Cosimo Cerardi
Il modello che i socialisti utopisti proponevano era dato da un'idea di organizzazione in cui tutta la società viene ad essere intesa come una grande lega di famiglie (governata nell’insieme dal trio), suddivisa in minori leghe di famiglie governate dalle compagnie dei maestri, ecc. Accanto a questa organizzazione, quella delle Accademie, e quella del Consiglio di salute. Nessuno può essere eletto se non cede tutti i suoi beni allo stato.
Se si accetta la riforma proposta, conclude il Weitling, al dominio della pura e bruta forza si sostituirà quello del diritto; si eviterà che i doni dell’eloquenza e del bell’aspetto traggano in inganno gli elettori; anch’essi sono « privilegi », ai quali bisogna ovviare; si evitano tutti i personalismi come pure tutti gli inutili dibattiti parlamentari; aumenta lo zelo per il progresso nelle invenzioni e nelle scoperte, nelle arti e nelle scienze; ogni cambiamento di personale nell’amministrazione darà impulso progressivo alla società; e le nuove grandiose idee potranno essere messe rapidamente in atto.
In quella che viene considerata come la sua opera più matura (dopo l’abbandono del primitivo comunismo egualitario di tipo babuvista, che lo aveva portato a partecipare all’insurrezione del 1839 a Parigi, dopo le persecuzioni da parte del Bluntschli in Svizzera e prima delle fantasie religiose degli ultimi anni), il Weitling, in sostanza, propone una riforma elettorale su basi corporative ed egualitarie, che dovrebbe servire a permettere la realizzazione delle nuove e grandi idee, fra le quali anche, probabilmente, quella della comunione dei beni. E’ inutile soffermarci più a lungo su questo scritto, e analizzare gli elementi eterogenei, fourieristi e sansimoniani, che ne formano la sostanza; ed è anche inutile sottolineare come permanga in esso l’idea della abolizione della criminalità e di ogni sistema giuridico, e come si riscontri a ogni piè sospinto quello che si può dire, con parola forse anacronistica, l’operaismo del Weitling, cioè la sua avversione per i privilegiati dei talenti naturali, della scienza scolastica, per gli intellettuali, insomma, contro i quali non si stancava mai di predicare.
Del resto, intellettuali come il giornalista Bornstedt o come il giovane professore Lorenz Stein, autore di un libro sul socialismo e il comunismo in Francia che Marx apprezzava, e che è stato anche elencato nella lunga serie delle « fonti » del Manifesto dei Comunisti(1) , meritavano la diffidenza istintiva dei Weitling: è stato dimostrato che essi erano in contatto, se non proprio al loro servizio, con le autorità di polizia prussiane. Gli artigiani Schapper, Bauer e Moll avevano per molto tempo condiviso le dottrine e le diffidenze dei Weitling. Era contro queste dottrine, con le fantasie annesse di lingue universali, di progetti grandiosi e via dicendo, che Marx ed Engels polemizzavano nella loro « corrispondenza» con il comitato londinese della Lega dei giusti e con l’Associazione operaia parallela, e nelle circolari litografate che essi diffondevano .
Dal racconto famoso dell’Annenkov sull’incontro e sulla rottura definitiva fra il Weitling e Marx ed Engels, riportato dal Maenchen-lelfen e Nicolajevski, risulta che ancora nel 1846 il Weitling ripeteva le sue dottrine sansimoniane sulla « capacità» che deve governare, e così via.
