Massimiliano Tortora *

 

Ma più spaventa, in questo mondo-quadro di Pollock,

cercare un filo di pensiero comunicabile

che leghi quelle a me capitate a quelle di milioni di altri

(Dieci anni dalla parte del torto. Lettera).

 

 

Scrive Paul Ricoeur, interrogandosi sul «ruolo della violenza nella fondazione delle identità, principalmente collettive», nel saggio Passato, memoria, passato, oblio:

Non esiste alcuna comunità storica che non sia nata da un rapporto assimilabile senza esitazione alla guerra: noi celebriamo con il titolo di eventi fondatori sostan-zialmente atti violenti, legittimati a posteriori da uno Stato di diritto precario. Ciò che per gli uni fu gloria, fu umiliazione per gli altri, e alla celebrazione di una parte corrisponde l’esecrazione dell’altra.

 

Per questo motivo, prosegue Ricoeur:

 La cosa più difficile non è «raccontare altrimenti» o «lasciarsi raccontare dagli altri», ma raccontare altrimenti gli avvenimenti fondatori stessi della nostra identità collettiva.

 

La pòlis che non c’è di Ennio Abate sembra partire proprio da questo presupposto: ossia la necessità di «[ri-]raccontare altrimenti gli avvenimenti fondatori» dell’odierna società italiana, intrecciando vicende personali e storia collettiva, in un groviglio mai districabile.

Le date entro cui sono state stati scritti questi straccetti rovelli artigliate sono quanto mai esemplificative: 2012, cioè l’oggi, per quanto concerne il termine ultimo; il 1978, naturalmente scelto «per ragioni non solo biografiche» (dalla Nota dell’Autore), il punto di partenza. È nel ’78 del resto che il Rapimento di Aldo Moro dà avvio da un lato alla marginalizzazione delle voci critiche (già il 16 marzo, scrive Abate, «noi zitti in piazza / mentre De Carlini vaneggia / infilando in trinità / Matteotti Togliatti e Moro») e alla correlata speranza di riscatto sociale degli ultimi, e dall’altro all’istituzione, nei suoi tratti fondamentali, di un nuovo corso dello stato repubblicano italiano: «a milioni siamo condotti all’ovvio repubblicano / a contemplare il miracolo / detto “straordinario sussulto democratico” che / BR permettendo / salderebbe “Paese reale e Paese legale”». Sicché il 1978 diventa l’anno fondatore, e il rapimento Moro l’evento in seguito al quale lo stato dei vincitori, quelli che partecipano «al saccheggio della ricchezza esistente» (Oh, che bel rifiuto del lavoro Madame Dorè!), si impone, appianando le contraddizioni in una tonda, ovattata e morbida armonia sociale e culturale.

Sia detto subito. Quella di Ennio Abate non è una poesia impegnata, se per “impegno” intendiamo una presa di posizione ideologica facilmente codificabile con formule a portata di mano (lo stesso autore avverte che queste «non sono poesie che mi sento di definire, come si suol dire, civile o politiche», Nota dell’Autore); e non lo è nemmeno se si cerca in essa la difesa “degli umili e degli oppressi”, secondo una retorica che vorrebbe far raccontare la storia non più solo con il sangue dei vinti, ma anche con le loro parole. Nulla di tutto questo. Quella di Abate è una poesia impegnata, e aggiungerei “politica e civile”, perché riflette e punta l’indice sui nodi irrisolti, che non riguardano solo chi è più in basso (semmai costoro sono coloro che pagano di più), ma il concetto di stesso di comunità e di identità collettiva: la pòlis appunto.

