Salvatore Tinè *
Questo numero della rivista “Marx Ventuno” mi pare molto importante per vari motivi. In primo luogo, per gli elementi di informazione e di riflessione sullo stato attuale del movimento comunista internazionale contenuti nel rapporto del gruppo di ricerca della Accademia Marxista dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali. E’ un rapporto interessante perché la riflessione sullo stato dei principali partiti comunisti nel mondo contemporaneo e quindi sui modi e le forme anche nuove e originali in cui viene ridefinendosi l’unità del movimento comunista ne ripercorre le origini e la storia. Il centenario della nascita del Komintern caduto nel 2019 è stato per tanti partiti comunisti l’occasione per riflettere su una fase della loro storia per molti aspetti cruciale e decisiva.
E’ stato infatti proprio negli anni della nascita e della formazione dell’Internazionale comunista, come partito mondiale centralizzato della rivoluzione proletaria internazionale, ma imperniato sulla funzione dirigente del partito e dello stato sovietici, che il movimento comunista ha acquisito già nel corso degli anni ’20 e poi nel decennio successivo certo in uno dei periodi più drammatici e convulsi dell’intera storia mondiale, alcuni dei tratti caratteristici destinati a segnarne l’intera storia.
Come si rileva nel Rapporto dell’Accademia marxista cinese, questa forma organizzativa del partito mondiale centralizzato assunta dall’unità movimento comunista in quel periodo è stata oggetto di una approfondita riflessione critica e anche di giudizi e valutazioni diversi tra loro nel corso delle molte iniziative e dibattiti organizzati dai partiti comunisti in occasione del centenario del Komintern. Ed è facile cogliere l’enorme attualità di questa riflessione, in una fase in cui l’unità di tutto il movimento viene definendosi lentamente ma progressivamente in forme molto più complesse e differenziate che nel passato. Da un lato si sottolinea l’impulso potente impresso dal Komintern, sull’onda della Rivoluzione d’ottobre, al movimento di liberazione nazionale delle nazioni e dei popoli oppressi e conseguentemente il carattere per la prima volta effettivamente mondiale assunto dalla lotta del proletariato internazionale contro il dominio del capitalismo e dell’imperialismo. Dall’altro lato si rileva come non sempre questo più vasto e complesso carattere assunto dal movimento comunista trovò nella forma organizzativa e politica rigidamente centralizzata del Komintern una adeguata capacità di espressione e di articolazione. In questo senso mi pare tanto discutibile quanto interessante e certamente meritevole di approfondimento storico e politico il giudizio del co-presidente del Partito Comunista degli Stati Uniti, Joe Sims, riportato nella relazione del gruppo di ricerca cinese secondo cui la varietà e la diversità del movimento operaio in ciascun paese rendeva impossibile la centralizzazione dell’organizzazione e del processo decisionale. Un giudizio che sembra in parte condiviso dal gruppo di ricerca cinese che non manca di soffermarsi anche sui punti più controversi della politica del Komintern verso i partiti socialdemocratici e più in generale sugli “errori” di una certa impostazione di “sinistra” legata all’analisi della natura della crisi del capitalismo mondiale non esente talvolta da interpretazioni “catastrofiste”. Emerge tuttavia nel complesso un giudizio sull’esperienza del Komintern assolutamente positivo. In tal senso io credo che via stata al di là di limiti ed errori, una sostanziale linea di continuità nella storia del Komintern e che perfino la strategia del fronti popolari, certo il punto più alto della storia dell’Internazionale comunista, sarebbe incomprensibile senza la giusta analisi della crisi del capitalismo mondiale alla fine degli anni ’20 e dei processi di fascistizzazione della democrazia borghese e della stessa socialdemocrazia che l’Internazionale aveva posta alla base della “svolta di sinistra” al VI Congresso.