Ma la « società di corrispondenza » di Marx e la rivista che l’avrebbe dovuta accompagnare rappresentavano anche un altro progresso nella storia del movimento politico del proletariato: il primo tentativo di un passaggio dall’azione cospirativa e segreta, alla quale il Weitling, come il Blanqui e gli altri, tenevano fermo, alla azione pubblica, quanto alla diffusione delle idee. Se l’azione in senso stretto era costretta al segreto cospirativo dalla reazione poliziesca, non c’è nessuna ragione di mantenere il mistero delle congiure quanto ai principi e alle dottrine: non è però soltanto un’evoluzione d’importanza analoga a quella dell’opera del Mazzini con il passaggio dai misteri carbonici alla pubblicità del programma e delle idee della Giovane Italia, c’è qualcosa d’altro (2); ricordiamo però, prima di parlare della esigenza « scientifica », cioè critica, di sistematicità, di coerenza, portata da Marx nel movimento comunista, che il passaggio al quale abbiamo accennato non ebbe la eco e la fecondità del movimento mazziniano con il quale l’abbiamo paragonato per farne intendere il significato storico: dopo due anni, anzi meno, la rivoluzione del 1848 avrebbe cambiato la situazione, e poi, il suo fallimento, avrebbe rincrudito la reazione delle polizie, e resa più lenta l’efficacia dell’azione di propaganda e di discussione delle dottrine e delle idee. Del resto, fu quell’azione proposta dalla « società di corrispondenza , quella che Marx riprese con la rivista «Neue Rheinische Zeitung » e poi più tardi con la Prima Internazionale. D’altra parte, va ricordato che quanto all’azione pratica immediata, e dove la situazione lo rendeva necessario, Marx procedeva d’accordo con il Blanqui, come mostra l’accordo del 1849 o 1850 fra Marx e Blanqui per una Società universale dei comunisti rivoluzionari, che tende all’azione immediata e comincia con la dichiarazione seguente: « Il fine dell’associazione è l’abbattimento di tutte le classi privilegiate, la sottomissione di queste classi alla dittatura del proletariato mantenendo la rivoluzione in permanenza fino alla realizzazione del comunismo, che sarà l’ultima forma di vita della comunità umana ». E sono note le parole delle Lotte di classe in Francia, che riprendono quasi gli stessi termini di questo accordo (3). A ogni modo, è noto come pochi anni dopo, fra il 1850 e il 1852, Marx ed Engels si convincessero che l’attività « teorica », «scientifica », di discussione di dottrine e di situazioni, come di analisi approfondita del sistema economico che reggeva la società, fosse, data la situazione storica, l’unica possibile, e come, parallelamente, all’opera cospirativa si dovesse sostituire l’opera di organizzazione sistematica e consapevole: il che non vuol naturalmente dire che Marx ed Engels escludevano apriori la soluzione proposta da Blanqui.
Non insisteremo molto sulla esigenza di una preparazione e di un’elaborazione scientifica, fondata sui risultati degli studi e dell’attività filosofica, come di quella economica, come di quella dei « socialisti» e dei politici democratici; che in Marx si accompagnava con quella di una propaganda pubblica e di una pubblica discussione dei principi comunisti, una discussione che prosegue anche nei noti capitoli sul passaggio dall’utopia alla scienza.
È anche vero però che questo passaggio è uno dei più contestati dagli avversari del marxismo, del socialismo e del comunismo: si contesta che si tratti realmente di scienza, si oppone al marxismo il vero socialismo degli utopisti, si nega che gli ideali rivoluzionari e il realismo storico possano logicamente essere tenuti insieme e cosi via dicendo. Ma se si volesse affrontare questo problema si dovrebbe risalire al problema filosofico, e a tanti altri problemi connessi con quello dell’unità di teoria e prassi, che ci dovremmo dimenticare per molto tempo il Manifesto dei Comunisti.