La pòlis che non c’è si struttura sia su un piano diacronico, che su uno sincronico. Il primo segue ovviamente la disposizione cronologica dei testi, e permette di seguire l’infiacchimento e poi la scomparsa di quella dimensione collettiva, all’interno della quale l’individuo – l’io lirico residente a Cologno Monzese – trovava una percezione di senso: si assiste pertanto ad un progressivo alleggerimento di peso specifico del soggetto, incapace sempre più di trovare una pòlis in cui interagire, e in cui interferire. Così, già in apertura, la Poesia lunga della crisi lunghissima (una sorta di proemio che abbraccia passato e presente) denuncia la parcellizzazione e la frantumazione – tragicamente benjaminiana – che deve scontare quella generazione, nonché implicitamente quelle successive, che aveva creduto possibile un «noi politico intravisto da tanti nel bagliore accecante e distorcente del ’68-’69» (Nota dell’autore): il presente è ridotto a tempo che prepara «non percepibili eventi» e la storia a un «tergicristallo […] impietoso» che «passa e ripassa»; del passato rimangono «calcinacci / […] libri a terra sparsi / e opuscoli su realtà provvisorie / che ci convinsero a metà», «schegge atomizzate», «discorsi sfracellati / filosofie annerite». Man mano che la raccolta procede il discorso poetico perde una sua complessità di costruzione e di ragionamento, per abbandonarsi con sempre maggiore frequenza a brevi lacerti e talora a giochi di parole.

Sicché è nella prima parte che troviamo i testi di maggiore ampiezza, volti ad abbracciare più piani del reale, e a mostrare, senza la concreta possibilità di scioglierle, le contraddizioni del mondo sociale: si vedano ad esempio Gennaio 1978, in cui è rievocata la figura di Scerbakov che «s’è strappato un orecchio / sull’orecchio aveva scritto / in modo indelebile / Omaggio al XXII Congresso del PCUS»; Fiabetta dei bisogni, in cui un lessico a tratti impoetico – «orecchio insitonizzato», «frenesia cessuale» – preannuncia l’epilogo («E per i bisogni veri? | Ghetti carceri e cimiteri»); Cielo scuro pesantissimo nuvolone, con un verso sempre più lungo, a dimostrazione di un ragionare strabordante la parola poetica; Leggendo «Cinema anni ‘70 il contemporaneo», il cui senso di sconfitta («Qualcosa di marcio in cui siamo dunque») coinvolge di fatto la società tutta, «dato che il povero ha paura, | anche quando ha studiato | perché ha studiato anzi,»); o Appunti di lettura, in cui ritorna l’evento fondatore da un lato («se m’avete ridotto la società a due ossa spolpate: | unità nazionale & lotta armata?») e il presente dall’altro («Tu lo riesci a immaginare ‘sto Marx che guarda la crisi | come una buona occasione | per dare uno scossone?»).

Nella seconda parte, già con 1986 Chernobyl («Il cavallo soffiò nell’aria» nell’incipit; con «Il cavallo aveva solo sbruffato» si apre la strofetta finale), i testi rapidi e taglienti, giocati sul rovescio dell’umorismo, diventano più numerosi, restituendo così l’impressione di una pari consapevolezza rispetto al passato, ma una minore fiducia nella capacità di scalfire e modificare il mondo. Già i titoli di alcuni componimenti sono emblematici, in quanto rimandano ad una lukácciana totalità perduta, senza però alcuna possibilità di ravvederla nei frammenti rimasti, contrariamente a quanto sostenuto da Lukács: ci si riferisce soprattutto a Frammento 1994 («I giovani nostri uditori | crescono nel dolore che noi provammo | quando leggemmo nei loro occhi | gli squarci del futuro che stavamo costruendo») e ad Altro frammento 1994 («Un tarlo sfrega nel solaio | silenzioso e ombrato del mio desiderio»), per citare gli esempi più evidenti. Gli altri testi di questa parte della raccolta manifestano la loro difficoltà di posizione proprio ricorrendo ad un registro di vago divertissement, sinonimo di marginalizzazione, e non di rifugio, di un io che non trova più alcun piano di costruzione per instaurare il noi della pòlis: così il lettore si trova davanti Sinistra oh cara, a dieta! (una sinistra «Sola con Prodi, ma senza approdi»), Sessantottini 1997 («qualcuno solo in scuole di periferia»; gli altri, «I più lesti finiti in massmedia»), Aprile 1968-Aprile 1998 (di un’«Italietta | guarnita d’amoretti e amaretti | alla Nanni Moretti»). Anche il mutamento di linguaggio – non più medio e comunicativo, ma medio e talvolta autoreferenziale – contribuisce a questa sensazione di smarrimento; anzi è proprio il lavoro stilistico a suffragare e a rendere plastico e concreto il contenuto esposto nei singoli versi.