La conquista del potere da parte dei comunisti in Cina nel 1949 e il gigantesco patrimonio di lotta e di esperienze maturato lungo 70 anni di storia della Repubblica Popolare Cinese non sarebbero state possibili se il Komintern nel corso dei suoi 25 anni di vita non avesse gettato le basi politiche, ideologiche, organizzative del movimento comunista e della sua unità internazionalista. Ma già il suo scioglimento nel maggio del ’43, non molti anni prima della vittoria dei comunisti in Cina, apriva una nuova fase della storia del movimento comunista internazionale, che avrebbe visto dopo la sconfitta della Germania nazista ad opera dell’Urss di Stalin e poi la nascita della Repubblica Popolare Cinese la formazione di un vero e proprio sistema socialista mondiale. Non v’è dubbio che la rottura tra Cina e URSS sia stata uno dei fattori della crisi e poi della fine di tale sistema. L’unità del movimento comunista internazionale è un elemento fondamentale nel processo di avanzamento del socialismo in tutto il mondo.
Oggi la Cina popolare trasformatasi sotto la direzione del Partito Comunista in una grande potenza mondiale è un fattore fondamentale nel processo in atto di ricostituzione di un movimento comunista internazionale, la cui unità e ragion d’essere appaiono tanto più attuali di fronte alla crisi dell’imperialismo americano e della stessa globalizzazione neo-liberale. Sono le ragioni di un nuovo, rinnovato universalismo comunista nel solco della tradizione del Komintern e dell’internazionalismo proletario ad essere oggettivamente rilanciate da questa crisi. La teoria secondo cui l’unificazione del mercato mondiale, conseguente al crollo dell’Urss e delle democrazie popolari, avrebbe condotto al superamento delle contraddizioni inter-imperialistiche, ovvero alla formazione di un unico, grande impero globale attorno all’egemonia americana si è dimostrato totalmente sbagliata. Nel contesto della competizione globale, la crisi del sistema capitalistico mondiale in realtà acutizza le contraddizioni inter-imperialistiche e come la gestione dell’emergenza coronavirus sta dimostrando proprio in questi giorni rischia di far saltare le basi stesse su cui è costruita l’Unione Europa, come polo imperialista unificato alternativo all’imperialismo americano.
Il progressivo sviluppo dell’unità del movimento comunista internazionale ha tuttavia un carattere ineguale e contraddittorio.
Il rapporto dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali mette molto drammaticamente in evidenza la condizione di estrema difficoltà in cui versano molti partiti comunista dell’Europa occidentale ma anche gli importanti segnali positivi di ripresa politica ed organizzativa come i successi del Partito del Lavoro nel Belgio. Non v’è dubbio che la condizione perfino drammatica di debolezza politica e ideologica della maggior parte dei partiti comunisti dell’Europa occidentale discenda, come opportunamente rileva Andrea Catone nel suo editoriale, da un deficit di elaborazione strategica. A ragione Andrea sottolinea a questo proposito la necessità di studiare a fondo l’esperienza del trentennio successivo al crollo dell’Urss e delle democrazie popolari insieme agli errori soggettivi dei gruppi dirigenti e ai limiti oggettivi che l’hanno scandita come condizione fondamentale per una ripresa sia ideologica ed organizzativa che di capacità di iniziativa politica di massa dei partiti comunisti nell’Occidente capitalistico. Ma tale studio richiede un rilancio e uno sviluppo della teoria marxista. Abbiamo in questo senso molto da imparare dall’esperienza cinese. Lo sviluppo gigantesco che la Cina popolare ha conosciuto in tutti i campi, da quello economico e sociale a quello politico e culturale, a partire dall’inizio della politica di riforme e apertura ha impresso uno straordinario slancio anche al progresso e alla diffusione del marxismo a tutti i livelli. Lo studio del marxismo in Cina, delle sue linee di tendenza e di ricerca è molto importante per tutti noi, per i comunisti di tutto il mondo.
