Gianbattista Cadoppi
(per la parte I, cliccare qui: https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/276-un-socialismo-possibile-per-aprire-un-dibattito-parte-i)
Dalla riforma al socialismo di mercato. La Cina nella prima fase del socialismo
Ciò che era stato fatto in epoca maoista poteva costituire una solida base per proiettarsi in avanti. Da un reddito pro-capite che era la metà di quello indiano nel 1949 è passata allo stesso livello dell’India alla metà degli anni Settanta. Con la rivoluzione la Cina è di nuovo uno stato completamente sovrano che, per la prima volta dopo una eclissi secolare, riesce nell’unificazione nazionale godendo di peso e riconoscimento internazionale.
La Cina nel 1978 può contare su importanti complessi industriali e una potente industria militare-spaziale; l’agricoltura dispone di grandi opere idrauliche e di infrastrutture, comunque insufficienti se stimiamo che il paese possiede quasi la quarta parte della popolazione mondiale ma il suo territorio, per ragioni naturali e geografiche, costituisce solo il 7 per cento delle superfici arabili a livello mondiale. Il paese asiatico ha anche altri vantaggi, non soffre di processi inflazionistici, né di pesanti debiti esteri. La crescita dell’economia, però, si rivela insufficiente, e la produttività molto bassa. Nel 1978, il 3° plenum dell’11° CC delibera di passare alla riforma. Gli effetti dell’introduzione del mercato sono stati semplicemente spettacolari.
Si sente spesso dire che la Cina dopo avere privilegiato le esportazioni dovrebbe ora privilegiare il consumo interno. Abbiamo detto della persistente mancanza di beni di consumo nei paesi socialisti, è ciò crea molte opportunità non sfruttate per la produzione di beni di consumo e servizi. Anche il trasferimento di quantità modeste di risorse nella produzione di beni di consumo, così hanno ragionato i dirigenti cinesi, avrebbe dovuto rapidamente aumentarne la domanda. Inoltre, poiché vi è una tale domanda insoddisfatta di grandi dimensioni, il “tiro” delle risorse nella produzione di beni di consumo dovrebbe essere forte. Infatti, la riforma di fine anni Settanta si è basata anche sul consumo interno che è aumentato enormemente in questi quaranta anni, più del 7 per cento l’anno. La riforma è stata fatta espressamente anche per aumentare il consumo interno, affinché la crescita del paese si trasformasse immediatamente in un aumento dei consumi. Altra cosa importante, con Deng l’economia cinese torna a crescere ripartendo dall’inizio (dal settore primario, come avrebbe consigliato, sostiene Arrighi, Adam Smith) e non dalla fine (cioè industria pesante). La crescita dell’agricoltura ha portato a una domanda di beni di consumo che a sua volta ha indotto una rapida crescita dell’industria pesante non fine a se stessa, ma come conseguenza del rapido sviluppo dell’industria leggera e dell’agricoltura. Questo a differenza delle ricette del FMI che portarono la Russia al collasso: con il crollo degli standard di vita, l’industria leggera e l’agricoltura sono a loro volta crollate e di conseguenza ciò ha portato alla débâcle dell’industria pesante (Lessons, 1996).
Con la dissoluzione delle comuni le terre vengono distribuite alle famiglie, le quali diventano responsabili del sovrappiù agricolo. La terra non viene però restituita ai singoli contadini, bensì al villaggio, che la suddivide in lotti destinati a singole famiglie e le dà loro in usufrutto (inizialmente per quindici anni, poi via via esteso a cinquanta). I contadini possono scegliere le loro coltivazioni e di dedicarsi a produzioni secondarie.
Scrive Hutton:
«A rendere la transizione così rapida fu il fatto che i nuclei familiari riconobbero in questo meccanismo il modo per riprendere il controllo della terra coltivata dagli avi per generazioni. E se anche le licenze d’uso avevano una durata di soli vent’anni […] i capi villaggio, e con essi anche ogni contadino, sapevano bene quali poderi spettassero a ciascuno, a dispetto dei tre decenni di collettivizzazione» (Hutton, 2007: 89).
È il cosiddetto “sistema a responsabilità familiare”, iniziato nel 1979 per iniziativa autonoma dei contadini delle aree più povere, che si sono semplicemente suddivisi tra loro la terra di proprietà collettiva. Non è privo di importanza che siano stati i contadini più poveri a dare inizio alla prima riforma denghista. Innanzitutto il partito ha assecondato la creatività popolare, Deng lo farà spesso, riprendendo quella che è la “linea di massa” di Mao. Sovente, in altre parole, sono state le stesse masse popolari a indicare la strada. Nel 1982, la nuova costituzione della RPC trasferisce i poteri politici e amministrativi delle 55 mila Comuni popolari a 96 mila amministrazioni locali (Cheek, 2007: 86-87).
Il sistema di responsabilità delle famiglie ha fatto sì che ogni famiglia contadina si prendesse la responsabilità di un determinato terreno, dove una certa quantità di raccolto viene prodotta per lo Stato e l’eccedenza viene utilizzata come la famiglia ritiene opportuno. La terra è ancora di proprietà collettiva, ma è inteso che dei miglioramenti apportati dal singolo agricoltore, ne beneficerà in proprio lui o la sua famiglia. Il motivo per cui il sistema di responsabilità delle famiglie è superiore nel contesto cinese è relativamente semplice: ha portato a un impetuoso aumento nella produzione agricola e a un migliore standard di vita per la maggior parte dei contadini. Il sempre maggiore trasferimento di occupati dall’agricoltura all’industria porta all’inurbamento e al boom dell’edilizia. Uno dei migliori indicatori del cambiamento globale che si è verificato è che oggi sempre meno persone sono impegnate in agricoltura che è diventata maggiormente produttiva.
Impostare rapporti di produzione adeguati vuol dire favorire lo sviluppo delle forze produttive. Se rapporti di produzione “avanzati” vengono imposti a una società arretrata, come quelli che hanno caratterizzato le Comuni popolari, portano a disincentivare la produzione, e dunque non sono solo inutili, ma addirittura dannosi. Se il socialismo è in grado di migliorare la vita della gente, nessuno lo rifiuterà. Stabilire rapporti di produzione che vanno al di là del reale sviluppo delle forze produttive, non porta affatto a più socialismo (in astratto), ma spesso al disastro economico con meno socialismo. Nonostante alcuni costi sociali, l’aumento della produzione nella campagna è stato in grado di consolidare una base di appoggio per le politiche del PCC. Un segnale di questo è che nelle interviste del tempo, sulla stampa occidentale e cinese, i contadini al lavoro esprimono una paura ricorrente: che le riforme siano solo temporanee e che un “cambiamento di vento” porti a un ritorno delle politiche del passato.
Zhao Ziyang aveva costruito la propria fortuna politica sul successo della riforma nell’agricoltura:
«Alla fine del 1978 Zhao, economista di professione e collaudato dirigente di partito, era governatore e segretario del partito per la provincia natale di Deng, il Sichuan. Non a caso questa provincia fu scelta come base del primo esperimento pilota della riforma agraria, con la liquidazione delle Comuni di Mao, e l’introduzione del sistema detto di “responsabilità individuale”. Dal palazzo di Chengdu Zhao creò “il miracolo verde del Sichuan”: nei primi mesi del 1980 non c’era osservatore straniero in arrivo a Pechino che non desiderasse di andarlo a vedere, questo miracolo, che aveva trasformato in meno di due anni la più popolosa provincia della Cina - 101 milioni di abitanti - nella più prospera regione del paese» (Fiore, 1989: 45).
I contadini migliorano il loro tenore di vita; aumenta anche l’industria leggera favorendo i consumi che incentivano a loro volta l’aumento della produzione. Si tratta probabilmente dell’unico caso della storia in cui, in un paese in via di sviluppo aumentano di più i redditi delle campagne piuttosto che quelli delle città. Lo stato sovvenziona l’agricoltura «con una spesa di oltre un miliardo di yuan (125 milioni di dollari) per mantenere il prezzo dei cereali alto per i contadini e basso per i consumatori urbani» (Cheek, 2007: 86-87). Tra il 1979 e il 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti di prodotti agricoli sono stati aumentati sensibilmente e ciò ha portato ad aumento della produttività e dei redditi agricoli. Dal 1978 al 1996, i prezzi agricoli aumentano del 77 per cento rispetto ai prezzi industriali, e i prezzi al consumo del 25 per cento rispetto ai prezzi medi. La crescita relativa dei prezzi dei beni di consumo porta a incentivarne la produzione. La popolazione è stata compensata attraverso l’aumento degli aiuti di stato sui beni di consumo ma siccome le sovvenzioni hanno il difetto di alterare la struttura dei prezzi, si è progressivamente passati all’eliminazione dei sussidi e alla loro sostituzione con aumenti salariali. A differenza dell’ex Unione Sovietica e dell’Europa orientale non si assiste alla liberalizzazione dei prezzi tipica della shock therapy, dove semplicemente con “la riforma dei prezzi” sono stati rimossi i sussidi indiretti e gli standard di vita della popolazione sono diminuiti. In questo contesto il livello di vita in Cina non ha smesso di aumentare (Lessons, 1996).
Per favorire la diminuzione dei prezzi dei beni di consumo, i divieti per la formazione delle imprese e servizi nel settore dei consumi sono stati rimossi, con conseguente formazione di milioni di piccole aziende agricole, piccole imprese private e cooperative, negozi e laboratori. I coltivatori possono concludere affari in proprio e vendere le eccedenze sul mercato. I risultati sono stupefacenti. Aumenta sensibilmente la produttività della terra che supera ampiamente la produttività media mondiale. Il valore lordo del raccolto per ettaro di seminativi aumenta di circa tre quarti durante il periodo della riforma. La media annuale di crescita netta della produzione agricola per lavoratore accelera bruscamente dallo 0,3 per cento tra il 1957-1978 al 4,3 per cento dal 1978 al 1991 Nel decennio 1979-89 l’aumento della produzione agricola totale aumenta del 49 per cento e la produzione alimentare complessiva del 45 per cento. La produzione alimentare pro-capite della popolazione aumenta del 29 per cento. L’aumento della produzione di prodotti alimentari di qualità più elevata è ancora più impressionante. La produzione di carne di maiale aumenta del 7,7 per cento l’anno, il latte dell’8,4, il burro del 9, le uova del 9,7, le l’uva del 17,9, le banane del 26,1 (Lessons, 1996). «La produzione agricola è salita costantemente fra il 1979 e il 1984, con un dispendio economico largamente inferiore a quello che richiedeva il sistema delle comuni: una crescita graduale, non inferiore, secondo alcune stime, a un 8 per cento annuo» (Hutton, 2007: 90). Il passaggio al libero mercato fa sì che le merci migliorino mantenendo prezzi contenuti per via della maggior efficienza del lavoro dovuta alla concorrenza. Mao e Deng si sono basati in diverso modo sui contadini il primo per la vittoria della rivoluzione nazionale e il secondo ha sfruttato la tradizionale capacità mercantile dei contadini come trampolino di lancio per la riforma.
La riforma delle imprese di proprietà statale, le SOE, ha proceduto in modo più lento che non la riforma nelle campagne. La gestione è affidata a manager aziendali, che hanno una certa libertà di manovra e le unità di lavoro hanno la possibilità di trattenere i profitti superiori a quanto stabilito dal piano statale. Le aziende sono contemporaneamente responsabilizzate per le perdite dovendo ripianare i debiti della propria unità.
La riforma delle aziende manifatturiere dal 1978 in poi, si è articolata in fasi distinte, assumendo una rilevanza centrale solo a partire dal 1991. L’approccio cinese è stato largamente empirico-pragmatico. L’obiettivo della rivitalizzazione delle aziende statali ha consentito di sperimentare diversi approcci. Tra il 1979 e il 1982 il governo centrale esercita sulle aziende statali un controllo meno rigoroso che in passato. Si va verso il decentramento amministrativo-gestionale, con maggiori responsabilità alle aziende stesse. I profitti vengono ridistribuiti alle aziende e ai lavoratori, come incentivo alla produttività. Si consente alle aziende di trattenere parte dei profitti (quote negoziate dalle aziende) ma ciò porta a una concorrenza interaziendale squilibrata e ineguale. A partire dal 1983 si sperimenta una nuova politica. Il governo centrale riceve il 55 per cento dei profitti delle aziende statali che però si rivela insufficiente per risolvere i problemi del bilancio nazionale, e ciò crea difficoltà alle aziende.
Nel 1987 le aziende sottoscrivevano contratti col governo e si accordano sui livelli di contribuzione in caso di realizzazione di profitti, in caso contrario, il governo si assume per contratto la responsabilità della sussistenza dei lavoratori. Questo sistema copiato da quello che aveva dato buoni risultati nelle campagne si rivela inapplicabile al settore industriale. Nel 1990 ci si rende conto che la via per promuovere sviluppo e produttività nelle aziende statali attraverso la redistribuzione dei profitti non da risultati pratici. Mentre all’inizio degli anni Ottanta il 20 per cento delle aziende lavora in perdita, la percentuale sale al 30 per cento nell’arco di un decennio. Nel 1991, ci si accorse che la causa principale delle perdite nelle Aziende statali non è tanto l’inadeguata distribuzione dei profitti, quanto la strutturazione irrazionale delle stesse. Quindi, si dà la priorità alla ristrutturazione, e, nel 1992 viene adottato il concetto di “economia socialista di mercato”, in cui il punto chiave è la ristrutturazione delle aziende statali (Ristrutturazione, 2002).