In questo senso si rimanda a diverse biografie su Marx per ricordare le discussioni col Kriege, per la storia della trasformazione della Lega dei giusti di tradizione « weitlingiana », con le lotte finali perché abbandonassero le posizioni utopistiche e perché accettassero le idee di Marx e di Engels:
quel che importa non sono ideali di nuovi mondi sociali, di sistemi machiavellici o meno per approdare o con una riforma elettorale o con un sistema di crediti o con qualche altra leva miracolosa alla riforma e alla trasformazione della società senza che ci potessero essere opposizioni, e così via: quel che importa è la conoscenza della reale situazione storica ed economica e sociale e politica nella quale si vive e si deve agire; non si tratta di realizzare un qualche sistema preconcetto, ma di partecipare consapevolmente e attivamente al processo, che è in corso, di trasformazione della società degli uomini, affinché tale processo si svolga secondo la sua logica, e siano vinte 1c resistenze opposte a tale svolgimento dalle vecchie classi, che non sanno più dominare le forze stesse ch’esse hanno messo in moto, verso la fine del 1847, finalmente, Marx ed Engels vedono la vittoria delle loro insistenti discussioni e esortazioni: nel giugno 1847 la Lega dei giusti è diventata Lega dei comunisti, con nuovi statuti, che le tolgono completamente il vecchio carattere cospirativo. Si pubblicò anche un primo numero della rivista, che Marx da tempo proponeva: la « Kommunistische Zeitschrift », della quale uscì, anche questa volta, un solo numero, e che è rimasta famosa perché, ad opera di Marx e di Engels, vi apparve, per la prima volta, invece del motto della vecchia Lega dei giusti — « Tutti gli uomini sono fratelli » — quello che avrebbe pochi mesi dopo concluso il Manifesto, e sarebbe diventato la parola d’ordine rivoluzionaria: « Proletari di tutti i paesi, unitevi! » A un vago Sostituto di religione, si sostituiva il motto di un organismo di lotta politica, di un partito politico. Nello stesso periodo, Marx comincia la collaborazione alla « Deutsche Brusseler Zeitung », più continuativa delle altre varie collaborazioni a riviste tedesche, È di questo anno 1847 anche il famoso scritto di critica alle dottrine economiche e sociali del Proudhon, la Miseria della filosofia; ed è di quest’anno la maggiore partecipazione di Marx alla attività della Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles (Circolo di Studi): per questa associazione socialista Marx tenne una serie di conferenze economiche, delle quali è rimasta una parte (4).
Di questo periodo, e particolarmente degli ultimi mesi del 1847 e dei primi del 1848, è anche la partecipazione di Marx ed Engels alla Associazione democratica per l’unione e la fratellanza dei popoli.
In mezzo a questa attività politica e scientifica, Marx ebbe da Engels l’invito a preparare il Manifesto. La Lega dei comunisti doveva riunirsi per l’autunno dello stesso anno 1847, e per questo secondo congresso si voleva avere una professione di fede da pubblicare e diffondere affinché la posizione dottrinale della Lega dei comunisti apparisse chiara e distinta dai vari socialismi utopistici, e affinché particolarmente si potesse eliminare ogni residuo delle fantasie del Weitling. I progetti dello Schapper e di Moses Hess, elaborati sotto forma di catechismo, a domanda e risposta, vennero scartati dalla comunità parigina della Lega. Se si confrontano questi appunti anche nella condizione frammentaria nella quale ci sono rimasti, con le « domande e risposte» di Moses Hess pubblicate nel « Vorwarts » parigino, nel 1844, e ripubblicati dal Cornu’(5) si vedono i progressi compiuti verso una considerazione storica e concreta: la preoccupazione di definire il lavoro, il denaro, la libertà, la servitù, e così via, l’idea dell’organizzazione, dell’armonia, diventa consapevole e politica. Le proposte della comunità di Parigi della Lega dei comunisti e gli appunti di Engels, vanno però confrontati anche con il tentativo di Engels di offrire egli stesso una sorta di formulazione che ricorda molto il catechismo del comunismo , infatti lo scritto prenderà il nome proprio dei i”Principi del comunismo”, sui quali si proverà a adesso a discutere.
È vero che dopo l’edizione fattane a parte, come scritto autonomo e conclusivo, dal Bernstein, nel 1914, e le traduzioni che ne sono state fatte (la prima italiana è quella di Angelica Balabanof) si suole ripubblicare questo scritto come cosa a sé.