Nel finale tuttavia i testi più impegnativi riprendono il sopravvento e non temono di affrontare discorsi «sulla democrazia, gli immigrati, la guerra» (Dieci anni dalla parte del torto. Lettera), di offrire Samizdat in morte di Cesare Sommariva prete operaio, di ricordare Pippa Bacca (Elezioni, astensionisti e giovani Peppe), di manifestare stupore nei confronti di cittadini invocanti «sicurezza | e ronde per città perbeniste finalmente» (Dei Pogrom italiani). Questi testi non dimostrano che la crisi è superata; soltanto che il soggetto, fosse anche “l’ultimo dei mohicani” (Poesia volantino. Inesistenti), non è ancora disposto ad abdicare al suo ruolo di scrivente (scrivente critico), così come hanno fatto invece i vari intellettuali à la page menzionati nei testi (Benni falsifica Ginsberg falsificato da eccetera, Cultura sfoderata, Pagina culturale di Repubblica, Procura di leggere, E la contestazione?, And the contestation?, ma anche Narratorio dopo Siena, in cui la rievocazione di Fortini in un convegno senese non coincide con la sua reale e sincera eredità culturale).

La raccolta però si struttura anche su un piano sincronico, come rivela da subito la data di composizione del testo di apertura, Poesia lunga della crisi lunghissima: 1978-2012. La ricostruzione ufficiale della recente storia italiana, seguendo un iter teleologico, vuole che da un certo momento in poi, gli anni Ottanta (subito dopo il ’78), il benessere diffuso abbia eliminato i contrasti, le sacche di disagio, gli emarginati, e soprattutto la guerra, la sopraffazione, la violenza conquistatrice. Abate, con il suo fare poetico (inteso sia in senso contenutistico che stilistico), mette in evidenza invece proprio le costanti tra un passato, in cui però c’era un’opposizione sociale, e un presente, in cui i misfatti si ripetono seguendo meccanismi già noti, senza tuttavia incontrare resistenza alcuna, giacché le voci critiche sono ridotte al silenzio, poiché giudicate fuori dal tempo: è su questo che prende corpo una riscrittura e una nuova narrazione (che rappresenti vinti e vincitori) dell’ultimo quarantennio.

Cielo scuro pesantissimo nuvolone si apre con una domanda tanto retorica, quanto angosciante: «Pioggia sulla città. | E se durasse mesi? | ininterrottamente? | E non volesse più andar via». Il seguito dell’opera dimostra proprio che quella pioggia non ha smesso mai. Le guerre di conquista ricalcano i rituali già sperimentati lungo tutto il corso del breve Novecento: a denunciarlo sono liriche come Kosovo («la guerra di sinistra!»), Su «Le Monde Diplomatique/il manifesto» novembre 2004 («E se il poeta oggidì dei mercenari | in Irak addetti agli assassini “sporchi” s’occupasse?»), Sulle storie («i partigiani ieri, i moribondi oggi a Baghdad | e nelle banlieus»), Ballata dei massacrati di Gaza («Alla rovine di Gaza l’ingrata | veniteci dopo | religiosamente silenti | come ad Auschwitz | da turisti svagati e compunti»), o Marzo 1821- marzo 2011, in cui la guerra coloniale in Libia e quella più recente contro Gheddafi non fanno registrare sostanziali differenze. Allo stesso modo nelle città gli emarginati, reclusi nei quartieri-dormitorio e costantemente minacciati, non sono scomparsi, e senza essere visti sopravvivono ad una condizione niente affatto migliore di quella degli emigranti anni Cinquanta (si pensi a «i Rom in quel di Ponticelli | che l’itala stirpe vuol menar sodo», Dei Pogrom italiani); mentre il problema ambientale di 1986 Chernobyl, lungi dall’essere relegato in un impermeabile passato, è prontamente rilanciato da Val Bormida. La diossina c’è e si sente, a dimostrazione di una continuità asfissiante, che diventa sempre più sinonimo di sconfitta.