A metà degli anni Novanta le aziende statali cambiano marcia attraverso un processo di ristrutturazione e di rafforzamento. Nel 1996 crescono del 15 per cento l’anno, superando il tasso di crescita nel settore privato. Alla fine del 1996, i beni patrimoniali statali in Cina sommano a 6,5 miliardi di yuan, o 330 volte il loro valore nei primi anni Cinquanta, giusto dopo il trionfo della rivoluzione. Le aziende statali sono importanti poiché come sostiene in quegli anni Gao Shangquan, vicepresidente della Società Cinese per la Ristrutturazione Economica, i lavoratori delle industrie statali sono la spina dorsale del Partito Comunista.
Negli anni Ottanta i cinesi hanno fatto tesoro dell’esperienza dei paesi socialisti dell’Europa Orientale, in particolare su quelli a socialismo di mercato di cui si sono individuati i limiti. Si assiste nel frattempo a una sperimentazione continua, come abbiamo visto, di nuove soluzioni che porteranno le aziende statali, a essere concorrenziali con le maggiori aziende multinazionali. La prassi ha dato risposte alle domande poste dalla teoria.
Ancora prima dell’adesione al WTO, avviene il viaggio di Deng al sud che imprime un nuovo brio allo sviluppo economico cinese:
«Nel gennaio del 1992, poche settimane dopo il tracollo dell’Unione Sovietica e le dimissioni di Gorbaciov, Deng scelse di prendersi una “vacanza” nella dinamica e trascurata Shenzhen, patria del primo mercato azionario del paese e prima zona economica speciale. Era l’inizio di quello che divenne noto come il “viaggio nel Sud”: un viaggio su un treno speciale, un voluto richiamo ai cosiddetti “viaggi” compiuti da Mao nelle diverse province del paese. In una serie di discorsi pubblici Deng dichiarò che, senza lo sviluppo e l’accelerazione delle riforme, il Partito Comunista era perduto. Accusò i nemici della riforma, echeggiando una celebre frase di Mao, di essere come donne con i piedi fasciati» (Hutton, 2007: 95).
Questa fu la risposta cinese alla caduta dell’URSS: ancora una volta una risposta dinamica.
Deng Xiaoping, nel febbraio 1992 fa dunque un giro in alcune province della Cina. Per Deng si deve avere il coraggio di esplorare nuovi terreni. Ancora una volta la parola d’ordine è sperimentare:
«Dopo lo stabilirsi del sistema socialista è ancora necessario un fondamentale cambiamento delle strutture economiche che hanno impedito lo sviluppo delle forze produttive e per stabilire una vigorosa e dinamica struttura economica socialista per promuovere lo sviluppo delle forze produttive stesse. Questo è riforma, e così la riforma porta anche l’emancipazione delle forze produttive. Nel passato abbiamo puntato unicamente allo sviluppo delle forze produttive sotto il socialismo, senza ricordare la necessità della loro emancipazione attraverso la riforma. Tali formule sono incomplete. Sia l’emancipazione che lo sviluppo delle forze produttive dovrebbero essere indirizzate. Coloro che sono incapaci di avanzare con la riforma e l’apertura e che non hanno il coraggio di esplorare nuovi terreni hanno paura, per dirla brutalmente, che esse avrebbero introdotto troppi fattori capitalistici, facendo quindi prendere la strada del capitalismo. Il punto cruciale della questione è se questa strada sia “capitalista o socialista”; il criterio nel fare questa distinzione dovrebbe consistere nel considerare se venga promosso lo sviluppo delle forze produttive in una società socialista, se esso aumenti la forza complessiva nazionale dello stato socialista e gli standard di vita della popolazione. L’economia pianificata non è equivalente a socialismo perché c’è il piano anche sotto il capitalismo, e c’è anche il mercato nel socialismo. Ambedue sono mezzi economici. La natura di base del socialismo è di emancipare e sviluppare le forze produttive, eliminare lo sfruttamento e le differenze di classe e alla fine raggiungere la comune prosperità. In breve, se il socialismo vuole vincere sul capitalismo, deve essere audace nell’assorbire e imparare tutti le conquiste della società umana e tutte le forme di funzionamento e di organizzazione che riflettono le leggi che governano la produzione socializzata in vari paesi nel mondo attuale, incluse le nazioni capitaliste» (Deng, 1992).
Bisogna ricordare che l’intento di Deng è utilizzare il mercato per rendere più efficiente e forte il settore economico socialista. Oggi le aziende statali hanno più che quintuplicato la loro produzione rispetto al 1978 e fanno profitti simili alle aziende private. Le aziende già ristrutturate non sono più una palla al piede per la nazione ma fattore di controllo dell’economia e di sviluppo armonico. Riassumendo in Cina c’è più capitalismo che nel 1978, ma c’è anche più socialismo, nel senso che le aziende statali sono molto più forti e reggono l’urto delle aziende private riuscendo anche a innovare dal punto di vista tecnologico (che era uno dei fattori principali di sofferenza dell’economia sovietica). In ogni caso la proprietà pubblica è definita in Cina nello stesso modo come lo era definita in URSS, e attualmente a Cuba, e come lo è sempre stata anche precedentemente in Cina, ossia proprietà di tutto il popolo. Il mutamento avvenuto rispetto al passato è che oggi le aziende statali sono efficienti e, in parecchi casi, molto competitive. Chi sostiene che proprio per questo c’è il capitalismo dimostra il suo scetticismo nei confronti del socialismo come sistema economico-sociale superiore e ciò si tramuta in un’apologia indiretta del capitalismo come unico sistema in grado di creare ricchezza.
Arrighi ricorda come la Cina del diciottesimo secolo non solo fosse una dei paesi più ricchi del pianeta ma come fosse preso a modello del percorso “naturale” della ricchezza da Adam Smith. Nessun pensatore cinese aveva mai teorizzato la preminenza dell’industria privata e il funzionario imperiale Chen Hongmou «considerava il mercato come uno strumento di governo, né più né meno di Smith, Hobbes, Locke o Montesquieu» (Arrighi, 2008: 364). Come risulterà chiaro da quando dice Arrighi si tratta di un sentiero interrotto dalla guerra dell’oppio e che assomiglia molto, mutatis mutandis, a quello degli attuali dirigenti cinesi, la cui opera si innesta dunque nella storia della Cina profonda:
«Chen non ha esitazioni nel far ricorso al profitto per spingere le popolazioni locali ad adeguarsi ai suoi vari progetti di sviluppo come la costruzione di nuove strade, di nuovi magazzini per l’esportazione interregionale, di nuovi granai per la comunità e così via. Usando uno schema non molto diverso dalla “mano invisibile” di Smith, Chen sostiene che simili progetti porteranno profitti per tutti […] nella misura in cui portano profitto a ciascuno. Naturalmente Chen, come tutti i cinesi del suo tempo, restava fedele “all’ideale confuciano di armonia sociale e non era disposto a tradirlo per abbracciare una visione basata su una competizione di mercato senza freni […] e su una politica generalizzata di laissez-faire”. […] per quanto Smith non fosse affatto confuciano, l’idea di una politica generalizzata di laissez-faire con il rischio di mettere in pericolo la pace sociale e la sicurezza nazionale, gli era altrettanto estranea che a Chen. Non credo che se si fosse trovato nei panni di Chen, Smith si sarebbe discostato in qualcosa dalla politica del cinese. Certo, Smith era convinto che un maggior impegno nel commercio estero, specie se condotto con navi cinesi, non avrebbe potuto che aumentare la ricchezza della Cina» (Arrighi, 2008: 364-365).
La transizione al socialismo
Con il discorso di Deng del 1992 si inaugura la fase del socialismo di mercato il sistema economico sociale maturo adatto alla prima fase di costruzione della società socialista. L’idea del socialismo di mercato ha una sua storia che attraversa trasversalmente il marxismo e che ha i suoi prodromi nelle stesse teorizzazioni dei fondatori. Marx ed Engels fanno più volte degli accenni al periodo di transizione. Nel Manifesto si accenna a misure quali la tassazione progressiva sui redditi per rafforzare le finanze statali. Engels non esclude di mantenere la rendita sulle proprietà immobiliari. Attraverso il prestito e l’ipoteca si possono aiutare le cooperative dei contadini (Engels, 1894). Questo significa che per il periodo di transizione si dovranno mantenere relazioni di tipo monetario-commerciale.
James Lawler ad esempio cita lo scritto di Engels Princìpi del comunismo di poco precedente al Manifesto del 1848 in cui si dice che lo stato socialista sviluppa le proprietà socialista in concorrenza con le aziende capitaliste basandosi sulla maggiore efficienza delle prime rispetto alle seconde «per cui la prima dovrebbe vincere la competizione su di un mercato onestamente organizzato». É ovvio che questo è già una sorta di socialismo di mercato. Il marxismo non è dunque una variante del “socialismo nichilista” perché lo stesso Marx – scrive Lawler – pensa al socialismo come una società nuova che sorge all’interno e attraverso la stessa vecchia società (Ollman, 1998).
Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale, istituendo un parallelo tra la storia naturale e quella sociale, sostiene che nessuna società perisce prima che i rapporti di produzione abbiano raggiunto il livello di massimo sviluppo; addirittura nella prefazione alla Critica dell’economia politica arriva a dire che nuovi rapporti di produzione non compaiono se non quando siano abbastanza maturati nell’utero della vecchia società. Secondo il materialismo storico di Marx la storia delle società si evolve dalle società precapitaliste a quella capitalista fino al socialismo e al comunismo. Marx immagina che il socialismo sia costruito in una società capitalista avanzata in cui lo sviluppo della produzione mercantile è arrivato al suo apice. La società socialista non può essere costruita nel contesto di una economia precapitalistica. É un processo di storia naturale che ha i suoi tempi e che non può prodursi con mezzi coatti.
Anche Lenin si è posto chiaramente il problema delle fasi di passaggio da un paese contadino arretrato a paese avanzato:
«É indubbio che in un paese contadino come la Russia, la trasformazione socialista è un problema molto difficile. É indubbio che si è potuto spazzar via con relativa facilità un nemico come lo zarismo, come il potere dei grandi proprietari fondiari, la grande proprietà fondiaria. E questo è un problema che si è potuto risolvere in pochi giorni nelle regioni centrali, in poche settimane in tutto il paese, ma il problema che ci accingiamo ad affrontare oggi, per la sua stessa sostanza, non può essere risolto che con un lavoro estremamente lungo e tenace […]. Noi sappiamo perfettamente che nei paesi a piccola economia contadina il passaggio al socialismo non è possibile se non attraverso una serie graduale di fasi preliminari […]. Noi sappiamo perfettamente che rivolgimenti così grandiosi nella vita di decine di milioni di uomini e che toccano le radici più profonde della vita e del costume, come il passaggio dalla piccola azienda contadina individuale alla coltivazione comune della terra, possono essere compiuti solo grazie ad uno sforzo prolungato, e in generale sono attuabili solo quando la necessità costringe gli uomini a trasformare la loro vita» (Lenin, 1918a).
In questo brano di Lenin ci sono i due elementi cardine per comprendere l’evoluzione dei paesi socialisti. Da una parte la necessità di fasi intermedie o preliminari che dir si voglia (Lenin ne individua in Russia ben quattro) per preparare le basi materiali della società socialista. Dall’altro il riconoscimento che sarà solo la necessità a costringere gli uomini a cambiare la loro vita. Il socialismo (e qui c’è piena coincidenza con Marx) non si può ottenere per un decreto dall’alto.
Se si va a fondo del problema, si vede che per Marx il socialismo non è l’opposto del capitalismo ma il suo superamento e la ragione sta nei rapporti di produzione. Per Marx i rapporti di produzione capitalisti arrivati alla loro maturità impediscono un’ulteriore crescita della ricchezza e delle forze produttive. Per questo devono essere superati nel socialismo che ha la funzione di sviluppare appieno le forze produttive fino ad arrivare a una situazione di abbondanza tale che le merci, il cui costo di produzione diventato marginale per effetto dello sviluppo della tecnologia, perdono il loro valore di scambio per conservare solo il loro valore d’uso. La transizione, quindi, ha il compito di sviluppare le forze produttive in modo più efficace dello stesso capitalismo, in modo da passare dalla scarsità all’abbondanza, di vincere la povertà e di contribuire all’arricchimento dei gruppi sociali (data la pluralità dei sistemi di proprietà) che in un determinato periodo storico contribuiscono allo sviluppo economico. Il mercato in questa fase ha dunque il compito di allocare le risorse ancora scarse.
Dopotutto questo era anche il sogno di Mao che con il Grande Balzo in Avanti voleva raggiungere i paesi avanzati bruciando le tappe, sebbene gli strumenti messi in campo fossero chiaramente inadeguati. Mao comunque aveva coscienza che il socialismo in Cina avrebbe dovuto passare dallo sviluppo delle forze produttive. Questi sforzi terminano definitivamente con la disastrosa esperienza della Rivoluzione culturale. Quando Deng Xiaoping scrive: «Il culmine della questione è se questa strada sia “capitalista” o “socialista”. Il criterio per effettuare tale distinzione dovrebbe principalmente essere quello di vedere se promuove lo sviluppo delle forze produttive in una società socialista […] le zone economiche speciali praticano il “socialismo” non il “capitalismo”» (cit. in Brignoli, 1996), non fa altro che ribadire questo concetto marxista. In definitiva è lo sviluppo economico sociale a porre le basi del socialismo.