In realtà, il posto di questo scritto è con gli altri tentativi, dello Schapper e dello Hess, con le circolari della Lega dei comunisti e della Lega dei giusti, specialmente in una pubblicazione come la nostra, che vorrebbe aiutare il lettore a riporre il Manifesto nel momento storico nel quale è stato composto, più che fornire materiale per riflessioni teoriche e ideologiche (cosa che ha la sua importanza, ma alla quale preferiamo una raccolta di materiali per l’intendimento e l’informazione storica, senza per questo intendere di svalutare minimamente l’altro modo di presentazione), Engels stesso, con la sua insoddisfazione e per la forma catechistica e per il tono dogmatico che veniva già dato dalle domande stesse dello Schapper e del Moll, e per il lavoro compiuto, conferma questo carattere.
Anche Gustav Mayer, il biografo di Engels, lo considera come un abbozzo, gettato giù senza nessuna pretesa che rappresentasse qualcosa di definitivo, e non più rielaborato per mancanza di tempo; era pensato per l’ambiente ristretto degli artigiani delle varie sezioni e comunità della Lega, con riguardo ai residui di pregiudizi weitlingiani, al sentimentalismo di Moses Hess, al proudhonismo di molti dei membri della Lega.
Di qui il tono divulgativo, il linguaggio elementare che non presuppone cognizioni storiche ed economiche, che non ha nulla che possa risvegliare l’antipatia operaistica per il linguaggio difficile e pretenzioso dell’intellettuale, di qui il semplice andamento di colloquio, tanto diverso da quello del Manifesto. Con questo non si vuole negare che la struttura dell’abbozzo di Engels corrisponda largamente alla linea generale del Manifesto, come osserva il Mayer: l’uno e l’altro cominciano con la definizione del proletariato, espongono come questo sia sorto e trattano del contrasto fra borghesia e proletariato, distinguono il proletariato dalle categorie di lavoratori di epoche precedenti, espongono la teoria del salario, e dimostrano la necessità di un nuovo ordinamento sociale, e dimostrano che questo nuovo ordinamento della società non può non essere quello comunista.
Nell’abbozzo di Engels si insiste un po’ più che nel Manifesto sulla possibilità di realizzare il comunismo con mezzi pacifici, benché si parli per disteso anche della prossima rivoluzione. C’è meno polemica con gli avversari del comunismo, e c’è più insistenza sulle benefiche conseguenze dell’eliminazione della proprietà privata. Non mancano i cenni sulla distinzione della Lega dei comunisti dagli altri movimenti e partiti politici. Questo vale anche per il contenuto fondamentale: dimostrazione che l’età del capitalismo, della libera concorrenza, della egemonia della borghesia si dovrà capovolgere, per la forza stessa delle energie produttive che hanno fondato quell’egemonia, in un’epoca di comunità guidata da un programma comune consapevolmente elaborato, di comunismo, dove la proprietà privata sia abolita, un’età di comunismo, fondata sull’egemonia del proletariato( 6).
Il pensiero di Engels è però più vicino alle opere precedenti elaborate in comune dai due amici, e soprattutto alla Ideologia tedesca, poiché sottolinea nel suo scritto preparatorio l’ideale dello sviluppo integrale e multilaterale delle facoltà di ogni uomo, quell’ideale dell’uomo integrale o totale, che la emancipazione del proletariato avrebbe dovuto realizzare, anzi, permettere di realizzare.
Al Mayer questa differenza fra i Principi di Engels e il Manifesto sembra una differenza sostanziale, di contenuto, in quanto nel Manifesto sarebbe meno insistente, anzi, quasi obliterato a favore delle forze oggettive della storia, l’interesse per l’individuo. Sembra piuttosto che si tratti, nell’abbozzo, di una permanenza più sensibile, più diretta e immediata, delle idee svolte ed elaborate ancora pochi anni prima, nella discussione con gli intellettuali tedeschi loro amici, da Marx e da Engels insieme: quell’idea dello svolgimento pieno e libero della persona umana, di tutti gli individui umani secondo le loro facoltà e possibilità intrinseche, che in Marx ed Engels ha il luogo dell’egualitarismo grossolano, e che li congiunge alle idee fondamentali che sono all’origine della filosofia classica tedesca e del romanticismo prima del ripiegamento e dello sfruttamento reazionario e conservatore: la piena libertà dell’individuo, la libertà e la personalità.
