Andrea Vento *
Il significato originale del termine latino conflictus, vale a dire "urto, scontro", esprime una delle sue accezioni più esaustive se riferito al contesto storico latinoamericano degli ultimi due secoli, vale a dire dal conseguimento dell'indipendenza della maggior parte degli Stati attuali ad oggi.
Infatti, conflitto nella nostra lingua, oltre alle generiche articolazioni figurative derivate direttamente dal latino, "urto, contrasto, opposizione", assume molteplici declinazioni in vari specifici campi, dalla sociologia alla psicologia arrivando sino al diritto. Pur tuttavia, nell'utilizzo quotidiano il concetto al quale viene fatto comunemente riferimento "combattimento, contesa rimessa alla sorte della armi, scontro armato, guerra", se da un lato può risultare calzante per alcune macroregioni terrestri, dall'altro assume caratteri restrittivi e limitanti per quanto riguarda l'America Latina.
Nel sub continente in questione, infatti, a fianco delle più tradizionali guerre fra entità statuali si sono verificati una gamma alquanto ampia di scontri, lotte e contrapposizioni. Dall'inizio del XIX secolo alle guerre d'indipendenza contro le potenze coloniali europee, si sono aggiunti i conflitti armati fra Stati latinoamericani, quelli fra questi ultimi e le potenze esterne all'area, gli interventi militari imperialistici, le guerre civili, le guerriglie organizzate e le rivoluzioni e, infine, un variegato ventaglio di conflitti interni agli Stati, non necessariamente armati.
Il retaggio storico
Nella quasi totalità dei Paesi latinoamericani, duecento anni di indipendenza non sono stati sufficienti ad affrancarsi dal retaggio di tre secoli di dominazione coloniale iberica, la quale, oltre a segnare irreversibilmente la storia dei popoli amerindi, costituirono, nel loro sonnolento scorrere, il crogiuolo nel quale si formarono la struttura economica e la stratificazione sociale multietnica lasciate poi in eredità agli stati formatisi con la decolonizzazione.
Le colonie latinoamericane, dal punto di vista produttivo vennero integrate nel sistema economico transatlantico in funzione dei bisogni e delle strategie delle società europee determinando un modello di "esogeneità economica", mantenuto anche successivamente all'indipendenza, soprattutto a seguito del ruolo fondamentale assunto dai ceti dominanti in tale modello economico.
Neanche gli apporti demografici, soprattutto europei, intervenuti successivamente riusciranno a modificarne in profondità né l'organizzazione sociale, né, tanto meno, i rapporti interni di dominazione politica ed economica che resteranno caratterizzati dall'egemonia delle oligarchie nazionali.
Un termine quest'ultimo che presenta la specificità di definire un gruppo sociale la cui rilevanza nei Paesi latinoamericani non si limita alla sua funzione economica ma assume significato e ruolo assai più ampio. Si tratta, infatti, di un ceto sociale, principalmente composto dai facoltosi discendenti dei primi colonizzatori ispanici e sin dalla sua formazione connesso all'economia globale in qualità di fornitore di beni primari, ma che non è corretto definire tout court come borghesia agro-esportatrice.
Secondo alcuni storici, infatti, si tratta di "una classe di governo consapevole e unita intorno ad un progetto nazionale", mentre secondo altri viene semplicemente definita come "un gruppo di notabili"[1], mettendo in evidenza, per esaustività di comprensione, anche la dimensione politica del ceto oligarchico.
Come ha rilevato lo storico Francois Bourricaud a proposito del Perù "l'esistenza di una asimmetria sociale" o di un "effetto di dominazione a favore di una minoranza" non è sufficiente a definire un'oligarchia, quanto invece "le disuguaglianze cumulative", vale a dire l'identificazione dei notabili sociali e notabili economici, quindi la confusione dei poteri, a generare l'oligarchia[2]. Al quale è necessario aggiungere la sedimentazione temporale: vale a dire la durata plurisecolare del fenomeno dettata dal suo carattere ereditario "patrizio" che attraversa le varie generazione delle famiglie.