Secondo Stalin la produzione di merci non porta necessariamente al capitalismo. Pur tuttavia egli è costretto a sostenere che essendo l’URSS socialista ci sono solo due forme di proprietà quella dello stato (di tutto il popolo) e quella cooperativa (kolchoz). Esiste ad esempio il mercato kolchoziano, oppure esiste il commercio con l’estero. Secondo Stalin il lavoro non è più una merce e non lo sono mezzi di produzione non essendoci più la classe capitalista. Mentre l’elemento regolatore della produzione non è la legge del valore ma, invece, l’interesse generale. Senza questi paletti il capitalismo si riattiverebbe. Certamente Stalin sopravvalutava la situazione economica dell’URSS che ha avuto fino allora tassi di crescita economica superiori a quelli dei paesi capitalisti. Non c’è dubbio che Marx, in primis, concepisse l’economia di mercato come un processo transitorio che avrebbe dovuto portare alla soppressione del mercato e con esso dello stato. Alcuni marxisti, infatti, pensano che Marx concepisca il mantenimento dello stato per regolare e sopprimere gradualmente il mercato in un processo evolutivo che lo porterebbe al dissolvimento qualora cessasse la sua funzione di regolatore del mercato.
Nella storia dell’edificazione del socialismo sono state concepite varie strategie: il “comunismo di guerra”; “l’economia pianificata a livello centrale”; il “modello perfezionato di economia pianificata centralmente”; la “combinazione organica del piano e del mercato” e il “socialismo di mercato” (González, 2005). Si può dire che la Cina abbia attraversato tutte queste fasi. Quindi ha una buona esperienza di questi sistemi.
A livello mondiale i sistemi che sono stati sperimentati più di frequente sono l’economia capitalista di libero mercato che crollò miseramente alla fine degli anni Venti, il cui crollo non essendo la globalizzazione così spinta come oggi non coinvolse l’Unione Sovietica, e l’economia rigidamente pianificata a livello centrale di tipo sovietico che andò in bancarotta alla fine degli anni Novanta. La prima ebbe un revival con la Thatcher e Reagan negli anni Ottanta e ha portato alla crisi del 2008 e all’esplosione del debito degli stati. Il capitalismo liberista senza intervento dello stato si è dimostrato un fallimento al pari delle economie rigidamente statalizzate e pianificate senza intervento sostanziale del mercato. Il futuro sta nelle economie miste che intrecciano intervento pubblico e mercato.
Il naufragio delle economie socialiste nelle loro varianti tra cui l’autogestione jugoslava ha dimostrato che il livello dogmatismo economico dei dirigenti ha impedito a queste economie di autocorregersi, quindi occorre sostituire il dogmatismo con elementi il pragmatismo ed empirismo attraverso un processo per prove ed errori che i comunisti cinesi (e Mao) chiamano “ricercare la verità nei fatti”. L’aspetto pragmatico è stato fondamentale e ha fatto della Cina un laboratorio a cielo aperto del socialismo. L’economista cubano Diaz Vasquez constata: «contando le retrocessioni e gli aggiustamenti che sperimentò dal 1979, il corso delle politiche economiche orchestrate nel contesto delle “quattro modernizzazioni” dimostra che nella sua evoluzione il pragmatismo derivato dai fatti, più che qualunque costruzione a priori, fu determinante. Ciò conferma l’opinione prevalente tra gli studiosi che seguono ciò che è accaduto in Cina, in quanto al primato del principio empirico, la prova concreta, l’esperimento, al di sopra della figura elaborata dalla teoria» (Díaz, 2007). Insomma la differenza tra i comunisti cinesi e sinistra radicale occidentale non poteva essere più netta. In Occidente si teorizza parecchio e si fa poco, in compenso si sputano sentenze su coloro che fanno.
L’esperienza diretta di molti dirigenti cinesi che avevano studiato in URSS li portò a rendersi conto dei limiti dei paesi del socialismo realizzato, mentre, come osserva Diaz Vasquez: «nel contesto geografico prossimo alla Cina c’erano sufficienti esponenti di modelli di economie dinamiche, con un attivo protagonismo statale nei temi economici, di direzione e di gestione dell’economia ancorata in efficienti meccanismi mercantili e con prioritario orientamento al mercato mondiale» (Díaz, 2007).
I cinesi hanno studiato attentamente le economie socialiste dell’est Europa come abbiamo già visto. Ma hanno studiato altrettanto bene i modelli economici dei paesi capitalisti circostanti. Rampini istituisce un rapporto tra USA e Cina. Gli americani pensano di essere il numero uno in tutti i settori e di non avere nulla da imparare dagli altri, al contrario dei cinesi: «E qui sta una loro debolezza pericolosa, nel confronto con la Cina». La classe dirigente cinese al contrario ha «una qualità che non dimentico: da trent’anni ha deciso di “andare a scuola” dai paesi più avanzati. Sistematicamente, puntigliosamente, studia i modelli stranieri che hanno funzionato meglio, per imitarli. Con l’obiettivo di superarli. É un atteggiamento di umiltà e di modestia che troppi americani hanno dimenticato da tempo» (Rampini, 2009).
Il socialismo di mercato
Il “socialismo di mercato” ossia la forma più matura di sistema economico scelta dai cinesi ha una lunga storia anche indipendentemente dalle sue realizzazioni pratiche nei paesi socialisti. Vilfredo Pareto ed Enrico Barone avevano stabilito l’equivalenza del funzionamento tra le economie capitaliste e quelle socialiste qualora i prezzi derivati da equazioni servissero da parametro per una corretta e razionale distribuzione delle risorse soddisfacendo le condizioni di equilibrio economico.
Questa tesi fu contestata da Von Mises e dalla sua scuola (Hayek, Robbins ecc.). Per Von Mises c’è un’impossibilità pratica di utilizzare una serie di equazioni che dovrebbe essere troppo grande. Senza il meccanismo di determinazione del prezzo dato dal mercato, non si possono ottenere informazioni per un’allocazione razionale delle risorse. In uno stato socialista i mezzi di produzione sono proprietà dello stato e non essendo oggetto di scambio vi è solo un mero scambio di prodotti. Non avendo prezzo non è possibile un’efficiente allocazione delle risorse. Il calcolo economico è insufficiente come mezzo per arrivare a un’efficiente allocazione delle risorse e un’economia che si affida a una burocrazia che decide gli investimenti non può coordinare il piano in assenza dei segnali dati dai prezzi. Solo il sistema dei prezzi di mercato può dirigere il capitale in modo efficiente, razionale e maggiormente produttivo. Un’economia che fa solo affidamento su elementi amministrativi si auto condanna al caos e al burocratismo e quindi ne viene dedotta l’impossibilità di un sistema di pianificazione socialista.
Secondo Von Mises un socialismo decentrato non può esistere. Il socialismo è necessariamente accentratore. La principale replica a Von Mises sul lato pratico viene con Lenin e la NEP. La transizione dal capitalismo al comunismo non può essere terminata di colpo. Occorre percorrere una serie di gradini. Il socialismo è lo stato intermedio di tale processo. Esso contiene le caratteristiche delle due società: socialista e capitalista.
Lenin è chiaro sull’argomento proprio contro l’estremismo di sinistra: «Ma che significa la parola transizione? Non significa forse quando si applichi all’economia che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo? Ognuno riconoscerà di sì. Ma non tutti, pur riconoscendolo, si domandano sempre quali precisamente siano gli elementi delle diverse forme economico-sociali che sono presenti in Russia. E qui sta il nodo della questione». Il capitalismo di stato per Lenin è già un significativo progresso: «Il capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose nella nostra Repubblica Sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo, e la più sicura garanzia che fra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile». Allora come ora parecchi erano i critici di sinistra: «M’immagino con quale nobile sdegno qualcuno respingerà queste parole […]. Come? Nella Repubblica Socialista Sovietica il passaggio al capitalismo di Stato sarebbe un passo avanti? […] Non è questo tradire il socialismo? […] È su questo punto che bisogna soffermarsi in modo più particolareggiato. In primo luogo bisogna analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo che ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica. In secondo luogo bisogna denunciare l’errore di coloro che non vedono le condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese come il principale nemico del socialismo nel nostro paese» (Lenin, 1918b: posizione nel Kindle 4136).
Le prime risposte a livello teorico vennero dall’economista americano H.D. Dickinson che peroravano una sorta di socialismo di mercato. L’economista polacco Oskar Lange assieme ad Abba Lerner e Fred Taylor, sostenne che un sistema di prezzi civetta sarebbe stato sufficiente per poi determinare i prezzi reali. Il pianificatore nella sostanza determina artificialmente i prezzi delle merci determinando anche l’entità della produzione e poi il consumatore manda segnali attraverso l’acquisto delle merci. Sicché le merci in eccesso dovranno abbassare i prezzi mentre quelle più richieste aumenteranno i prezzi. Il processo avviene empiricamente, per prova ed errore, raggiungendo una convergenza dei prezzi nell’equilibrio tra domanda e offerta. In questo modo viene superata l’impossibilità tecnica sollevata da Von Mises. Il teorema di Taylor, Lange e Lerner ha dato il risultato sorprendente che un sistema basato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione, con i prezzi utilizzati per la ripartizione delle risorse in un modo simile a un’economia di mercato, è simile a quello ottimale considerato nei teoremi di Arrow Debreu, espressione del paradigma centrale dell’economia neoclassica. Questo risultato teorico, che prescinde dall’esistenza di una classe capitalista, ha provocato non pochi problemi ai teorici del neoliberismo.
L’opera di Lange trova un ammiratore in Stalin che insiste con Roosevelt per incontrarlo. Secondo Lange in un’economia socialista di mercato la determinazione dei prezzi funzionerebbe in modo approssimativamente analogo a quella di un’economia capitalista. Nella fase iniziale si socializzerebbero solo i mezzi di produzione essenziali per il funzionamento dell’economia e inoltre il calcolo economico non sostituirebbe completamente il mercato nella determinazione dei prezzi. La proprietà privata inoltre permane in settori non strategici e partecipa all’accumulazione socialista.
Nello schema di Lange la commissione di pianificazione avrebbe il compito di aggiustare i prezzi attraverso i segnali del mercato e ridistribuire i vantaggi sociali ottenuti dalle riserve delle aziende senza però determinare né il livello della produzione né ciò che si produce, la cui decisione viene decentrata. Il mercato come determinazione dei prezzi, la decentralizzazione e la permanenza della proprietà privata sono elementi che ritroviamo nella prassi cinese del socialismo di mercato. Sebbene i cinesi siano andati molto oltre.
Del resto ci sono parecchie pecche nella descrizione dei neo liberali alla Von Mises soprattutto perché l’economia di mercato, come dice Stiglitz, non funziona affatto come essi affermano e tende all’oligopolio che, naturalmente, falsa la stessa determinazione dei prezzi nel mercato. Stiglitz ha messo in risalto i difetti sia di sistemi unicamente fondati sul mercato sia di quelli fondati unicamente sullo stato. La sua analisi però mostra una serie di questioni di grande importanza per il funzionamento di un sistema socialista, come quelle concernenti gli incentivi, l’innovazione; alla separazione della gestione e la proprietà; alla concorrenza; ai prezzi e al decentramento.
In ogni caso il neoliberalismo ha un supporto fortemente dogmatico e atemporale e di conseguenza poco pragmatico. De resto anche il pragmatismo deve associarsi con una certa dose di relativismo. Ovvero una cosa che funziona bene, ammesso che il neoliberalismo funzioni bene, e gli ultimi avvenimenti delle economie occidentali dimostrerebbero semmai il contrario, in una certa situazione non è detto che funzioni altrettanto bene in una situazione completamente diversa. Lo dimostrano i disastri delle shock therapy applicate all’Europa Orientale. Le sconfitte del socialismo reale e del capitalismo iperreale, se vogliamo, sono dovute al loro dogmatismo. Del resto spesso si dimentica la funzione avuta dallo stato nello sviluppo del capitalismo in Occidente ad esempio con il “socialismo di stato” bismarckiano o durante le emergenze come il “socialismo di guerra” adottato dalla Germania nella prima guerra mondiale. Funzione che ebbe anche negli USA e non solo nel “New Deal” rooseveltiano. Del resto lo stato è intervenuto pesantemente nel salvataggio delle banche e delle aziende in crisi facendo gridare al “socialismo” proprio in occasione della crisi economica del 2008. I cinesi invece vanno in tutt’altra direzione rispetto al dogmatismo degli uni e degli altri. Deng Xiaoping sostiene: «La pianificazione e il mercato non hanno nulla a che fare con le differenze tra socialismo e capitalismo. La nostra è un’economia di mercato in cui vige la legge del valore». La pianificazione è stata usata dal capitalismo e dal socialismo e lo stesso dicasi del mercato. Sono elementi tecnici e dunque neutri (cosa già sostenuta da Stalin). Il mercato è una forma economica ed è neutrale politicamente e ideologicamente. I sistemi di mercato non appartengono solo al capitalismo, ma sono appartenuti a tutte le società finora esistite (hanno sette mila anni di storia secondo Engels) e possono essere usati dal socialismo. Lo sanno bene i cinesi. Si è diffusa la credenza che il mercato sia stato portato esternamente alla Cina attraverso il modello anglosassone e non avrebbe particolari tradizioni nazionali. In realtà la Cina tradizionalmente è stata il più vasto mercato del pianeta fino alla Guerra dell’Oppio. Il mercato rappresenta tradizionalmente la sua via “naturale” verso la ricchezza. Scrive Arrighi:
«II mercato interno non è un’invenzione occidentale così come non lo sono lo stato nazionale o i sistemi di stati […]. Smith sapeva molto bene ciò che le scienze sociali occidentali hanno poi dimenticato, e cioè che per tutto il diciottesimo secolo il più grande mercato nazionale non andava cercato in Europa, ma in Cina. La gestazione di quel mercato era stata lunga, ma la configurazione da esso assunta nel diciottesimo secolo era frutto dell’azione di consolidamento dello stato portata avanti dalla dinastia Ming e dai primi sovrani della dinastia Qing» (Arrighi, 2008).