Nel Manifesto questi motivi sono meno sottolineati, ma non mancano affatto, come non scompariranno mai dal pensiero di Marx e di Engels, benché ad essi ci si richiami sempre di meno, perché proprio la lotta politica e dottrinale, il lavoro di analisi e di critica, di organizzazione e di polemica, dal Manifesto alla Internazionale, dall’Antiproudhon al Capitale, sono lotta per quell’ideale, ma lotta .
Questo metodo di lavoro era stato per la prima volta adottato dal Babeuf e dal Buonarroti, ed era stato descritto da questo nel suo libro: così aveva preso piede assieme alle dottrine egualitarie babuviste. L’uso del termine non era molto diffuso: nel 1849, il Bastide in un articolo di dizionario politico, dava solo il significato tradizionale, antico, della parola manifesto, che nel linguaggio politico contemporaneo è scomparso, ma che certo non è senza nesso con l’uso fatto dal Babeuf e dal Maréchal: «esposizione pubblica che una potenza fa, in contesa con un’altra, dei suoi diritti, delle sue rimostranze, del fine ch’essa si propone prendendo le armi, e, a volte, dei mezzi che dichiara d’impiegare per raggiungere lo scopo ».
Il Bastide, che qui si ricorda perché contemporaneo, « repubblicano » del « National », uomo politico presente nella rivoluzione del 1848, a preferenza di trattatisti più autorizzati, continua osservando che il manifesto non è identico con la dichiarazione di guerra, benché spesso l’accompagni: esso si rivolge alla pubblica opinione, per dimostrare che si agisce conformemente ai principi dell’equità naturale. Da questo significato, di appello alla pubblica opinione, in nome della giustizia, per spiegare l’atto del prendere le armi e del dare inizio alla guerra, era facile il passaggio all’altro significato, di appello analogo, non da parte di uno stato, ma da parte di un gruppo politico: e questo tono ha il Manifesto degli Eguali: annuncio dell’insurrezione, e spiegazione delle ragioni dell’insurrezione, oltre che invito al popolo di partecipare, o di non ostacolare. D’allora in poi i manifesti s’erano moltiplicati, cambiando leggermente carattere, cioè allontanandosi sempre più dal carattere di proclamazione di principi all’inizio di una azione di guerra o insurrezionale, per assumere il carattere di esposizioni di principi politici generali dirette da un governo a uno o più governi stranieri, o dai capi d’un partito al paese intero. Famoso fra gli altri, il Manifesto politico e sociale inserito dal Considerant nel primo numero del suo quotidiano « La Démocratie pacifique » (1° agosto 1843), e ristampato nel 1847 con il titolo “Principi del socialismo, Manifesto della democrazia nel secolo XIX “(7).
Il significato politico rivoluzionario era comunissimo in tedesco, come mostra il libro dello Stein sopra ricordato, dove viene chiamato “Manifesto” ogni breve trattato e dichiarazione di principi.
Così il secondo congresso (dell’autunno, anzi del novembre-dicembre 1847) non ebbe la professione di fede, ma dette a Marx, che questa volta aveva partecipato personalmente al congresso assieme a Engels, e a quest’ultimo, l’incarico di redigere il programma, come Manifesto della Lega che si doveva trasformare addirittura in partito per accentuare ancora di più l’abbandono delle forme segrete e cospirative, e la linea d’azione legale e pubblica che si voleva prendere.
La Lega dei comunisti doveva rimanere società segreta per forza di cose: ma per il resto non doveva avere nulla di segreto, né programma, né principi generali, e via dicendo.