Alla luce di questa situazione, la rimozione di un’opposizione sociale non è una naturale conseguenza degli eventi storici, ma l’ennesimo atto violento da parte dei vincitori; e il dover introiettare una simile versione della storia, in maniera unanime, è stato l’ultimo dazio, il più umiliante, che i vincitori hanno preteso. Eppure, come si diceva, è possibile «raccontare altrimenti gli avvenimenti fondatori»; e proprio la poesia è uno strumento privilegiato per farlo. Ennio Abate, con La pòlis che non c’è, lo mette subito a frutto, dichiarando in questo modo la sua indisponibilità a cedere la propria intelligenza, e conquistando spazio, proprio nella pagina poetica, per tutti coloro che ancora in qualche modo resistono. Solo così, forse, è possibile ricucire quei brandelli di dialogo, che sembrano potenzialmente dischiudere il percorso verso la riconquista della pòlis, della comunità, di un organismo sociale che permetta all’io di dire noi:

 

Ma c’è un po’ di gente che resiste.

Ah sì! E quanti siete? Pochissimi.

Noi che scioperiamo e quelli dei Cobas

che ci danno una mano. E gli altri?

Dormono sotto le coperte della democrazia.

Siete gli ultimi mohicani. Arrendetevi,

dai! Meglio mohicani che cani. Mai.

                                   (Poesia volantino. Inesistenti)

 

* Prefazione a Ennio Abate, La Pòlis che non c’è. Straccetti rovelli artigliate (1978 - 2012), Edizioni CFR 2013.

 

 

 

 

Ballata dei massacrati di Gaza

 

Fratelli umani

Israeliani

nostri ben educati carnefici

per l’amara e breve vita

che lasciammo

nell’unico modo da voi consentito

non incolpatevi.

 

Ad esploderci

correndo incontro al piombo fuso1

che per il futuro suo Bene

regalaste dai cieli a Gaza l’ingrata

fummo noi, da soli.

 

E voi Europei, brava gente

non affrettatevi.

Aspettate che il lavoro ben fatto

sia ultimato:

mamme e sorelle nostre

debitamente sventrate, i bimbi

fantocci impalliditi,

abbruciati i vecchi come tronchi

secchi,

gli arti troppo svelti dei giovani

divelti.

 

Alle rovine di Gaza l’ingrata

veniteci dopo

religiosamente silenti

come ad Auschwitz

da turisti  svagati e compunti.

 

Veniteci dopo e comprate

le reliquie di Gaza l’ingrata: 

i bambolotti insanguinati,

le coperte

da sporcizia escrementi e freddo

solidificate,

eppure intatte, di allora.

 

E le pietre, le povere fionde, le terribili

armi di distruzione di massa

con cui fingemmo di offendervi

classificatele meticolosamente

in lindi musei della memoria.

 

Imperdonati, a perire ci avete condotto.

Perdonatevi da soli, se potete.

 

(Ennio Abate - 18 gennaio 2009)

 

1 L’operazione militare «Piombo fuso» fu lanciata da Israele contro l’amministrazione di Hamas nella striscia di Gaza. Durò dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009.

 

 

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