Mai come adesso il mercato è un sistema economico globale. Ogni paese deve entrare nel sistema mondiale del mercato se non vuole rimanere isolato. Prima delle riforme e della politica di apertura in Cina il sistema era caratterizzato da un alto livello di centralizzazione, di chiusura e segmentazione. Il mercato interno era isolato da quello globale e il commercio interno da quello internazionale. L’apertura della Cina al mondo non è solo importante per le acquisizioni di innovazione tecnologica e gestionale ma anche per le innovazioni istituzionali.
Il socialismo di mercato è sia una eredità del marxismo che un suo sviluppo creativo. Sebbene alcuni economisti cinesi tengano a negare le parentele con il socialismo (teorico) di mercato occidentale o dei paesi dell’Europa Orientale è indubbio che questi rapporti ci siano. Zhuo Jiong, Yang Chengxune e Yu Zuyao che scrissero un articolo Sulla economia socialista di mercato nel 1979 furono attivi negli anni Settanta. Deng Xiaoping ne ha parlato a più riprese dal 1979.
Addirittura quando Deng sostiene che il socialismo di mercato è basato sulla teoria del valore non dice una cosa nuovissima per la Cina. Nel manuale di economia politica dell’epoca maoista si dice precisamente la stessa cosa. «Il dispiegarsi della cooperazione socialista richiede un ampliamento dello stile comunista di lavoro[…]. Pertanto, nelle relazioni di collaborazione tra le imprese statali e le imprese collettive, tra le imprese di Stato, tra le imprese collettive, tra settori e tra le regioni, occorre rispettare il principio dello scambio equivalente (p. 297). […] Lo scambio di manodopera, risorse materiali, e dei fondi tra le imprese deve quindi essere ispirata allo stile cooperativo del comunismo e seguire il principio dello scambio equivalente (p. 404) […]. La produzione sociale diretta socialista è condotta sulla base di queste due forme di proprietà socialista [statale e collettiva]. I prodotti sono di proprietà, rispettivamente, dello Stato socialista e varie imprese nell’ambito del sistema di proprietà collettiva. Questo determina che la produzione sociale diretta sotto il socialismo non può eliminare la produzione e lo scambio di merci» (Wang, 1977: 313). Si potrebbe continuare ma, di fatto, gli stessi economisti cinesi pre-riforme riconoscono che il socialismo non può eliminare né lo “scambio equivalente” basato sul valore-lavoro e la produzione merci dato che i prodotti «ancora possiedono determinate caratteristiche mercantili, e devono essere espressi in termini di prezzo e acquistati con il denaro» (Wang, 1977: 314).
Il XIV Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese ha puntato su un’economia socialista di mercato con l’obiettivo della ristrutturazione economica. Ciò che è stato messo in piedi è un’economia mista in cui coesistono un vasto settore pubblico dello stato e collettivo delle comunità locali (TVE), assieme alle cooperative di base, ad aziende autogestite dai lavoratori, a un settore privato nazionale e straniero. Attraverso quest’ultimo si ottengono capitali e know-how. Inoltre esistono vari livelli di partnership tra varie forme di proprietà come ad esempio le joint-venture con aziende straniere che dominano l’export. Il capitale statale ha il predominio controllando, attraverso i cosiddetti “commanding heights”, i punti strategici dell’economia.
L’obiettivo immediato dei comunisti cinesi è lo sviluppo economico e sociale, e l’obiettivo a lungo raggio è raggiungere il primo gradino del socialismo vero e proprio. Il mezzo è di utilizzare i vantaggi di tutti i settori per sviluppare le forze produttive, con la riduzione al minimo degli svantaggi (Sargis, 2004).
Nei primi anni Ottanta, marxisti cinesi hanno sviluppato la teoria del primo stadio del socialismo ovvero che il socialismo, come stato transitorio che marca il passaggio dalla società capitalista a quella comunista, debba essere raggiunto in due fasi. Il concetto di periodo di transizione è indubbiamente accennato da Marx e Engels[1] che però non svolgono un’analisi dettagliata dei compiti una volta che il potere sia nelle mani dei comunisti. Fu il XIII Congresso del PCC dell’ottobre 1987 che accolse pienamente la teoria dello “stadio iniziale del socialismo”. La Cina doveva passare attraverso la modalità di produzione del capitalismo avanzato per poter pervenire “pienamente” al socialismo.
La caratteristica principale di questa fase è data dal sottosviluppo della società che è una conseguenza del basso sviluppo delle forze produttive e da una scarsa produttività del lavoro. I comunisti cinesi ritengono che il compito più importante sia di sviluppare delle forze produttive al massimo. In questo senso il ruolo storico di proprietà privata non è ancora esaurito. Questo è ben comprensibile in un paese che nel 1978 ha oltre l’80 per centodi persone al disotto della soglia di povertà, con l’80 per cento della popolazione che vive nelle campagne, senza autonomia tecnologica e con canali d’investimento strangolati. L’alternativa non poteva che essere che accumulare risorse attraverso forti imposte ai contadini come, in effetti, avveniva.
I comunisti cinesi pensano che nella prima fase il socialismo conservi ancora elementi di capitalismo, molti squilibri e che il periodo di transizione durerà decine di anni, forse un secolo. Come natura non facit saltus anche la storia non ama le forzature. «Nel processo di esplorazione del socialismo, il Partito Comunista Cinese è giunto a realizzare che il pieno sviluppo di un’economia di mercato dei beni è una fase che non può essere superata durante lo sviluppo economico socialista» (Wang, 2004).
I comunisti cinesi (e vietnamiti) con l’economia socialista di mercato vedono aumentare la ricchezza e il consenso. Il consenso sociale è stato ottenuto attraverso l’aumento del benessere dei loro popoli, se si vuole attraverso quel blocco storico che include, operai, contadini, classi medie e imprenditori. Tutti contribuiscono a ciò di cui ha più bisogno la società cinese in questo momento ossia lo sviluppo economico o in termini marxisti lo sviluppo delle forze produttive.
Il socialismo dovrebbe essere un sistema più avanzato del capitalismo. Ogni paese deve trovare la propria via in accordo con la sua storia e realtà concreta. Secondo Deng solo se la pratica della costruzione socialista ha successo, può provare che la teoria socialista è giusta, e diventare popolare. Altrimenti non ci sarà alcuna ragione che l’idea socialista attragga la gente. Solo la pratica ci dà il criterio per giudicare la verità del socialismo e quella del marxismo. Il socialismo vero è quello che funziona.
La Cina punta molto sullo sviluppo della teoria economica socialista (nel libero confronto con le teorie economiche moderne) in modo da perfezionare le riforme per ottenere uno sviluppo rapido, continuo e stabile stimolando però anche l’equilibrio e lo sviluppo sociale. La cultura marxista ortodossa, è un prodotto dello sviluppo culturale dell’Europa occidentale. La campagna che circonda le città è stato il contributo eretico di Mao a una teoria fondata unicamente sul ruolo del proletariato industriale (Diaz, 2007). La sfida principale è di ripensare e ricomprendere Marx per arrivare a un marxismo che assuma caratteristiche cinesi passando dunque da teoria generale a pratica concreta. Questo ha portato alla nuova eresia cinese: il ruolo del mercato nella costruzione del socialismo.
Deng e la contraddizione principale
La natura di base del capitalismo è la proprietà privata, il libero mercato e la distribuzione della ricchezza in base alla rendita sul capitale. All’opposto del capitalismo il socialismo è proprietà pubblica del capitale, economia pianificata, distribuzione della ricchezza secondo il lavoro. Occorre un lungo periodo storico di transizione che, come dice la parola stessa, sarà commistione tra i due sistemi come già intuiva Marx. Poi si vedrà se è davvero possibile (ed eco-sostenibile) una società in cui regni l’abbondanza e si possa fare a meno dello stato come regolatore del mercato.
All’inizio della riforma, Deng Xiaoping identificò le forze produttive sottosviluppate come la contraddizione principale di fronte dell’edificazione del socialismo: «In primo luogo, partiamo da una base debole. Il danno inflitto per un lungo periodo dalle forze dell’imperialismo, del feudalesimo e del capitalismo burocratico hanno ridotto la Cina in uno stato di povertà e arretratezza» sebbene «fin dalla fondazione della Repubblica Popolare abbiamo raggiunto successi notevoli nella costruzione economica, istituendo un sistema industriale abbastanza completo», ma la Cina rimane «uno dei paesi più poveri del mondo». Questa contraddizione ha anche un’altra, spesso sottovalutata, condizione che la Cina ha «una grande popolazione, ma non abbastanza terra coltivabile». É una contraddizione grave: «Quando la produzione non è sufficientemente sviluppata, pone seri problemi in relazione al cibo, all’istruzione e al lavoro. Dobbiamo aumentare notevolmente i nostri sforzi in materia di pianificazione familiare, ma anche se la popolazione non crescerà per un certo numero di anni, avremo ancora il problema della popolazione per un certo periodo. Il nostro territorio vasto e ricco di risorse naturali è un grande vantaggio. Ma molte di queste risorse non sono ancora state rilevate e sfruttate, in modo che non costituiscono dei mezzi reali di produzione. Nonostante il vasto territorio della Cina, la quantità di terreno coltivabile è limitata, e né questo fatto né il fatto che abbiamo una grande popolazione, per la maggior parte contadina, possono essere facilmente cambiati» (Deg Xiaoping, 1979).
La contraddizione principale dunque non è tra l’ancora esiguo proletariato e la borghesia che nella sua versione pro imperialista è stata abbattuta nel 1949. Anche Mao indubbiamente aveva l’obiettivo della prosperità economica ma né il Grande Balzo in Avanti né il “fare la Rivoluzione Culturale Proletaria e aumentare la produzione” sebbene avessero tutte due lo scopo di raggiungere la Gran Bretagna in dieci anni, portarono gli effetti sperati e anzi crearono un’ondata di caos che rischiò di sovvertire il regime socialista. Errori peraltro comuni a tutti i dirigenti cinesi. Deng dice: «Errori cominciarono a manifestarsi negli ultimi anni cinquanta – il Grande Balzo in Avanti, per esempio. Ma nemmeno questo fu un errore del solo Presidente Mao. Le persone che collaboravano con lui portarono avanti questo progetto. Agimmo in diretto contrasto con leggi obiettive, tentando di risollevare l’economia tutto d’un colpo. E quando i nostri desideri soggettivi si scontrarono con leggi obiettive, le perdite furono inevitabili. Sì, dovrebbe essere ritenuto principalmente responsabile il Presidente Mao per il Grande Balzo in Avanti. Ma non gli occorse molto tempo -solo pochi mesi- per riconoscere l’errore, e lo fece davanti a noi e propose delle correzioni. Nel 1962, quando quelle correzioni non furono apportate in misura soddisfacente a causa dell’insorgere di nuovi problemi, egli si autocriticò» (Deng Xiaoping, 1980). Dunque era necessario cambiare strada. Deng affermò: «Dal momento che il suo obiettivo è trasformare l’attuale stato arretrato delle nostre forze produttive, ciò comporta inevitabilmente molti cambiamenti nei rapporti di produzione, nella sovrastruttura e nelle forme di gestione nelle imprese industriali e agricole, nonché i cambiamenti nell’amministrazione statale di queste imprese, in modo da soddisfare le esigenze della moderna produzione su larga scala. Per accelerare la crescita economica è essenziale aumentare il grado di specializzazione delle imprese, aumentare il livello tecnico di tutto il personale in modo significativo e formarlo e valutarlo attentamente, migliorare notevolmente la contabilità economica nelle imprese, e aumentare la produttività del lavoro e i tassi di profitto su livelli molto più alti. Pertanto, è indispensabile attuare importanti riforme nei vari settori dell’economia, in relazione alla loro struttura e organizzazione, nonché alla loro tecnologia. Gli interessi a lungo termine dell’intera nazione sono imperniati su queste riforme, senza le quali non possiamo superare il ritardo attuale della nostra tecnologia di produzione e gestione» (Deng Xiaoping, 1980).
Basandosi su quanto detto sopra Deng Xiaoping fece la proposta di completare l’edificazione socialista della società cinese in cento anni a partire dalla proclamazione della Repubblica Popolare nel 1949. Abbiamo visto come lo stesso Mao non fosse affatto insensibile allo sviluppo economico della Cina. Secondo alcuni fu lui stesso, assieme a Zhou Enlai, l’ideatore delle “quattro modernizzazioni” proposte prima nel 1964 e poi nel 1975. Deng ha una strategia in tre fasi: nella prima fase fino al 1990 si deve arrivare al raddoppio del PIL risolvendo i problemi di sussistenza elementare della popolazione; nella seconda fase fino al 2000, con un PIL quadruplo rispetto al 1980, si sarebbe giunti un livello di vita accettabile (nel 1996 fu raggiunto anticipatamente questo obbiettivo) e veniva posto all’anno 2049 l’obbiettivo di raggiungere in termini di reddito pro capite i principali paesi sviluppati, a cento anni esatti dalla vittoria della Rivoluzione. Quindi non più i dieci anni che Mao interponeva per raggiungere il livello dell’Inghilterra ma una strategia molto più realistica. Non c’è dubbio che finora la roadmap sia stata rispettata e addirittura surclassata. La Cina ha già raggiunto e superato il valore del PIL americano e europeo in termini di capacità d’acquisto.