Dalla metà di dicembre 1847 in poi, Marx lavorò indefessamente al Manifesto; il 24 gennaio 1848 partiva da Londra una lettera del comitato centrale, che minacciava provvedimenti se Marx non avesse consegnato il manoscritto entro il 1° febbraio. Venne stampato nel corso dello stesso mese, in tedesco; delle traduzioni contemporanee che sono annunciate all’inizio del Manifesto stesso non si hanno notizie precise; si parla di una traduzione francese uscita contemporaneamente, o quasi, ma che certamente ha avuto poca diffusione.
Negli scritti polemici che compaiono nel 1848 e nel 1849, come nelle edizioni del famoso saggio del Reybaud e di quello non meno noto del Sudre, che hanno rappresentato per tutto il secolo, e fino ai nostri tempi, il testo principale d’informazione della polemica liberale contro socialismo e comunismo, non c’è traccia d’informazione di traduzioni del Manifesto del Partito Comunista. Soltanto in uno scritto polemico del Considerant, di difesa del socialismo contro altre concezioni, e della dottrina fourieriana, che per il Considerant è il socialismo senz’altro, contro le altre forme di socialismo e contro il comunismo, troviamo un accenno che può forse essere riferito alle dottrine del Manifesto del Partito Comunista. Dopo aver parlato del babuvismo, il Considerant osserva: « ... Si ritrova, in uno stato più generico, nella varietà di comunisti che presero, da qualche anno, il nome di materialisti, e si trova in uno stato incolto, pieno di odio e selvaggio in una varietà attuale del comunismo tedesco » (8).
Per il religioso Considerant, la posizione del Manifesto doveva assumere questo aspetto. Ma non si può dire che ci sia un riferimento a Marx piuttosto che alle idee del Weitling, di riformare la società abbattendo il vecchio ordine borghese mediante il ricorso ai suoi nemici più dichiarati e immediati: ai criminali. Se c’è un riferimento al comunismo di Marx e di Engels si dovrà constatare un caso di più di incomprensione, e un caso di più di quella accusa di comunismo che i partiti di opposizione facevano rimbalzare gli uni sugli altri, come viene osservato all’inizio del manifesto stesso. Quanto all’accusa di comunismo che la reazione faceva ai partiti dell’opposizione, si ricorda un altro trattato posteriore di pochi mesi al Manifesto, ma caratteristico delle polemiche d’allora, si tratta di un saggio d’un padre gesuita sulle cause del comunismo che sono secondo lui: il deismo, o negazione di ogni religione rivelata; il materialismo; il panteismo; la negazione dell’autorità divina (cioè ecclesiastica) in materia di morale, cioè la morale filosofica promossa dal governo; infine l’insegnamento di stato, cioè il monopolio statale dell’educazione: non si salva né il Guizot né il Cousin, tutti sono fatti responsabili di massacri, incendi, parricidi, furti, ecc. ecc.
Ma il testo classico di quella polemica si può dire che sia un libello di un giornalista al servizio di Luigi Napoleone Bonaparte, scritto per preparare gli animi al colpo di stato, concepito come unico modo di prevenire la vittoria del socialismo e del comunismo nelle elezioni del nuovo presidente della repubblica francese, che dovevano avvenire nel 1852, e che furono, come è noto, precedute dal colpo di stato che instaurò la dittatura del secondo impero. Lo ricordiamo, perché già nel titolo riprende le parole iniziali del Manifesto dei Comunisti (non sapremmo dire, naturalmente, se il Romieu conoscesse o no il Manifesto: il titolo è Lo spettro rosso del 1852):
«Sono migliaia di contadini e di operai, ai quali il giornale e il libraio ambulante lanciano ogni mattina il veleno dell’invidia, della rabbia, dell’esecrazione, non più contro il gentiluomo, che è morto, ma contro il borghese, che gli è succeduto […]. Ci sono dappertutto parole d’ordine: non un albero, un cespuglio, che non nasconda un nemico preparato alla grande battaglia sociale. Il primo suono della campana a martello sarà ripetuto da echi immensi, e batterà per caso. E allora, fortunati i castelli dei quali rimarranno almeno le pietre... » (9).