Nella specificità storica, sociale, economica del subcontinente latino-americano lo storico Alain Rouquié arriva all'esaustiva definizione di oligarchia come "un gruppo di famiglie identificabili che concentrano nelle loro mani le leve decisive del potere economico, controllano direttamente o indirettamente il potere politico e si collocano al vertice della gerarchia del potere sociale in materia di autorità e prestigio"[3].
L'origine delle oligarchie latinoamericane affonda storicamente le proprie radici nella proprietà fondiaria, senza che ciò tuttavia spinga ad indurre che si tratti di "gruppi arcaici rappresentativi di settori precapitalistici rurali"[4], in quanto i reali connotati risultano quelli di una élite modernizzante che ha tratto la propria legittimità storica dal processo di inserimento dell'economia nazionale nel mercato mondiale. Inoltre, la formazione dell'oligarchia come ceto dominante e l'accettazione del suo ruolo sono risultate legate a doppio filo alla prosperità economica che il modello di sviluppo esogeno ha potuto o meno garantire nel corso secoli.
I componenti di questo ceto risultano soggetti economici dinamici, attenti alle innovazioni e alle trasformazioni in atto, nonché propensi all'utilizzo dei poteri pubblici per il conseguimento dei propri interessi.
Gruppi di famiglie facoltose abitualmente dedite ad un modello di consumo tipico delle classi dominanti europee che è stato, e viene tutt'ora, ostentato come elemento identificativo del loro status sociale egemone. Il quale, al pari della vita culturale, ha finito per rappresentare l'emblema di tali ceti eletti che, in quanto classi colte, hanno ottenuto una liceità approvata e contrassegnata proprio dal carattere universale del progresso.
Le oligarchie latinoamericane, come visto, orientate per vocazione storica all'esterno e legittimate in funzione dell'inclusione delle economie nazionali nel contesto della divisione internazionale del lavoro, non corrispondono pertanto né a semplici borghesie interne, né a borghesie compradore dedite in primis alla compra-vendita.
Si tratta invece di élite nazionali che assumono ruolo polifunzionale nelle varie tipologie di relazioni intessute con l'estero, le quali, nonostante la vocazione cosmopolita e la connessione con gli affari internazionali, non è appropriato ritenerle delle semplici rappresentanti di tali interessi. La dipendenza, volutamente ricercata, dai poteri sovranazionali ne costituisce infatti tratto saliente e distintivo, in quanto è attraverso la consapevole assunzione di ruolo di mediatore presso i potentati internazionali che le oligarchie riescono a massimizzare la propria potenza economica e politica e a consolidare il proprio ruolo dominante interno.
L'origine storica delle oligarchie
Il processo di colonizzazione vera e propria del subcontinente latinoamericano, seguito alla fase di esplorazione geografica e di conquista militare, ha determinato la formazione di nuove società multietniche, con diversa combinazione delle tre componenti, ispanica, amerindia e nera africana; nel cui contesto la posizione apicale è stata assunta dai bianchi e in particolare dai giovani nobili o alto borghesi che si erano trasferiti nel Nuovo Mondo nell'ottica di arricchirsi e valere di più (valer màs). Il modello organizzativo economico-politico-sociale introdotto si ispirava inevitabilmente a quello iberico del XVI secolo: il Feudalesimo.
A fianco delle terre attribuite per ricompensa ai soldati partecipanti alla conquista, la parte preponderante delle stesse, venne assegnata dalle corone iberiche in concessione temporanea a tali intraprendenti signorotti tramite l'istituto giuridico delle encomiendas. Vasti appezzamenti fondiari, comprensivi degli indios ivi risiedenti, che dovevano essere amministrati dagli encomenderos assolvendo ad alcuni obblighi: la difesa militare degli stessi, lo sviluppo dell'agricoltura da esportazione tramite le piantagioni, la riscossione dei tributi per conto della corona e la diffusione del cattolicesimo.
Le relazioni di vassallaggio alla base delle encomiendas, con lo scorrere dei decenni, finirono per allentarsi determinando la trasformazione delle concessioni temporanee in proprietà definitive dando vita a estesi latifondi, i quali, con l'indipendenza di inizio '800, sono stati mantenuti o addirittura ampliati. L'emancipazione delle colonie latinoamericane risultò quindi ristretta alla sola sfera politica, senza intaccare la dimensione culturale e quella sociale.