Il socialismo di mercato non è un dogma ma è un movimento reale che ha trasformato la vita di più di un miliardo di persone diventando una vera forza materiale. Lo scopo del socialismo di mercato è sviluppare le forze produttive in modo efficace affinché i membri della società raggiungano il benessere. Molto è stato fatto e molto ci sarà da fare. Il merito del socialismo di mercato è che ora il socialismo non è più sinonimo di decadenza economica ma al contrario di un’economia dinamica ed efficiente. La storia non è finita nel 1991, dopo il crollo del URSS, come sosteneva Fukuyama. Il bello viene adesso. Secondo David Schweickart, il teorico della democrazia economica, il socialismo di mercato «è la sola forma di socialismo, al presente stadio di sviluppo umano, che sia attuabile e desiderabile. E forme di socialismo senza mercato sono o economicamente non attuabili o normativamente non desiderabili, spesso sia l’uno che l’altro» (Ollman, 1998: 10).
Siamo partiti dalla crisi della Cecoslovacchia nel 1968 individuandone i punti deboli nella mancata soluzione di tre aspetti: lo sviluppo economico, lo sviluppo di un’autentica democrazia popolare e nel consenso declinate. Abbiamo poi visto come su queste carenze l’Occidente sia intervenuto con il tentativo di innestare una “rivoluzione colorata” ante litteram. Abbiamo infine visto quale è stata la risposta del maggiore Partito della sinistra comunista occidentale. Ora andiamo a vedere se la strategia adottata dai comunisti cinesi abbia risolto in toto o in parte questi problemi.
Sogno cinese e lotta contro la povertà
A giudicare dai risultati la “democrazia cinese” (di cui parleremo in seguito) ha ottenuto enormi successi. La Gran Bretagna, dove iniziò la rivoluzione industriale, impiegò 150 anni per raddoppiare il reddito pro-capite. Gli Stati Uniti 30 anni. La Cina ha impiegato dai 7 ai 10 anni su una scala molto più grande. Tra il 2003 e il 2013, l’economia dei paesi industrializzati è cresciuta del 16 per cento, in Cina è stata del 165 per cento e in India del 102 per cento (Ng Sauw Tjhoi: Vandepitte, 2018).
Tra il 2012 e il 2017, i risultati basati su un simile metodo di governance sono semplicemente astrali per i nostri paesi occidentali: il prodotto interno lordo (PIL) della Cina è salito da 54 a 82.7 trilioni di yuan, con una crescita media annuale del 7,1 per cento. Più di 68 milioni di persone sono state sollevate dalla povertà. Il reddito personale è aumentato in media del 7,4 per cento all’anno creando il più grande gruppo a medio reddito del mondo. La classe media ha raggiunto i 400 milioni di persone. Sono stati creati oltre 66 milioni di nuovi posti di lavoro urbani, ottenendo praticamente la piena occupazione.
Xi Jinping ha più volte ripetuto “l’impegno solenne” che entro il 2020 si arriverà all’eliminazione dalla povertà nelle zone rurali, secondo gli standard attuali. Egli vuole mobilitare le energie del partito, dell’intero e del paese intero per ridurre della povertà. Xi Jinping chiede che ai capi dei comitati di partito e ai governi a ogni livello un impegno straordinario in questa direzione:
«Continueremo a promuovere la riduzione della povertà attingendo agli sforzi congiunti di governo, società e mercato. Presteremo particolare attenzione ad aiutare le persone ad aumentare la fiducia nella propria capacità di sollevarsi dalla povertà e fare in modo che possono accedere all’istruzione di cui hanno bisogno per farlo. Rafforzeremo la collaborazione sulla riduzione della povertà tra le regioni orientali e occidentali; forniremo assistenza mirata alle aree di estrema povertà. Dobbiamo garantire che entro il 2020 tutti i residenti rurali che vivono sotto all’attuale soglia di povertà siano risollevati dalla povertà e che la povertà sia eliminata in tutte le contee e regioni povere» (Xi Jinping, 2017: 43).
Il Sogno Cinese ha come tema centrale l’eliminazione della povertà che è diventata una sorta di contratto sociale tra il popolo il proprio governo. Il programma prevede lo spostamento di persone che vivono nelle regioni più impoverite su base volontaria, investimenti in sanità, educazione e politiche di aiuto fiscale. Xi Jinping la considera una «sfida spaventosa» ma alla fine vittoriosa.
Prendendo l’ultima definizione internazionale di povertà della Banca Mondiale (1,90 dollari, al valore del 2011, di spesa giornaliera a prezzi comparabili), dal 1978 al 2017 la Cina ha tolto 850 milioni di persone dalla povertà. Il resto del mondo ha ridotto la povertà di solo 152 milioni di persone. La Cina ha quindi sollevato dalla povertà oltre cinque volte più persone del resto del mondo (Ross, 2015). Il paese ha dato il contributo di gran lunga maggiore al raggiungimento del “Millennium Development Goal” delle Nazioni Unite.
Tra il 2013 e il 2017 quasi 66 milioni di abitanti della Cina rurale sono usciti dallo stato di povertà; 10 milioni solo nel corso del 2017. Tutte le province che si trovano al di sotto della soglia di povertà dovrebbero superare tale soglia entro il 2020 (Giangiulio, 2017).
Si prevede che la Cina continuerà i suoi forti progressi verso l’eliminazione della povertà estrema, scrive la Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto, portando il suo tasso di povertà estrema a scendere al di sotto dell’uno per cento nel 2018. La lotta contro la povertà è cruciale perché la Cina diventi una società moderatamente prospera.
Il rapporto della Banca Mondiale aggiunge che il tasso di povertà estrema è stato abbassato da 88,3 per cento nel 1981 a 1,9 per cento nel 2013 (Hoon S. Soh e altri, 2017).
«I notevoli progressi della Cina nella riduzione della povertà estrema hanno contribuito in modo significativo al declino della povertà globale», ha affermato Hoon S. Soh, leader del programma della Banca mondiale per la politica economica per la Cina. «Il successo della Cina ha permesso a oltre 850 milioni di persone di sollevarsi dalla povertà», ha sottolineato (Li Yingqi, 2018). 850 milioni sono più della popolazione dell’UE sommata a quella degli Stati Uniti, una volta e mezzo la popolazione del continente latinoamericano e 14 volte la popolazione italiana (Ross, 2015). Il più grande evento del XX secolo secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz (quello che ha mandato a quel paese il FMI e la World Bank). Basterebbero i soli successi nella lotta alla povertà per guardare alla Cina come al paese che ha risollevato le sorti del socialismo nel mondo dopo la catastrofe del 1989.
Per la Banca Mondiale Il reddito nominale è addirittura aumentato di cento volte dal 1978 al 2017, mentre quello a parità di capacità Il reddito reale pro capite della Cina è aumentato di 17 volte (a parità di capacità d’acquisto) nello stesso periodo (Ng Sauw Tjhoi; Vandepitte, 2018).
Prospettive: una società moderatamente prospera
Il XIX Congresso del Partito comunista cinese ha cambiato la contraddizione principale, concetto derivato dalla dialettica marxista e da una sostanziosa mole di scritti maoisti, di quella che il suo segretario chiama la “Nuova Era”. Se prima la contraddizione principale era tra i bisogni della gente e l’arretratezza delle forze produttive ora è vista come quella fra lo sviluppo squilibrato e inadeguato e l’aspirazione sempre maggiore dei cinesi a una vita migliore.
Xi afferma che la Cina è incamminata verso una società moderatamente prospera che alla base deve avere nuovo stato sociale:
«Agiremo sui requisiti politici per aiutare i più bisognosi, per costruire una rete di sicurezza fitta e per costruire le istituzioni necessarie, mentre lavoriamo per sviluppare un sistema di sicurezza sociale multilivello sostenibile che copra l’intera popolazione delle aree urbane e rurali […]. Miglioreremo i regimi pensionistici di base [..] e porteremo rapidamente i regimi pensionistici sotto la gestione nazionale unificata. Miglioreremo i sistemi unificati dell’assicurazione medica di base e dell’assicurazione di malattia grave […], miglioreremo l’assicurazione contro la disoccupazione e quella degli infortuni sul lavoro» (Xi Jinping, 2017: 42).
Xi punta su una piattaforma nazionale unificata per i servizi pubblici di sicurezza sociale migliorando le indennità di sussistenza. L’uguaglianza di genere e la protezione dei diritti e interessi legittimi delle donne e dei minori fanno egualmente parte del programma. Tutto questo senza dimenticare i disabili e le sistemazioni abitative.
Ciò che ha fatto in questi anni la Cina non è solo un gigantesco passo in avanti per questo paese, ma anche per il benessere dell’umanità intera. Tutta la popolazione della Cina, non solo i più poveri, ha visto un aumento degli standard di vita senza confronti nella storia dell’umanità. L’aumento medio annuo della Cina nel “consumo totale”, inclusi non solo gli standard di vita delle famiglie, ma la spesa per l’istruzione e la sanità, è stato di oltre l’otto per cento all’anno per quattro decenni: non solo il più rapido al mondo, ma di gran lunga il più rapido aumento degli standard di vita per il maggior numero di persone nella storia umana (Ross, 2015). Xi Jinping ha dichiarato che nel 2017 «sono stati creati oltre 13 milioni di nuovi posti di lavoro nelle aree urbane e rurali, il sistema di assicurazione pensionistica sociale ha coperto oltre 900 milioni di persone e le assicurazioni mediche di base sono state garantite a 1,35 miliardi di persone» (Xi Jinping, 2017b). La Cina ha portato protezione sociale a una popolazione che è superiore a quella complessiva dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, e assistenza sanitaria a una popolazione maggiore di quella dell’Africa e più del doppio della popolazione dell’America Latina. Molti di coloro che sono già usciti dalla povertà nel processo di sviluppo economico lo devono alla una combinazione dell’espansione dello stato sociale e dell'economia pianificata che facilita il raggiungimento degli obiettivi occupazionali necessari. Una ONG come Oxfam riconosce che la Cina ha uno dei sistemi di spesa sociale in più rapida crescita nella storia umana (Green, 2013).
Queste sono gigantesche conquiste nel campo dei diritti umani pratici, non quelli teorici, quasi sempre disattesi, dai paesi occidentali. L’agenzia dell’ONU che se ne occupa dice che la crescita dello “sviluppo umano” della Cina è stata la più alta del mondo negli ultimi trenta anni. La Cina ha anche la crescita più veloce del mondo nei consumi, mentre la sua popolazione vive significativamente più a lungo, di quanto ci si aspetterebbe dal livello del suo sviluppo economico. La Cina ha l’ascesa più veloce del mondo nel tenore di vita e ora si punta a una crescita di qualità superiore e sostenibile.
La società moderatamente prospera di Xi parte dalla sicurezza sociale, miglioramento del tenore di vita e anche dell’ambiente attraverso lo sviluppo sostenibile, rafforzando l’orgoglio nazionale e la sicurezza sociale (Cadoppi, 2018)[2].
Democrazia deliberativa e democrazia capillare
Xi Jinping vuole rafforzare il sistema per la governance della comunità e l’autogoverno dei cittadini (Xi Jinping, 2017: 44-45). Il sistema cinese, inclusa la democrazia elettorale e la democrazia consultiva, funziona perché si è sviluppato in conformità con la realtà della società cinese, sostiene Xi. In Occidente qualsiasi opposizione al paradigma “democratico” dominante è meritevole di condanna e anche di punizione, essendo doveroso imporre il proprio sistema manu militari. I cinesi in compenso non vogliono imporre il loro.
Le basi della democrazia cinese sono costituite da due organizzazioni di base, nelle quali le informazioni vengono scambiate tra popolo e governo: le sezioni del Partito Comunista Cinese e i comitati di villaggio o di comunità, con le prime che hanno ruoli di orientamento e i secondi che fanno il lavoro pratico. I membri dirigenti del PCC sono eletti solo dai membri del partito, la loro carriera dipende molto dalle loro capacità e da come queste sono percepite dal livello superiore. I componenti dei comitati di villaggio o di comunità sono invece regolarmente eletti tenendo elezioni libere e dirette come richiesto da un sistema di governo democratico.
Inoltre, i rappresentanti a livello cittadino del Congresso del popolo sono anch’essi eletti con voto diretto e il loro compito è raccogliere informazioni rilevanti circa i bisogni e le aspettative del popolo e di farle arrivare direttamente al Congresso Nazionale del Popolo. In aggiunta, più di tre milioni di organizzazioni di base e milioni di rappresentanti di centinaia di migliaia di villaggi, paesi e città tengono il governo centrale costantemente e direttamente connesso con la popolazione. Grazie alle elezioni dei rappresentanti ufficiali delle organizzazioni di base e all’enorme rete di quadri del PCC e del governo, il governo è informato delle aspettative e lamentele del popolo cinese. Questa struttura permette alle informazioni di viaggiare dal più remoto villaggio al più alto livello di governo ed è per questo che si può definire il sistema politico cinese come una “democrazia capillare” (Meyer, 2016).
La capacità decisionale del governo cinese è assicurata dal fatto che la maggior parte dei suoi componenti sono persone preparate e selezionate attraverso un percorso a lungo termine per il loro lavoro nel governo. Questo, combinato alle carriere basate essenzialmente sui risultati, porta a una leadership fatta di individui con esperienza, funzionari impegnati e qualificati, che sono in grado di affrontare le complesse sfide poste dal governo di un paese che equivale nelle dimensioni a un continente (ci sono voluti più di 40 anni di servizio pubblico eccellente perché Xi Jinping arrivasse alla presidenza della Cina) (Meyer, 2016).
Le basi del sistema cinese sono democratiche nel senso più autentico del termine. La struttura di governo è tale da agire rapidamente con decisioni che vanno a beneficio alla maggioranza del popolo cinese. Il PCC è legittimato e affidabile per il popolo cinese. Il sistema è una democrazia popolare capillare. Come tutti i modelli funzionanti meriterebbe di essere studiato più che demonizzato. Le democrazie occidentali potrebbero trarne insegnamenti.