È interessante notare come questo sviluppo anche creativo e originale della teoria marxista rifletta non soltanto quello che i comunisti cinesi chiamano il socialismo con caratteristiche cinesi, ovvero le peculiarità nazionali della transizione di lungo periodo ad una nuova formazione sociale in atto in quel paese, ma anche l’oggettiva dimensione planetaria e internazionale dell’impetuoso sviluppo cinese. Si pensi alla gigantesca lotta contro la povertà in Cina e all’enorme impulso che viene da essa alla lotta per sradicare la povertà nel mondo attraverso politiche di cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Di fatto è la prospettiva di una nuova governance globale che si apre con essa e insieme con essa una “teoria dello sviluppo dell’umanità” secondo la definizione adottata da Lei Ming e Zou Pei nel saggio dedicato a questi temi pubblicato in questo numero della rivista.
La lotta contro la povertà e gli straordinari successi che con essa ha conseguito il Partito Comunista Cinese gettano le basi sia sul piano della teoria che su quello della pratica per la definizione e la costruzione di una comunità umana con un futuro condiviso. Non a caso nella lotta contro la povertà, Xi Jin Ping coglie un momento dell’essenza stessa del socialismo, così come essa si definisce in quella che i comunisti cinesi definiscono la sua “fase primaria”. Bella a questo proposito la sua definizione del socialismo ripresa da Zou Pei e Lei Ming: “L’essenza del socialismo- vivere insieme, costruire insieme, godere insieme- riguarda anche la riduzione della povertà.” Nella sua fase primaria il socialismo come sistema socialista di mercato è caratterizzato dunque da questo equilibrio complesso e dinamico tra le esigenze della costruzione comune e l’esigenza di impedire che una assolutizzazione unilaterale di questo aspetto del socialismo conduca ad uno sviluppo ineguale e quindi ad un inasprimento delle contraddizioni e dei conflitti sociali. Il marxismo come concezione integrale dell’uomo e del mondo, come concezione della totalità dello sviluppo umano è la base teorica e metodologica del processo di costruzione del socialismo in Cina in questa fase.
Mi pare che in forme e modi molto diversi, adeguati alla fase primaria del socialismo, il marxismo cinese riprenda e sviluppi quello che fu l’obiettivo della rivoluzione culturale, ovvero coniugare in una visione integrale, non economicistica, economia e politica, teoria e prassi, la lotta per sviluppare la produzione con quella per sviluppare la lotta di classe per il socialismo, sia pure con una certamente molto maggiore accentuazione della necessità della crescita, dello sviluppo sociale, comune delle forze produttive, potremmo dire il fattore oggettivo e quello soggettivo del processo di transizione al socialismo: “Dobbiamo trovare - scrivono Zou Pei e Lei Ping - un equilibrio tra equità ed efficienza, sopravvivenza e sviluppo, economia e politica, e sforzarci di unificare organicamente i diritti e i doveri dei soggetti dello sviluppo, l’impulso e gli obiettivi del processo, il processo e i risultati del progetto di riduzione mirata della povertà.” Processo e progetto, costruzione delle basi economiche oggettive del socialismo e insieme sviluppo dei soggetti sociali e politici chiamati a guidare, e pianificarne in modo consapevole gli obiettivi sono due momenti dialetticamente connessi.
Abbiamo, credo, anche noi comunisti dei paesi occidentali molto da imparare da questa visione della lotta per il socialismo cinese che viene elaborandosi e definendosi via via progressivamente lungo un processo di trasformazione che non ha precedenti nell’intera storia dell’umanità. Ma si tratta di una visione che ha alle spalle un lungo processo di apprendimento che ha scandito la storia dei partiti comunisti e quindi quella delle maggiori esperienze di costruzione di una società e di una economia socialiste nel XX secolo. Il saggio di Giacchè mi pare in tal senso un contributo teorico importante. Il rapporto tra economia e politica, tra pianificazione e mercato è un rapporto dialettico, di azione reciproca che può essere compreso solo sulla base della sua natura di classe. La vigenza della legge del valore, non necessariamente legata alla produzione capitalistica ma caratteristica della sola produzione mercantile, secondo una fondamentale tesi di Stalin, può essere integrata dal ruolo sociale e politico della pianificazione e così piegata alle esigenze e agli obiettivi di lungo termine del potere politico della classe operaia e delle masse popolari.
