodotti diversi, ma l’intero apparato degli addetti alla pianificazione era in grado di tracciare il prezzo e la quantità di solo 200.000, e la pianificazione centrale vera e propria 2000. Come risultato, le fabbriche rispettavano gli obiettivi fissati solo per la limitata quantità di merci che dovevano produrre, e se mai riuscivano a soddisfare le altre richieste, lo facevano in maniera caotica. Negli ultimi vent'anni Paul Cockshott e Allin Cottrell (rispettivamente un matematico e un professore di economia) si sono impegnati a mostrare nei loro lavori come le nuove tecnologie dell'informazione possano aiutare a superare molte delle limitazioni tecniche della pianificazione centrale del secolo passato e, appoggiandosi su tabelle del consumo intersettoriale dei tempi di lavoro e mediante lo sviluppo di algoritmi adeguati, aumentare i livelli di produttività e produzione, prestando attenzione alle esternalità positive e negative (per esempio ambientali) riducendole al minimo e migliorando i livelli degli sprechi. Tuttavia il piano per non essere autoritario ed essere dunque fonte di sperperi, dissesti e malagestione, come fu in Unione Sovietica, deve basarsi sulle preferenze dei produttori; e il modo più semplice e migliore di raccogliere le preferenze dei produttori è quello di dare la voce ai produttori in quanto tali. E questo può avvenire solo in un regime di democrazia operaia. La pianificazione socialista deve basarsi su un dibattito democratico e pluralistico, a tutti i livelli dove le decisioni vengono prese. Organizzati sotto forma di partiti, piattaforme o altri movimenti politici gli organismi di pianificazione devono essere costituiti da delegati eletti e lì devono essere presentate proposte diverse sottoscritte dalle persone interessate. Quello che immaginiamo è per citare Ernest Mandel una «pianificazione democratica-centralista sotto un congresso nazionale dei consigli dei lavoratori costituiti nella loro grande maggioranza da lavoratori reali». Se le principali leve dell'economia fossero socializzate, poste sotto la gestione e il controllo dei lavoratori, e si procedesse con una pianificazione democratica, lo sviluppo delle forze produttive a livello mondiale si evolverebbe a un ritmo incomparabilmente superiore a quello attuale. Oltre ad essere più razionale, equo, ed ecocompatibile. È un’utopia? Nel suo senso etimologico - “qualcosa che non esiste da nessuna parte” - certamente sì. Ma non sono utopie, cioè visioni di un futuro alternativo, il desiderio di immaginare una società diversa, una caratteristica necessaria di qualsiasi movimento che voglia sfidare l'ordine stabilito?
Per approfondimenti:
- Hayek (a cura di), Collectivist Economic Planning: critical studies on possibilities of socialism, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1935
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- H. Carr - Davies, Le origini della pianificazione sovietica. I: Agricoltura ed industria, 1926-1929, Einaudi, 1972
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- H. Carr- R. V. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. III: Il partito e lo Stato, Einaudi, 1978
- H. Carr - R. V. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. IV: L'Unione Sovietica, il Komintern e il mondo capitalistico, Einaudi, 1978
- H. Carr - R. V. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. V: I partiti comunisti nel mondo capitalistico, 1926-1929, trad. Aldo Serafini, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, 1980
- H. Carr - R. V. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. VI: L'Unione Sovietica e la rivoluzione in Asia 1926-1929, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1984
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