La democrazia deliberativa in stile cinese ha ormai parecchi estimatori nello stesso mondo accademico occidentale. Scrive Ethan J. Baogang He dell’Università di Melbourne: «Negli ultimi anni, le istituzioni consultive e deliberative si sono sviluppate in Cina e un numero crescente di audizioni pubbliche hanno fornito alle persone l’opportunità di esprimere le loro opinioni su una vasta gamma di questioni relative al prezzo dell’acqua e dell’elettricità, tasse d’ingresso ai parchi, il trasferimento degli agricoltori, la conservazione dei monumenti storici e anche il famoso zoo di Pechino, per citarne alcuni» (Khan, 2018) . Questa democrazia produce risultati positivi. Gli argomenti e le ragioni prodotte nelle discussioni sono impiegati per risolvere problemi collettivi; i partecipanti e i leader locali si scambiano le loro opinioni, forniscono contro-argomenti, cambiando le loro preferenze attraverso la deliberazione pubblica. Le decisioni pubbliche su determinate questioni sociali e politiche si sono formate attraverso un processo deliberativo.
Soft power
La sfida oggi è promuovere la cultura cinese nel mondo. Si può dire che nel passato il soft power lo avessero inventato i cinesi. Per gran parte della storia della Cina, infatti, la sua cultura materiale e intellettuale era accolta con entusiasmo dagli stati alla sua periferia, in particolare il Giappone e la Corea. Fino al diciannovesimo secolo, gli invasori stranieri erano invariabilmente “sinizzati”, come accaduto con le dinastie Yuan (Mongola) e Qing (Manciù). Come ricorda Arrighi, personaggi come Adam Smith e grandi uomini di cultura dell’Illuminismo europeo quali Voltaire, Leibnitz e Quesnay guardavano alla Cina come fonte di ispirazione morale e politica. Per Quesnay l’Impero Cinese è «ciò che l’Europa sarebbe potuta diventare se i suoi stati si fossero riuniti sotto un unico sovrano» (Arrighi, 2008: 15-16). Essi vedevano il sistema di governo cinese formato da una colta casta di funzionari civili laici come un ideale da emulare. Lo shock che la Cina subì a metà del diciannovesimo secolo per mano delle potenze occidentali industrializzate fu senza precedenti. Esso portò al “secolo dell’umiliazione”.
La risurrezione della tradizione classica si è incentrata sull’armonia sociale, che richiede che gli interessi dell’individuo siano subordinati a quelli del collettivo, concetto non nuovo nella sinizzazione del marxismo, poiché nei documenti dell’era maoista la “Grande Armonia” era l’equivalente del comunismo.
Egemonia occidentale vs egemonia orientale
L'investimento nel potere d'acquisto della popolazione e nelle prospettive di occupazione attraverso il miglioramento delle infrastrutture del paese, fornendo agevolazioni fiscali e sovvenzioni, pagherà molto più che gettare denaro in istituzioni finanziarie. I cinesi conoscevano già questo. Il poliziotto del mondo può essere occidentale, ma il maestro del mondo, come è stato per millenni, risiede ancora in Oriente.
Andrew Hughes, 2008
Oggi l’ideologia del socialismo con caratteristiche cinesi esemplifica la ricerca di valori impartiti ed ereditati dal popolo cinese nel corso dei secoli. Il processo di sinizzazione del marxismo implica la fusione con l’essenza della cultura tradizionale cinese e l’allineamento con la realtà concreta della Cina. Certamente una Cina che crede nei valori spirituali derivati dalla propria cultura potrà competere maggiormente per il soft power a livello mondiale.
Afferma ancora Xi:
«Quando le persone hanno ideali, il loro paese avrà forza e la loro nazione avrà un futuro luminoso. Aiuteremo la nostra gente ad aumentare la consapevolezza politica e gli standard morali, a promuovere l’apprezzamento della cultura raffinata e ad aumentare l’educazione e la civiltà sociale. Noi intraprenderemo vaste attività di sensibilizzazione pubblica per aiutare le persone a sviluppare ideali e convinzioni solide; sviluppare la loro consapevolezza del socialismo con le caratteristiche cinesi e il Sogno cinese; promuovere un ethos cinese e una disponibilità a rispondere al richiamo dei nostri tempi; rafforzare il ruolo guida di patriottismo, collettivismo e socialismo; vedere che le persone sviluppano un’accurata comprensione della storia, dell’etnia, del paese e della cultura» (Xi Jinping, 2017: 44).
Rafforzare il paese dal punto di vista dei comportamenti etici significa, di fatto, rafforzare la fiducia in se stessi. La Cina ha bisogno come il pane dell’orgoglio nazionale se vuole diventare un faro a livello mondiale, anche nell’ottica di espandere la propria influenza e il soft power oltre i propri confini.
A questo punto la Cina, sebbene non voglia imporre il proprio modello, potrà diventare un sicuro riferimento per un’alternativa a livello mondiale impostata su quella che potremmo definire una civilizzazione socialista. Secondo Giovanni Andornino, docente all’Università di Torino: «L’egemonia occidentale nel campo delle idee e delle visioni del mondo, finora data per scontata, deve ora confrontarsi con una Cina che fa della propria strategia di sviluppo e del proprio assetto politico-istituzionale un modello cui altri possono ispirarsi. La narrazione patriottica della rinascita nazionale cinese, contrapposta alle crisi che investono le democrazie liberali occidentali – dagli USA di Trump, alle vicende europee con la Brexit, la Grecia e ora la Catalogna – esercita un’attrazione che è sempre più irragionevole sottovalutare» (Spalletta, 2017) conclude Andornino.
Consenso in Cina vs. scetticismo globale nei confronti della democrazia occidentale
Il partito, secondo quanto chiede Xi Jinping, ha il dovere e il compito di creare partecipazione popolare. La democrazia consultiva e deliberativa con caratteristiche cinesi unita alle alte performance della governance fa sì che il governo cinese abbia il più alto grado di popolarità al mondo.
Il popolo cinese, infatti, sembra sia tra i più soddisfatti del pianeta. Il prestigioso istituto demoscopico americano Pew Research Center, già nel 2008, rilevava come più dell’80 per cento dei cinesi fossero soddisfatti per l’andamento dell’economia del paese e il 65 per cento pensava che il proprio governo stesse facendo un buon lavoro. I consensi sono arrivati nel 2009 al 95 per cento (Cadoppi, 2014). L’80 per cento dei cinesi ha una visione positiva del proprio futuro, percentuale che sale al 93 per cento tra i giovani (non è propriamente la stessa opinione dei giovani italiani sul loro governo).
Scrive il sinologo americano Daniel Bell che il punto di vista in Occidente assume che le persone siano insoddisfatte del regime semplicemente perché non ha adottato il sistema occidentale. Per noi questo sistema è insostituibile ed esportabile obtorto collo anche presso altri popoli. Invece: «La stragrande maggioranza del popolo cinese appoggia una struttura dello Stato con il ruolo egemone del partito comunista. Dal 1990, gli studiosi in Occidente e in Cina hanno effettuato numerose indagini su larga scala sulla legittimità del potere politico cinese e ormai sono praticamente arrivati a una comune conclusione: il grado di legittimità del sistema politico cinese è molto elevato. I sondaggi sono stati modificati per impedire alle persone di dire bugie e i risultati sono sempre gli stessi» (Bell, 2012).
Secondo un’indagine diretta da Anthony Saich, Professore presso la Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, i livelli di soddisfazione per il governo centrale sono altissimi mentre l’operato dei dirigenti nelle zone rurali del Paese è addirittura in aumento. «I dati positivi riguardanti le amministrazioni delle zone agricole, […] dovuti alle recenti campagne congiunte, governo centrale-amministrazioni locali rurali, nelle quali si tendono a enfatizzare le riforme e i successi raggiunti nel settore agricolo, nell’assistenza sanitaria e nel welfare nelle zone meno urbanizzate del Paese». Gli autori sostengono che il grado di fiducia del «61 per cento nei confronti delle amministrazioni locali e 95 per cento per quella centrale – (sono) livelli sorprendenti persino per la maggior parte delle democrazie occidentali» (Cadoppi, 2014). Si tenga presente che viene costantemente detto che l’insoddisfazione popolare, è in gran parte rivolta ai livelli inferiori di governo, tra l’altro quelli eletti direttamente con elezioni competitive e quindi più “democratici”. Risulta però che essi abbiano un grado di consenso assai maggiore della maggioranza dei governi occidentali. Certamente, il governo centrale (eletto con elezioni indirette) è visto come la parte più legittimata dell’apparato politico cinese. Il presidente Xi Jinping è, nell’unico sondaggio fatto dalla Pew Research nel 2014, al 92 per cento dei consensi (Pew Research Center, 2014)[3].
Mentre 94,4 per cento dei cittadini cinesi è d’accordo con l’affermazione che «La nostra forma di governo è la cosa migliore per noi», solo il 24,3 per cento dei giapponesi è d’accordo con la forma politica del proprio paese. Allo stesso modo, mentre il 81,7 per cento dei cinesi sono soddisfatti di come la democrazia funzioni nel loro paese, solo il 49 per cento dei giapponesi lo sono. I dati del sondaggio suggeriscono anche che i cinesi hanno una concezione molto più chiara della democrazia rispetto ai loro omologhi giapponesi: essi desiderano una forma di “democrazia socialista armoniosa”, mentre i giapponesi non sembrano sicuri delle loro preferenze (il 35,5 per cento dice di non sapere ciò che la democrazia comporta) (Keidel e altri, 2008).
La democrazia sostanziale, cioè basata sul consenso, gode di ottima salute in Cina, ma non si può dire altrettanto dei paesi occidentali. Gli ultimi anni hanno registrato un crescente scetticismo globale, e persino ostilità verso la democrazia di tipo occidentale. In Asia la maggioranza della gente, non crede che la democrazia occidentale sia adatta già da oggi, e ancora meno crede che sia la forma preferibile di governo e infine meno ancora che sia efficace nel risolvere i problemi della società. Insomma il sostegno alla democrazia occidentale non è elevato nell’Asia nel suo complesso.
I sondaggisti hanno scoperto che mentre il supporto per l’uguaglianza politica è piuttosto alto, con una media del 73,5 per cento, il sostegno per il pluralismo politico è inferiore al 40 per cento. Più sorprendente, è il calo decisivo dell’idea che la democrazia (di tipo occidentale) possa risolvere i problemi». Tra la prima e la seconda indagine (i dati sono stati presi a distanza di alcuni anni) quella cifra è scesa di un buon 20 per cento (Keidel e altri, 2008).
La domanda che tutti dovrebbe porsi in Occidente è: se il Partito Comunista Cinese gode di una popolarità superiore al 90 per cento e i governi “democratici” occidentali non godono di grande popolarità come mai si ostinano a demonizzare il popolarissimo, tra il proprio popolo, governo cinese?
Il socialismo cinese del XXI secolo. L’unico sistema impostato per adattarsi alla New Economy
Dobbiamo perseguire lo sviluppo dell'innovazione e intensificare la cooperazione in settori di frontiera come l'economia digitale, l'intelligenza artificiale, le nanotecnologie, il calcolo quantistico e promuovere lo sviluppo di grandi dati, cloud computing e città intelligenti per trasformarli in una via della seta digitale del XXI secolo. Dobbiamo incentivare la piena integrazione della scienza e della tecnologia nei settori industriali e finanziari, migliorare l'ambiente per favorire l'innovazione e mettere insieme risorse per quest'ultima.
Xi Jinping discorso al Forum sulla Via della Seta, 14 maggio 2017.
I vecchi sistemi socialisti erano rimasti indietro tecnicamente rispetto al capitalismo e ai settori industriali del XX secolo tanto che alcuni considerano proprio questa la causa del crollo del socialismo reale. Oggi, che questi settori stanno diventando obsoleti c’è un paese socialista, la Cina, che è all’avanguardia della tecnologia. Questo è il vero socialismo del XXI secolo, in linea con lo sviluppo delle forze produttive.
L’evoluzione cui si assiste è verso uno stato post-industriale con spostamenti massicci di manodopera verso i settori avanzati della New Economy.
L’America di Trump vuole fare tornare indietro la ruota della storia con il ritorno all’industrializzazione tradizionale ma quello che sta ottenendo è di portare impianti Foxconn nel Wisconsin attraverso alcune lavorazioni in precedenza fatte in Asia da macchine presidiate da pochi lavoratori a bassa retribuzione, dopo che lo stato americano ha sovvenzionato con tre miliardi dollari l’azienda taiwanese. Il famoso “liberismo” antistatalista.
I posti di lavoro nelle aziende tradizionali si stanno perdendo mentre quelli nella new economy ottenuti attraverso l'automazione richiederanno tecnici con un alto grado d’istruzione. In Occidente si tagliano i finanziamenti all’istruzione. Più l'istruzione è inadeguata, maggiore sarà il numero di futuri lavoratori assistiti dallo stato. La Cina si posiziona su un differente versante. Pechino aumenta sempre di più gli investimenti in istruzione.
A partire dal 1990, le spese cinesi per l'istruzione in percentuale del PIL sono raddoppiate. La Cina è più efficace nello spendere e concentrare gli investimenti per creare un sistema di qualità che possa preparare al meglio gli studenti per l'economia del futuro.
Xi Jinping insiste particolarmente sul miglioramento dell’istruzione, rendendola universalmente accessibile affinché ognuno abbia l’accesso a un’istruzione di qualità dove le scuole e università cinesi possano competere con quelle internazionali. Inoltre egli chiede di migliorare la formazione continua, intensificando «gli sforzi per costruire una società della conoscenza promuoveremo lo sviluppo a tutto tondo di tutta la nostra gente» (Xi Jinping, 2017: 40-41).