Il marxismo, infatti inteso come una teoria in sviluppo fondata su un’interazione permanente con le conquiste economiche e sociali della pratica sia sul terreno della crescita economico-produttiva che su quello della costruzione di una società armonica diventa, nell’esperienza cinese, un’arma potentissima anche per la costruzione di un mondo effettivamente globale e interdipendente fondato sul principio dell’eguaglianza tra i popoli e gli stati e non solo sul principio liberale dell’indipendenza e dell’eguaglianza tra gli individui. L’idea potentissima che ha ispirato i fondatori del Komintern di una rivoluzione globale ritrova qui sia pure in modi e forme diverse, la sua attualità storica e politica. Pur tenendo ferma la teoria dell’inevitabilità della guerra, Il VII Congresso del Komintern, individuava di fronte alla minaccia globale dell’imperialismo e del fascismo, nella lotta per la pace un momento fondamentale della lotta di classe internazionale per il socialismo. Tale lotta fu uno degli obiettivi della strategia dei fronti popolari, tesa alla costruzione anche su scala mondiale di un largo fronte popolare in grado di sbarrare la strada alla reazione e al fascismo e quindi di determinare condizioni più avanzate nel processo di avanzata del socialismo a scala mondiale.
Oggi come allora si tratta di coniugare dialetticamente la lotta di classe internazionale e la lotta contro i pericoli di guerra resi sempre più gravi dagli orientamenti dei circoli più aggressivi dell’imperialismo, nella consapevolezza che il sistema capitalistico e il sistema socialista nonostante l’irriducibilità del loro antagonismo dovranno coesistere tra loro in modo più o meno pacifico per una lunga fase storica. Ma tale coesistenza non esclude affatto che la lotta tra le forze del capitalismo e quelle del socialismo a scala mondiale non potrà acutizzarsi ed intensificarsi, in virtù della stessa inevitabilità della lotta di classe. La conclusione della relazione dell’Accademia cinese di Scienze sociali mi pare molto significativa a questo proposito: “Sotto i colpi dell’epidemia, il socialismo come ideologia e sistema che sostituisce il capitalismo, ha ricevuto sempre più attenzione e fiducia nel mondo. Tuttavia la differenza tra le due forze è netta, i difensori della borghesia e del sistema capitalistico non si fermeranno. Essi inevitabilmente intensificheranno la loro resistenza e reprimeranno il movimento socialista; la situazione dei partiti comunisti in tutti i paesi sarà ancora più difficile. Anche se la lotta tra i due sistemi è favorevole al socialismo, è difficile che possa cambiare la coesistenza tra i due sistemi a lungo termine.”
Al pari della transizione al socialismo, anche la costruzione di un mondo globale, di un futuro comune condiviso dalla comunità del genere umano sarà un lungo processo, scandito non solo dalle stesse dinamiche della coesistenza e della lotta tra il capitalismo e il socialismo ma anche dalla diversità delle culture e delle civiltà come dalle stesse differenze e peculiarità storiche e nazionali di ciascuno stato o paese. I saggi di argomento teorico e filosofico di Wu Xiaoming e di Ai Siln e Qu Weijie mi pare che contengano da questo punto di vista spunti di grande interesse per una corretta e adeguata visione materialistica e dialettica dei processi di globalizzazione, proprio nella misura in cui evidenziano la nozione di storicità come un elemento fondamentale del metodo marxista. Essi testimoniano dell’enorme progresso compiuto dalla ricerca teorica sul marxismo come concezione generale, storica e dialettica insieme, dell’uomo e del mondo, in Cina.