Naturalmente, lo spettro della rivolta dei contadini e degli operai, del massacro, dell’abolizione della famiglia e di ogni ordine morale, evocato dal Romieu, per convincere i borghesi francesi a cedere il potere a Napoleone III, è una orrida fantasia di libellista: ma a queste fantasie e deformazioni, che sono continuate e continuano fino ad oggi, ripetendosi continuamente, proprio a queste fantasie risponde sarcasticamente il Manifesto, fin dalle prime righe.
Mentre si preparava e si avvicinava rapidamente il movimento rivoluzionario del 1848, Marx ed Engels avevano inteso che il suo vero significato non sarebbe stato tanto nella lotta politica del liberalismo e della democrazia, quanto nella affermazione del socialismo: non tanto nella lotta politica della borghesia quanto in quella del proletariato. Le profonde ragioni del fallimento delle rivoluzioni liberali, borghesi e nazionali del 1848 stanno nel loro fallimento iniziale e di principio: nel timore o nella incomprensione delle rivendicazioni di emancipazione e di libertà e di giustizia del proletariato, o se si vuole usare la terminologia di altri democratici di allora, delle plebi, del popolo; e in generale nella scarsa maturità politica, in senso moderno, e nello scarso realismo politico dei rappresentanti delle tendenze «democratiche». Ma questa sarebbe questione soltanto retrospettiva.
Marx, nel Manifesto, partecipa del resto a quella immaturità politica, quando ritiene molto più rapido il passaggio dalla società borghese a quella proletaria, sottovalutando, come del resto fanno anche i Principi, la capacità di resistenza delle vecchie forze conservatrici, dell’ordinamento capitalistico della società. Marx ed Engels condividono qui le speranze e le illusioni di tutti i rivoluzionari, in quell’anno di grandi entusiasmi e di grande attesa, Così, anche un altro problema viene accennato appena, nel Manifesto come nei Principi, quello dello stato.
Nel Manifesto osserva Lenin — «sono riassunti i risultati generali della storia, che ci costringono a vedere nello stato un organo della egemonia di classe, e ci fanno giungere alla necessaria conclusione che il proletariato non può far cadere la borghesia senza aver prima conquistato il potere politico, senza avere raggiunto il potere politico e senza avere trasformato lo stato nel “proletariato organizzato come classe dominante”, e che questo stato proletario comincerà a morire subito dopo la sua vittoria, poiché in uno stato senza antagonismi di classe lo stato non è necessario, né possibile ». Non viene posta la questione del come debba avvenire — considerando la cosa dal punto di vista dello svolgimento storico questo subentrare dello stato proletario allo stato borghese. E, più sopra: nel Manifesto « la questione dello stato viene trattata ancora in maniera estremamente astratta, in concetti e con espressioni generalissime ». Il che naturalmente non vuol dire che non vi sia indicato il problema della « dittatura del proletariato », nella frase: « lo stato, cioè il proletariato organizzato come classe dominante ».
Marx ha affrontato questo problema, che è quello della lotta politica del proletariato e del nuovo partito, nel Lotte di classe in Francia, Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte e Guerra civile in Francia, dove esamina i risultati di quegli anni di azione rivoluzionaria e di fallimento delle speranze rivoluzionarie.