I genitori cinesi attribuiscono grande importanza alla formazione dei loro figli. Ciò ha portato al rapido aumento della spesa annua per l'istruzione e la cultura. I genitori cinesi sono sempre più disposti a iniziare la formazione dei loro figli in giovane età, dando loro un vantaggio. I risultati del CCTV Survey 2011-2012 della vita economica hanno mostrato che la percentuale della spesa totale delle famiglie che va in educazione dei bambini aumenta di anno in anno (41 per cento nel 2009, 42 per cento nel 2010, 46 per cento nel 2011). Con l'emergere di vari tipi di centri pre-scuola, classi di tutorial, le spese per l'istruzione dei bambini sono arrivate a dominare il bilancio familiare. Sempre più genitori mandano i loro figli all'estero per l'università.
L’Università di Pechino e la Tsinghua sono tra le prime 25/30 al mondo, tra le prime in Asia e tra le primissime nel mondo per la scienza e la tecnologia. La Cina è il paese che conta più studenti nelle università e nelle scuole superiori. Più di un milione di studenti seguono un insegnamento post-universitario. Lo stato sta organizzando il sistema dell’alta formazione che si apre al mercato del lavoro, aperto ai finanziamenti privati da parte di aziende non necessariamente private, e che punta sull’internazionalizzazione: apertura alle università straniere, scambio di studenti e ricercatori fino alla gestione delle scuole e delle università cinesi con partner stranieri. La Cina, inoltre, sta vivendo la massificazione dell’Università che l’Italia conobbe a fine anni Sessanta e durante gli anni Settanta. Nelle università cinesi studiano un milione di studenti stranieri. Gli studenti italiani che studiano all’estero ormai preferiscono la meta cinese a quella americana. Nel 1990, il 3 per cento dei giovani con più di diciotto anni andavano all’Università o alla scuola superiore. Sono stati il 23 per cento nel 2010 e saranno il 40 per cento nel 2020. Alla fine del decennio passato più del 5 per cento dei giovani al primo impiego avevano un titolo universitario o superiore non universitario. Nel 2050, dovranno essere il 44 per cento. Gli studenti sfruttano l’immenso bisogno del mercato del lavoro cinese di personale altamente qualificato. A differenza di altri paesi in via di sviluppo, infatti, la Cina ha capito che puntare sull’innovazione e la tecnologia è uno dei mezzi attraverso i quali mantenere alti tassi di crescita economica e sociale. Molti studenti, finiti gli studi all’estero, tornano in Cina e impiantato start up innovativi.
Il tema guida della riforma dell'istruzione cinese tra il 2010-2020 è di costruire le basi per una società dell'apprendimento (Learning society) secondo la filosofia educativa supportata dall'OCSE e dall’UNESCO, attraverso la modernizzazione dell'attuale sistema educativo nel suo complesso. Obiettivo principale di un sistema moderno è quello di fornire risorse umane competitive di livello mondiale per il mondo del lavoro. La riforma dell'istruzione viene fatta su tutti i livelli di istruzione, da quello pre-scolastico a quello universitario, dall’educazione continua a quella delle minoranze (Cadoppi, 2013). Un esempio sono le innovative “Cloud Classroom” che tendono a trasformare l'insegnamento e l'apprendimento utilizzando le ultime Information Technology.
Dal 2035 al 2050, la Cina dovrebbe diventare poi una nazione pionieristica a livello mondiale. Per la prima volta in assoluto, i dati evidenziano che la Repubblica popolare ha pubblicato più articoli scientifici degli Stati Uniti. A certificarlo è la classifica della National Science Foundation (NSF), agenzia governativa americana per la ricerca e la formazione di base in tutti i campi non-medici della scienza e dell’ingegneria.
La Cina Popolare è sovente accusata di produrre merce scadente con manodopera schiavizzata e per il furto di brevetti. I cosiddetti "distretti industriali" italiani si fondavano sull’imitazione generalizzata. Io lavoro in una certa azienda, mi licenzio e faccio un prodotto simile che la mia azienda precedente ha copiato da un altro che a sua volta ha copiato da un tedesco, austriaco ecc. fino a risalire ad Adamo ed Eva. La cosiddetta mancanza di creatività degli asiatici è un mito razzista (interessato) applicato di volta in volta ai giapponesi (negli anni Sessanta), ai coreani (anni Settanta), e per la prima volta ai cinesi negli anni Ottanta (ma erano quelli di Taiwan e Singapore) poi ai cinesi continentali solo negli anni Novanta e seguenti.
Nulla di nuovo sotto il sole. I cinesi citano gli esempi passati: gli americani accusavano il Giappone di copiare negli anni Sessanta. Gli inglesi accusavano la Germania di copiare negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale. Gli Europei accusavano gli USA di copiare all’inizio del secolo scorso. I cinesi hanno accusato l’Occidente di copiare fino al XVI secolo o giù di lì (polvere da sparo, bussola, allevamento del baco da seta ecc.). Poiché la Cina sta ristrutturando la propria economia verso l'innovazione e l’alta tecnologia, è probabile che perderà gradualmente lo status di "accusato" per assumere lo status di "accusatore", magari nei confronti dell’India, com’è successo a molti altri paesi.
Solo la città di Shenzhen spende in ricerca un terzo dell'Italia. Sono loro che copiano da noi? C'è da ridere. Huawei è una delle prime quattro aziende a livello mondiale negli investimenti in ricerca. I brevetti Huawei in ambito di reti rendono l’azienda cinese, il numero uno al mondo. A tutto il 2015 Huawei ha registrato oltre 50.000 brevetti. Secondo l’agenzia dell’ONU World Intellectual Property Organization (WIPO), Huawei è la prima azienda al mondo per richieste di brevetti internazionali nel 2015 con 3.898 richieste. La Huawei è stata bandita dal mercato USA, il paese “liberista” più protezionista al mondo, per questioni di "sicurezza nazionale". Nel campo degli smartphone Samsung e Apple cedono quote di mercato acquisite dalle cinesi Huawei, ZTE, Oppo, Vivo, Lenovo e Xiaomi.
La Cina ha il maggior numero di ricercatori a livello mondiale dopo gli USA. Nel 2013 il numero di brevetti richiesti da scienziati e ingegneri cinesi ha raggiunto quota 825.136, superando nettamente quello dei brevetti richiesti dagli americani (571.612). Nel 2016 la Cina ha pubblicato oltre 426 mila studi, il 18,6 per cento del totale documentato nel database Scopus di Elsevier. Gli Usa scivolano così al secondo posto con circa 409 mila lavori scientifici pubblicati. L’American Society for Clinical Investigation, ha pubblicato un report incentrato sulla ricerca biomedica, secondo il quale nel 2000 la Cina si era classificata al 14° posto con lo 0,4 per cento della produzione totale di articoli, salendo ora al quarto posto nella classifica mondiale con l’1,4 per cento della produzione totale. La Cina è comunque al vertice dell'innovazione: il 40 per cento di tutti i brevetti nel mondo sono cinesi, cioè più di quelli di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud messi insieme. Nel campo dei brevetti, dunque, un indicatore fondamentale dell’innovazione tecnologica, i cinesi sono ormai saldamente primi.
Questi dati hanno la capacità di influenzare il prestigio del quale gode la ricerca scientifica cinese e dunque, a medio-lungo termine, influenzeranno la capacità di competere sullo scenario internazionale nella raccolta di fondi e nella capacità di attrazione dei “cervelli”. Un numero crescente di scienziati di origine cinese che si sono formati negli Stati Uniti torna al proprio paese dopo la fine del percorso di formazione. Mentre prima la gran parte restava negli States, ora non è più così. Come non bastasse la capacità attrattiva americana di studenti dall’estero è scesa dal 25 per cento nel 2000 al 19 per cento nel 2014.
La Cina sta proseguendo sul percorso di crescita degli investimenti ed è arrivata a investire circa 400 miliardi, con un aumento stabile e continuato negli ultimi anni. Nel 2000, la Cina spendeva il 12 per cento di quanto gli Stati Uniti investivano nella ricerca biomedica, nel 2015, ha superato di gran lunga tutti gli altri Paesi, ad eccezione degli Stati Uniti, spendendo il 75 per cento di quello che in quell’anno hanno investito gli USA. Il ritmo con il quale la Cina sta investendo sembra indicare, secondo gli osservatori americani, che il Paese è pronto a superare gli Stati Uniti in un futuro concretamente molto vicino (Indro, 2018). Si tenga presente che se i dati sono rapportati al potere d’acquisto la Cina è già probabilmente la leader mondiale della ricerca in tutti i campi.
Oggi l’innovazione è ricerca. Ormai sono più le cause intentate dai cinesi agli altri (e tra di loro anche) che quelle degli altri ai cinesi.
Scrive Pietro Greco che il QUESS, primo satellite per comunicazioni quantistiche, realizzerà: «una svolta nella criptografia, rendendo la trasmissione di messaggi intrinsecamente sicura, testando le leggi della meccanica quantistica e, in particolare, verificando il “quantum entanglement”, la correlazione a distanza tra particelle quantistiche, a scala globale. Davvero una bella impresa, se riuscirà. QUESS è solo l’ultima delle sfide lanciate dalla Cina per conquistare la leadership mondiale nel campo non solo delle ICT (Information and Communication Technologies), ma dell’intera filiera della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico: dalla scienza di base alla produzione di beni hi-tech» (Greco, 2016).
L'ultimo supercomputer Shenwei (il più potente al mondo) usa CPU cinesi poiché gli americani hanno messo i CPU Xenon nella blacklist delle esportazioni verso la Cina.
All’ultimo Zhuhai Airshow, le aziende cinesi hanno firmato contratti per un valore di 40 miliardi con un incremento annuale pari a 41 per cento. L'Airshow è diventato un importante evento per i produttori aeronautici cinesi. Infatti, durante le passate edizioni sono stati conclusi alcuni contratti di vendita da parte dei costruttori locali, come nel 2008 quando il costruttore cinese Comac ha venduto 25 aerei di linea regionale ARJ21-700 alla statunitense GE Commercial Aviation Services, sussidiaria della General Electric.
Da quarant’anni, ormai, la Cina rincorre l’Occidente in fatto di scienza e tecnologia. «Una corsa velocissima, che ha portato il paese asiatico, in termini di investimenti, a superare (nel 2014) l’Unione Europea e a minacciare la leadership degli Stati Uniti d’America: il sorpasso è previsto per il 2023. Nella classifica della Strategy & Global Innovation 1000, ovvero delle mille aziende considerate più innovative al mondo, nel 2005 rientravano solo 8 imprese cinesi. Nel 2015 il numero è salito a 114. La Cina è dunque uno dei poli mondiali dell’innovazione.
Piaccia o meno, il leader mondiale sul fronte dell'energia pulita è la Cina che ha ormai lasciato il vuoto alle proprie spalle. Ad affermarlo con decisione - "leader senza rivali" - è il nuovo rapporto dell'Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA): investimenti per 32 miliardi di euro in tecnologie collegate alle rinnovabili, segnando un balzo del 60 per cento di spesa anno su anno. Entro il 2021 Pechino installerà circa 1/3 della capacità globale di energia eolica, idroelettrica e solare.
Entro il 2035 la Cina sarà una nazione innovativa ai vertici del ranking mondiale afferma Xi Jinping. Secondo Stephen S. Roach di Yale: «La Cina ha fatto enormi passi avanti nella formazione del capitale umano. Il tasso di alfabetizzazione degli adulti è quasi pari al 95 per cento, mentre il tasso d’iscrizione alle scuole secondarie è dell’80 per cento. Gli studenti quindicenni di Shanghai si sono classificati recentemente primi a livello globale in matematica e lettura secondo gli standard del sistema metrico PISA. Il numero di laureati in ingegneria e scienza presso le università cinesi è attualmente pari a più di 1,5 milioni su base annuale. Il paese è sulla strada giusta per diventare un’economia basata sulla conoscenza e le tecnologie dell’informazione» (Roach, 2011).
Oltre alla spesa generale per l'istruzione, ci sono anche programmi speciali lanciati dal governo cinese come il Progetto 985, un'iniziativa che costerà al governo miliardi di dollari, portando 39 università cinesi nelle prime posizioni delle classifiche universitarie globali. La Cina attrae studenti e potrebbe diventare una fucina di talenti ma anche le università occidentali cercano di aprire campus in Cina per reclutare talenti cinesi (ma Pechino oggi incoraggia i propri cittadini a rimanere in Cina e contribuire alla crescita della loro patria).
La Cina ha ormai una forza lavoro altamente qualificata ed è la stella nascente nei settori cruciali della scienza, della tecnologia, dell'ingegneria e della matematica (STEM). All’inizio del millennio in Cina, si laureava lo stesso numero di studenti STEM del Giappone, ora ha il maggior numero di laureati in questi campi di qualsiasi altro paese al mondo (compresi i primi otto paesi dell'UE messi insieme). La Cina è ora anche sede di quattro delle migliori scuole STEM del mondo, lo stesso numero degli Stati Uniti.
Questa strategia educativa in Cina è impostata per costruire il tipo di forza lavoro di cui c’è bisogno per il futuro e continuare a fornire ai cittadini cinesi un lavoro sempre più qualificato e sempre più remunerativo. Ciò significa che i cinesi possono continuare ad aspettarsi un livello di vita in crescita, anche se molte altre economie occidentali non sono propriamente floride.