L'aristocrazia terriera, protagonista dell'indipendenza insieme alla borghesia illuminata, una volta scardinato il potere coloniale iberico, si impadronì del potere politico, sovente respingendo le richieste di giustizia sociale delle masse diseredate indigene e meticce. Le condizioni di queste ultime, talvolta, subirono addirittura un peggioramento in quanto con l'indipendenza le terre comunitarie indigene, che le corone iberiche avevano in qualche modo tutelato, finirono per subire il frazionamento e l'espropriazione da parte dei latifondisti.
La struttura sociale multietnica e disarticolata
Il conseguimento dell'emancipazione dal dominio coloniale, tramite una serie di conflitti armati combattuti contro Spagna e Portogallo fra il 1808 e il 1833, non comportò sostanziali mutamenti nella struttura sociale dei nuovi stati latinoamericani, salvo l'abolizione della schiavitù che, ad eccezione di Haiti dove venne ottenuta nel 1792 addirittura 12 anni prima dell'indipendenza dalla Francia[5], fu raggiunta in quasi tutte le repubbliche indipendenti dell'America continentale, dopo la conquista dell'indipendenza, nella prima metà del XIX secolo.
In Brasile le resistenze dell'oligarchia, la cui prosperità era in larga misura basata sul lavoro coatto degli schiavi nelle piantagioni di caffè[6], canna da zucchero e cacao[7], portarono alla sua abolizione definitiva solamente nel 1888[8], mentre la Spagna la concesse a Porto Rico nel 1873 e Cuba la ottenne nel 1886 come effetto della prima sanguinosa guerra di indipendenza contro la Spagna, la Guerra dei dieci anni (1868-1978).
Nella Isla grande diversi proprietari terrieri illuminati, peraltro avanguardia del movimento indipendentista, avevano già proceduto autonomamente alla liberazione degli schiavi, una parte dei quali finirono per impegnarsi nelle guerre di indipendenza contro la Spagna. Fra questi il ricco proprietario terriero Carlos Manuel de Céspedes che, dopo aver concesso la libertà ai suoi schiavi il 10 ottobre 1868, procedette alla fondazione un esercito di liberazione nazionale dando avvio, guidandola militarmente, alla Guerra dei dieci anni, la quale registrò tuttavia la vittoria spagnola. Gli indipendentisti cubani dovettero affrontare altre due guerre, la Piccola guerra (1879-80) e la Guerra d'indipendenza cubana (1895-98) che, seppur quest'ultima quasi vinta ne venne vanificato l'esito dall'intervento militare statunitense del 1998[9] portando ad un'indipendenza solamente formale nel 1902, facendo divenire Cuba di fatto un Protettorato di Washington fino all'effettiva indipendenza raggiunta con il trionfo della rivoluzione castrista del 1° gennaio 1959.
Gli ex schiavi di origine africana, presenti soprattutto nei Caraibi e nelle regioni atlantiche a clima tropicale, una volta diventati liberi finirono inevitabilmente in basso nella scala sociale, al pari delle popolazioni amerindie negli stati in cui erano ancora presenti, soprattutto nell'area istmica e andina, mentre al centro della scala sociale si collocarono principalmente i bianchi di origine europea di estrazione popolare, mentre al vertice la ristretta oligarchia creola, vale a dire i discendenti dei primi colonizzatori iberici di origine nobile e alto-borghese.
In base alle interpretazioni di alcuni storici, l'eterogeneità delle società degli stati latinoamericani considerata esclusivamente sulla scorta delle disparità socio-economiche, viene ricondotta alla coesistenza di due poli: uno moderno e l'altro tradizionale.