Qui non diamo un analisi al dettaglio della sopracitata frase all’interno dei diversi sopracitati, ne tanto meno, ma è pure vero che il succo del ragionamento proposto dalle citazioni precedentemente riportate permeano anche altri questi testi, nelle stesse rivendicazioni della Lega dei comunisti in Germania, ecc., e insomma i documenti che rimangono nella atmosfera quarantottesca del Manifesto, che ne indicano cosi anche il limite storico. Ma anche in questo involucro «quarantottesco», anzi, appunto da questi limiti storici del Manifesto, appare chiara l’importanza storica e la vitalità dei principi del Manifesto: con esso, Marx ed Engels si mettono, non solo teoricamente, ma praticamente, all’avanguardia della lotta che nel 1848 comincia a divenire più consapevole. Allora, prima che si iniziasse, si sperava che l’imminente rivoluzione segnasse la vittoria dei principi democratici, e la possibilità della lotta concreta per la rivoluzione socialista e comunista: ma i principi del Manifesto varranno, in generale, per la lotta politica del proletariato nel periodo seguente. Questo potranno constatare Marx ed Engels nelle prefazioni alle successive edizioni, questo si può constatare ancor oggi. Anche il capitolo di critica alle varie forme del comunismo e socialismo utopistico, reazionario, piccolo-borghese, ecc, ha grande vitalità, perché col sopravvivere e vario atteggiarsi dei vari strati e delle varie forme della società borghese, in quanto essa perde di dinamismo e diventa statica, ripetendosi, quelle ideologie tornano continuamente a ripresentarsi.
Note
(1) Si citeranno via via altre edizioni che abbiamo usato nella fattura di questo scritto; si tratta di tre edizioni, non di due come comunemente si ritiene.
(2) R. Mondolfo, Mazzini e Marx in Sulle orme di Marx, 3 ed., II, Bologna 1923, per tutti gli altri paralleli e contrasti fra Marx e Mazzini. Il paragone con la « Giovane Italia », vi è già in F. Engels, Il catechismo dei comunisti, traduzione, prefazione e commenti di Giuliano Pischel, Milano 1945, p. 31 (è la traduzione dei Grundsgjze des Kommunismus, che noi presentiamo come Principi del comunismo).
(3) D. Rjazanov, Zur Frage des Verhulinjsses von Marx zu Blanqui, in «Thunrer dem Banner des Marxismus», 11, n. 1-2 (4-5 della serie), marzo 1928, pp, 140-49. La citazione, da p. 144. La datazione non è chiara nell’articolo del Rjazanov; sembra che questi voglia attribuire all’accordo la data del 1848-49. Il Rjazanov ricorda come Marx s’interessasse della sorte del Blanqui anche nel 1861, ecc.
(4) F. Galiani. Opere, I, VI, pp. 427-502. Sono le conferenze sul libero commercio e i dazi protettivi, sul salario, sul lavoro salariato e il capitale.
(5) A. Cornu, Moses Hess et la Gauche hégélienne, Paris 1934, pp. 108-18.
(6) Ivi, p. 118.
(7) L’articolo di J. Bastide, in Dictionnaire politique, encyclopédie du langage el de la science politiques, rédigs par, une réunion de députés, de publicistes et de journalisles, avec une introduction par Garnier-Pagès, 35 ed., 1848. Su V. Considerant, cfr. M. Dommanget, Victor Considerat, sa vie, son oesuvre, Paria 1929; sul Buonarroti, S. Bernestein, Filippo Buonarroti, Torino 1946, Vedasi anche Dal Pane, nello scritto su Buonarroti, ed. Einaudi, p. 67.
(8) V. Considerant, Le socialisme devani le vieux monde, ou le emani devant le vieux mondes ,ou le vivant devant les morts… ,Paris 1848, p. 32.
(9) N. Deschamp Un éclair avant la foudre, ou le communisme et ses causes, Avignon 1848; A. Romieu, Le spectre rouge de 1852, 2a ed.,Paris 1831, pp, 16 sgg. Più fama ebbe a suo tempo l’altro, precedente, libello bonapartista del Romieu, che sfruttava il motivo se devo ubbidire, meglio a Cesare che al barbaro popolaccio, L’ère des Césars. Del resto, il grido Le socialisme, c’est la barbarie!, che doveva essere ripreso dall’economista « classico» Cherbuliez nel 1848, in un noto opuscolo dell’epoca.