Gli aumenti della produttività del lavoro sono stati stupefacenti (Focus, 2013). Basta dire che gli aumenti nella produttività sono stati, nel rapporto tra PIL/impiegati, di quasi il 12 per cento tra il 2003 e il 2007 e di quasi il 9 per cento nel periodo tra il 2008 e il 2012, in piena crisi economica, quando parecchi paesi europei, compresa la Germania, hanno avuto addirittura dati negativi. Oggi un lavoratore cinese medio produce cinque volte più di venti anni fa. La produttività del lavoro è importante nel consentire, un adeguato aumento degli stipendi.
L’invecchiamento della popolazione, inevitabile anche in Cina, è un problema che si potrà combattere meglio attraverso posti di lavoro più remunerativi per chi rimane nella produzione e che potranno maggiormente contribuire per chi viene allontanato dalla produzione dall’introduzione dell’automazione.
Le aziende di proprietà statale in Cina, sono in grado di dirottare più risorse dal settore delle imprese verso investimenti pubblici. Spesso gli americani accusano gli imprenditori cinesi (i famosi miliardari) di essere al servizio del partito e dello stato (per questo la Cina non sarebbe un'economia di mercato) e di costringere anche gli imprenditori stranieri a fare altrettanto. Colossi privati stranieri come Facebook e Google avranno vita dura se non si confermeranno alla volontà della Cina e ai suoi piani e non smetteranno di essere agenzie spionistiche dei paesi occidentali. Il rischio è di rimanere fuori dal più grande mercato di consumatori del mondo.
La Cina è l'unico paese che effettivamente si sta preparando a costruire il socialismo che si possa dire effettivamente per il XXI secolo.
Turbosocialismo
Nella percezione popolare occidentale la Cina sarebbe un paese turbocapitalista addirittura a “capitalismo autoritario”, dunque peggiore di quello occidentale. Questo tipo di idee è stato instillato da tutta la truppa cammellata del Washington Consensus (università, media ecc.) che ha insistito sul leitmotiv del famoso TINA di Margaret Thatcher: “There is no alternative”, non ci sono alternative al capitalismo neoliberale. Ciò che c’è di positivo (sviluppo economico) in Cina deriva dalla ricetta liberista ciò che c’è di negativo (autoritarismo) deriva dal comunismo. Le truppe di complemento per questa concezione sono nell’estrema sinistra semplificatrice. Il senso è che Pechino non avrebbe semplicemente adottato il cosiddetto Washington Consensus.
In realtà tutti i tentativi di applicare le ricette liberiste nell’Africa Subsahariana, in America latina (default argentino) e nell’ex URSS (era di Eltsin) si sono rivelati un disastro completo.
Quello dei cinesi è socialismo di (più o meno) libero mercato che significa alto tasso di dirigismo statale (in modo che l'economia sia in mani nazionali e non di Wall Street) e un alto tasso di libero mercato (che significa merci e servizi con costi minimi). L'economia di mercato socialista evita l'instabilità macro-economica del capitalismo, mentre sfrutta l'efficienza micro-economica del mercato. Una formula vincente dove è stata applicata: Cina, Vietnam, Laos, Cambogia che hanno, come si diceva, il maggior numero di gente sottratta alla povertà assoluta nel mondo.
Uno studioso inglese, John Ross, ci illumina sulla realtà dello sviluppo cinese. La superiorità schiacciante dello sviluppo economico dei paesi socialisti che hanno seguito una politica maggiormente in sintonia con il modello cinese, dimostra la superiorità del modello messo in opera dal PCC, alternativo a quello capitalista. Il modello capitalista si ispira oggi al Washington Consensus che è la strategia economica neoliberale dominante, seguita dalle istituzioni economiche internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale e costituisce il mainstream dell’economia insegnata nelle università occidentali. Il Washington Consensus è una forma classica di "neoliberismo". Si basa sulla privatizzazione dell’economica e la riduzione al minimo del ruolo economico dello stato. La sua politica sociale si basa sulla convinzione che la crescita economica porta vantaggio a tutti gli strati della società. Il termine "Washington Consensus" è stato coniato nel 1989 dall'economista statunitense John Williamson. Le politiche associate a questo modello sono però iniziate alla fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta. Siccome il periodo coincide con l’applicazione in Cina del modello del socialismo di mercato, è legittimo un raffronto basato sull’analisi macroeconomica tra i due tipi di sistemi. Il Beijing Consensus ossia il socialismo di mercato è oggi l’unica alternativa che tiene testa al modello capitalista a guida statunitense, adottato dalla maggior parte del mondo. Secondo l’espressione dii Xi Jinping la strategia di sviluppo cinese a differenza di quella del neoliberalismo si basa, sia sulla mano "visibile" dello stato che sulla "mano invisibile" del settore privato, ma aggiungiamo noi anche sulla mano invisibile dello stato che riesce a coordinare a far sì che privati, semiprivati (cooperative e aziende a partecipazione statale) e persino aziende straniere che investono sul territorio nazionale siano indirizzati verso gli obiettivi strategici dei piani di sviluppo nazionali. L’analisi dei dati macroeconomici indica un trend decisamente favorevole a questi Paesi. Modelli di sviluppo alternativi, incluso il Washington Consensus, con le loro economie asfittiche sono un fallimento in confronto.
I paesi che hanno maggiormente attinto dall’esperienza cinese sono in primo luogo il Vietnam e poi Cambogia e Laos, come abbiamo visto nei capitoli precedenti che sono stati fortemente influenzati da quell’esperienza.
Dal 1993 al 2015 Cina, Cambogia, Vietnam e Laos, sono stati rispettivamente i primi quattro paesi nel mondo per la crescita del PIL pro capite. Se risaliamo al 1989 Cina, Vietnam e Laos sono stati i primi tre paesi per crescita pro capite del PIL. Dal 1978 in poi la Cina ha avuto la maggior crescita tra le economie del mondo intero. Dal 1989 il Vietnam e il Laos sono cresciuti tre volte più velocemente della media mondiale. Dal 1978 il tasso di crescita della Cina è stato di quasi sei volte superiore alla media mondiale (Ross, 2017). La crescita del PIL per il 2017 conferma la tendenza: la Cina (6.9 per cento) e il Vietnam (6.8 per cento) ma ciò che impressiona è soprattutto il 6.9 per cento del piccolo Laos.
Non si può neanche più dire che lo sviluppo si basa su salari bassi. In Cina, ci sono aumenti spettacolari delle retribuzioni, tra il 5 per cento e il 27 per cento secondo gli ultimi dati, in base al settore economico e alle regioni interessate. Pechino, punta ormai sull’aumento del potere d’acquisto delle famiglie per stimolare il consumo interno. Considerando le principali città, gli abitanti di Shanghai, Pechino o Shenzhen possono vantare salari medi paragonabili a quelli di Paesi dell’Europa Orientale se non superiori. Un esempio simile viene dal Vietnam, dove oramai da anni il governo continua ad aumentare i salari di percentuali importanti. Per il 2018, ad esempio, è stato deciso un rialzo medio su base nazionale del 6.5 per cento dei salari minimi, mentre l’inflazione è stata mantenuta sotto la soglia del 4per cento, ma con un aumento inferiore al mezzo punto percentuale per i beni di prima necessità, in particolare quelli alimentari. In realtà, l’aumento sarà più importante proprio nelle zone più povere (6.9 per cento), quelle che attualmente godono di salari più bassi, mentre sarà del 6.1 per cento nelle aree urbane più sviluppate (le principali città, come Hanoi e Città Ho Chi Minh). Aumentando ogni anno i salari di una percentuale superiore rispetto a quella dell’inflazione, il governo vietnamita garantisce un lento ma graduale aumento del potere d’acquisto delle famiglie, assottigliando anche la diseguaglianza, senza dimenticare che il tasso di disoccupazione in Vietnam è appena superiore al 2 per cento (in Laos è addirittura l’1.5 per cento, mentre in Cina siamo sul 3.9 per cento).
Il risultato di questo sviluppo ha avuto effetti straordinari nella lotta alla povertà. Dal 1981 la Cina ha tolto 850 milioni di persone dalla povertà secondo gli standard della Banca Mondiale. Il Vietnam più di 30 milioni. Nel resto del mondo, nel modello dominante sostenuto dal FMI influenzato dal Washington Consensus, solo circa 120 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Durante questo periodo, l'83 per cento di tutta la riduzione della povertà è avvenuto in Cina, l’85 per cento se si considera l’insieme dei paesi socialisti nei paesi socialisti (il Vietnam, ha sollevato oltre 30 milioni dalla povertà) e solo il 15 per cento nei rimanenti paesi capitalisti. (Ross, 2015). Anche i governi di sinistra dell'America Latina - che hanno respinto il consenso di Washington - hanno svolto un ruolo importante.
I paesi a “capitalismo avanzato” continuano a vivere una fase di stallo, con prospettive non proprio rosee per il futuro. Ma si potrebbe obiettare che il modello economico della Cina non può essere confrontato con le economie sviluppate che hanno già avuto uno sviluppo, ma anche se lo confrontiamo con le economie capitalistiche allo stesso stadio dello sviluppo economico (livello del PIL pro capite) si rivela di gran lunga migliore.
I dati sono sorprendenti per i sostenitori del TINA. L’alternativa c’è. Il capitalismo non ha portato più rapidamente al benessere del socialismo. In base agli ultimi dati della Banca Mondiale, l'84 per cento della popolazione mondiale vive nei paesi in via di sviluppo. Questi paesi sono molto più simili ai paesi socialisti e potrebbero voler imitarne il sistema.
Conclusioni
Il modello cinese sembra avere risolto i problemi che erano alla base della crisi del socialismo in URSS e nelle democrazie popolari.
La caratteristica del socialismo di mercato per cui tutte le aziende anche statali sono in concorrenza tra di loro fa gridare al liberismo, oppure tra i più sofisticati al neo-keynesismo. Questa è appunto la caratteristica specifica del sistema che supera sia il socialismo di marca sovietica, asfittico per la mancanza di un mercato sviluppato, sia il socialismo di mercato dell’Europa Orientale che aveva istituito semplicemente un’economia tuttalpiù timidamente mista, ma con concorrenza scarsa tra le imprese statali e conservava la proprietà statale anche su aziende non essenziali. Non si può parlare in realtà nemmeno di neo-keynesismo perché le aziende statali dei paesi capitalistici hanno gli stessi difetti di quelle socialiste. La scarsa concorrenza porta a una scarsa rimuneratività delle aziende statali le quali essendo collocate spesso nei servizi al cittadino o alle imprese (elettricità, telefonia), offrono frequentemente servizi al disotto degli standard di mercato e costi eccessivi dovuti sostanzialmente alla scarsa efficienza. L’economia cinese è tra le più dinamiche del mondo e si sviluppa senza interruzioni, superando tutte le economie capitalistiche.
La società cinese è tra le più le più “liberali” tra i paesi socialisti; è attenta allo sviluppo di un autentico stato socialista di diritto; ha sviluppato una democrazia capillare sia a livello consultivo che deliberativo. C’è indubbiamente molto da lavorare sul soft power ma il progresso della “Via della seta” porterà sviluppi anche in questo campo.
Abbiamo detto che il marxismo nasce in Occidente per le economie avanzate. Il socialismo ha vinto in nazioni con economie arretrate. Il risultato è che coloro che si ritengono i depositari del marxismo (il famoso nonché fumoso “marxismo occidentale”) invece di chiedersi perché i partiti marxisti sono ormai residuali in Occidente si impegnano a criticare chi, nel bene e nel male, sta costruendo il socialismo. La logica vorrebbe che i primi andassero a insegnare ai secondi dopo avere costruito il socialismo a casa propria. Questi paesi avrebbero il requisito essenziale per realizzare l’economia di pianificazione previsto da Marx, e quindi per loro la realizzazione del socialismo non si identificherebbe eventualmente con lo sviluppo dell’economia di mercato, ma con abolizione dell’economia di mercato e l’introduzione della pianificazione, passo dopo passo. Invece il socialismo è uscito dal dibattito corrente in Occidente, nessuno ne parla più, ma i primi vogliono insegnare ai secondi come si costruisce il vero socialismo. Questo sì che è un bel paradosso. In Occidente è invalso l’atteggiamento secondo tutto si riduce alla critica. Se fosse per le critiche dei marxisti più o meno “critici”, il capitalismo sarebbe già morto e sepolto da decenni. Evidentemente criticare è utile ma non basta, bisogna proporre. Nella fase propositiva la sinistra più o meno radicale è un’autentica frana. E questo non si riflette solo sull’atteggiamento sulla Cina ma ancor di più su quello nazionale. I comunisti cinesi sono degli sperimentatori ma la sinistra peripatetica (o forse semplicemente patetica) occidentale si rifiuta di guardare il mondo attraverso il cannocchiale di Deng pensando che il cielo del socialismo sia formato da sfere di cristallo immutabili.
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[1] «[…] l’effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore non esclude affatto il mantenimento dei rapporti d’affitto. Comunque, non si tratta minimamente della questione se il proletariato, una volta giunto al potere, s’impadronisca semplicemente con la forza degli strumenti di produzione, delle materie prime o dei mezzi di sussistenza, sia che se ne paghi subito un indennizzo o che si riscatti la proprietà con dei lunghi pagamenti rateali. Pretendere di rispondere a tale questione in precedenza e per tutti i casi, significa fabbricare utopie, e io lo lascio fare agli altri» (Engels, 1887).
[2] Sul complesso della politica interna cinese si veda il mio: “La politica domestica della Cina” in La Cina di Xi Jinping. Viaggio nel 19° Congresso del Partito Comunista Cinese. A cura di Fosco Giannini e Francesco Maringiò. Napoli: La Citta del Sole, pp. 97-161
[3] L’economista Michele Geraci che insegna in Cina sostiene che in “elezioni libere” Xi Jinping otterrebbe il 99 per cento dei consensi.