Secondo lo storico Alain Rouquié, la situazione risulta, invece, alquanto più complessa poiché, se è possibile concordare sulla presenza di due distinte società all'interno degli stati latinoamericani, non è corretto limitarsi ad evidenziare la condizione di arretratezza di quella tradizionale rispetto all'altra. Infatti, è opportuno rimarcare che il "dualismo sociale" costituisce storicamente un elemento strutturalmente stabile di tali Paesi. Se il polo definito tradizionale ha, da un lato, indubbiamente assunto posizione subalterna rispetto a quello moderno, dall'altro ne è tuttavia risultato strutturalmente complementare. Quest'ultimo peraltro non ha mai teso a trasformare in senso modernizzante il primo perché la sua esistenza si è rivelata fondamentale per il mantenimento del suo stesso status dominante. La presenza storica di settori non sviluppati che forniscono un "esercito" di manodopera a buon mercato o la permanenza di sacche urbane di lavoro sommerso e informale, costituiscono fenomeni storicamente consolidati spiegabili tramite il dominio del polo moderno su quello tradizionale.
Dal punto di vista storico, secondo Rouquié, il rapporto dialettico delle strutture di dominazione è assai più efficace ad interpretare la disarticolazione delle società latinoamericane, rispetto alla presunta contrapposizione fra il polo moderno e quello tradizionale. In sostanza, i gruppi dirigenti de los de arriba, letteralmente "quelli di sopra", sulla scorta della continuità storica e della staticità delle strutture sociali, nel corso dei secoli hanno al contempo assunto sia aspetti moderni, sia atteggiamenti arcaici: infatti, se da un lato si sono posti all'avanguardia nel progresso tecnico ed economico, dall'altro sono risultati senza dubbio socialmente e politicamente arretrati, essendo stati disposti a mantenere il potere e i rapporti di dominio ricorrendo anche alla forza brutale.
Possiamo pertanto affermare come la fusione di valori e comportamenti dualizzati derivi dal ruolo assunto da questi ceti sociali nel contesto del "sistema globale", in quanto, essendo garanti della dominazione esterna, sia politica da parte dell'imperialismo, che economica delle multinazionali, si sono accaparrate le necessarie legittimazioni esterne per garantirsi la propria dominazione interna.
Le oligarchie modernizzanti sono pertanto risultate al contempo tanto moderne sul piano delle idee e dei gusti, quanto legate a tradizionali rapporti di dominio di stampo patrimoniale.
Rouquiè arriva quindi alla conclusione che "Le risorse della modernità e quelle della tradizione sono utilizzate insieme per il mantenimento dell'ordine e dei privilegi che nascono dalla 'disarticolazione' dei rapporti sociali".
Da questo quadro ne consegue che, dall'indipendenza sino ai giorni nostri, le società latinoamericane, senza soluzione di continuità, sono risultate caratterizzate da profondi squilibri al loro interno, con strutture politiche alquanto fragili, con modelli economici sostanzialmente postcoloniali basati sull'estrattivismo e sulla penetrazione straniera, esposte ai condizionamenti geopolitici e, pertanto, quasi perennemente attraversate da forti tensioni politiche e sociali puntualmente sfociate in una serie di conflitti interni ad ampio spettro.
Le guerre d'indipendenza
Dopo 3 secoli di dominazione coloniale europea, all'inizio del XIX sec. le aspirazioni indipendentiste, incarnate dalla figura di Simon Bolivar "El libertador", sorte nelle colonie del subcontinente, incontrando la prevedibile opposizione delle relative madrepatrie (Spagna e Portogallo, in primis), sfociarono, per l'ex impero spagnolo, in una serie di guerre combattute fra il 1808 e il 1833, sotto la guida militare dello stesso Bolivar e di Josè di San Martin in Sud America e di Miguel Hidalgo in Messico, il cui esito portò alla liberazione dal giogo coloniale.
La carta politica del subcontinente non assunse, tuttavia, l'assetto attuale in quel contesto, in quanto i soggetti statuali divenuti indipendenti hanno successivamente subito alcune variazioni territoriali, talvolta anche molto significative, come il ridimensionamento del Messico a seguito della guerra con gli Stati Uniti del 1946-48 che portò alla perdita di tutti i territori messicani a nord del Rio Bravo.
In particolare, facciamo riferimento alla "Grande Colombia" nata nel 1919 dal progetto politico della "Patria grande" di Bolivar, vale a dire di una "America Latina libera e unita" che comprendeva gli attuali Venezuela, Ecuador, Colombia e Panama, quest'ultima all'epoca provincia istmica della Colombia dalla quale si separò su regia statunitense nel 1903 e dove, di lì a poco, venne realizzato l'omonimo canale (1907-1914). Grande Colombia che avrà tuttavia una effimera durata, in quanto l'emergere di egoismi localistici, da parte delle varie oligarchie, portò nel 1830 alla disgregazione della stessa in 3 stati e al ritiro dalla vita politica del suo ideatore e presidente, Simon Bolivar.
Altra entità statuale, la Repubblica Federale del Centro America, comunemente nota come Federazione Centroamericana, formatasi al momento dell'indipendenza nel 1823 nell'area istmica, sul territorio degli attuali Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica, ebbe anch'essa vita relativamente breve, visto che, a seguito della guerra civile interna finì per dissolversi, di fatto, tra il 1838 e il 1940 a causa della graduale secessione dei 5 stati e ufficialmente nel 1841.
Al termine delle guerre d'indipendenza ispano-americane che comprendevano anche quelle di Haiti contro la Francia (1791-1804) e la assai meno cruenta del Brasile con il Portogallo[10], rimasero sotto il dominio spagnolo solamente le colonie caraibiche di Cuba e Porto Rico fino alla guerra Ispano-americana del 1898 che, come detto, portò solamente ad una indipendenza formale.
* Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati. Atti del seminario di Brescia del 28 settembre 2024 "No alla guerra e alle armi nucleari".
[1] N. Botana, El Ordem cinservador. La politica argentina entre 1880 y 1916. Sudamericana, Buenos Aires 1977
[2] F. Bourricaud, Remarques sur l'oligarchue peruvienne, in "Revue francaise de sciense politique", XVI, agosto 1964, p. 675
[3] A. Rouquié, L'America Latina, Bruno Mondandori, Milano, 2000, pp. 97-98
[4] A. Rouquié, L'America Latina, Bruno Mondandori, Milano, 2000, p. 98
[5] la Rivoluzione haitiana fu una rivolta per la liberazione dalla schiavitù e contro il colonialismo scoppiata nel 1791 ad opera di schiavi liberati contro il governo coloniale francese che si concluse nel 1804 con il raggiungimento dell'indipendenza. Diventò all'epoca l'unico stato che aveva conquistato l'indipendenza a seguito di una rivolta di schiavi e che fosse governato da non bianchi
[6] Schiavitù e sistema delle piantagioni
https://www.worldhistory.org/trans/it/2-1837/schiavitu-e-sistema-delle-piantagioni/
[7]Il cacao è un bene coloniale
https://www.cioccolato-quetzal.it/it/il-cacao-e-un-bene-coloniale.html
[8] Abolizione della schiavitù 1888
https://storicamente.org/emigrazione-femminile-in-brasile_link4
[9] L'episodio del vascello statunitense Maine esploso nella baia dell'Havana, venne utilizzato dagli Stati Uniti come classico casus belli per dichiarare guerra alla Spagna e vanificare la trentennale lotta indipendentista cubana. la Guerra ispano-americana del 1898, si concluse in pochi mesi con la vittoria degli Stati Uniti, i quali tramite il Trattato di Parigi ottennero oltre che il controllo di Cuba, l'annessione di Guam, di Porto Rico e delle Filippine, le quali ottennero l'indipendenza solo nel 1946.
[10] Pernambuco fu la prima provincia brasiliana a separarsi dal Regno del Portogallo. Il 29 agosto 1821 nacque un movimento armato contro il capitano generale Luis di Rego Barre —l'oppressore della Rivoluzione Permeabucana —, che sfociò nella formazione della Giunta di Goiana , rivelatasi vittoriosa con la resa senza condizioni delle truppe portoghesi firmata il 5 ottobre dello stesso anno, in occasione della Convenzione di Beribe, che sancì l'espulsione delle armate portoghesi dal territorio pernambucano. Il movimento costituzionalista del 1821 è considerato il primo episodio dell'indipendenza del Brasile la quale venne poi proclamata nel 1822 ma che fu riconosciuta dal Portogallo, dietro il pagamento di 2 milioni di sterline, con l'accordo passato alla storia come Trattato di Rio de Janeiro del 1825.