Di nuovo è il tema del rapporto tra economia e politica, ovvero, nei termini del saggio di Wu Xiaoming, la questione del nesso organico che lega nella dottrina di Marx la sua concezione materialistica della storia alla sua filosofia politica. Quest’ultima viene ridefinita da Wu Xiaoming a partire dalla formidabile critica di Hegel ad ogni forma di idealismo soggettivo e trascendentale. Una critica che sta a fondamento come lo studioso cinese mette molto bene in evidenza della stessa critica filosofico-politica di Hegel all’individualismo liberale e conseguentemente alla sua concezione contrattualistica dell’origine e della natura dello stato moderno. Mi pare che sia molto interessante questa forte valorizzazione da parte dello studioso cinese della dimensione politica del pensiero di Marx indagata a partire dalla centralità della dimensione statuale nel pensiero di Hegel. Lo stato è infatti in Hegel l’elemento fondamentale della definizione della storicità dell’essere sociale. Non a caso è proprio nella nozione di storicità che consisterebbe l’elemento di continuità più profondo tra la dialettica di Marx e quella di Hegel. In Hegel e Marx l’individuo è un risultato, un prodotto del processo storico e non un suo presupposto. “Hegel - scrive Wu Xioming - discerne con decisione il totale errore teorico derivante dalla considerazione dell’individuo come elemento atomistico e distrugge una volta per tutte la falsa premessa su cui poggiano tutti i tipi di ‘teoria contrattualistica’.” Molto correttamente Wu Xiaoming rileva la convergenza della prospettiva hegeliana con quella marxista, che emerge particolarmente nella critica di Marx al contrattualismo di Rousseau, ovvero al carattere illusorio della sua pretesa di fondare il legame tra gli individui sul “contratto sociale”. Ma se l’idealismo trasforma la realtà storico-sociale nell’autoattività di una “sostanza-soggetto” Marx definisce invece come “soggetto” soltanto la realtà storico-sociale.
Da una critica dell’individualismo e del contrattualismo liberale muove anche il saggio di Ai Silin e Qu Weije sulla dottrina occidentale dei diritti umani. In saggio infatti è una critica è una critica della tesi della superiorità dei diritti umani sulla sovranità nazionale e quindi della stessa nozione di universalità esclusivamente riservata al modello culturale occidentale. Ai Silin e Qu Weije sostengono l’incompatibilità di tale tesi con i principi di eguaglianza tra stati sovrani e di non interferenza nei loro affari interni. Interessante la critica ad Habermas, il quale sostiene che il divieto di interferire negli affari interni sarebbe controbilanciato dallo sviluppo della tutela internazionale dei diritti umani.
Ai Silin e Qu Weije risalgono alle origini medievali della nozione di “diritto” e quindi alla nozione tomista di “legge naturali”. L’idea è che l’individuo non abbia un’origine storica ma sia posto dalla natura stessa. Ai Silin e Qu Weijie mettono in evidenza il sostanziale naturalismo di tale concezione del diritto. Una concezione che trascura il carattere storico del genere umano, spogliando nello stesso tempo l’individuo di ogni determinazione storica e trasformandolo così in un agente morale, in un soggetto morale metafisico. In questo senso mi pare che il saggio di Ai Silin e Qu Weije converga con la tesi della storicità dell’essere e dell’essere sociale al centro del saggio di Wu Zaoming sulla filosofia politica di Marx. Quale lettura allora della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 1948? Ai Silin e Qu Weije sostengono che il principio della superiorità dei diritti umani sulla sovranità nazionale è un’autoconfutazione degli stessi principi liberali di libertà e di eguaglianza. Mi pare molto interessante la tesi di Ai Silin e Qu Weijigie secondo cui vi è una complementarità tra diritti individuali e sovranità nazionale. La tesi della complementarità viene argomentata dai due autori a partire dalla teoria del contratto di Hobbes, oggetto dai due autori cinesi di una straordinaria lettura. Proprio il godimento effettivo dei diritti umani presuppone l’autorità sovrana, senza la garanzia della quale la loro vigenza finisce per configurarsi come un dato astratto, puramente giuridico-formale. Si critica così la prospettiva funzionalista secondo cui l’autorità sovrana è destinata ad indebolirsi con la globalizzazione. Quest’ultima in realtà pone immediatamente il problema di ridefinire in concreto una governance politica globale, una direzione politica dei processi che non può non passare attraverso il ruolo degli stati nazionali. In realtà, sostengono Ai Silin e Qu Weijie, anche nel contesto della globalizzazione, gli stati nazionali restano le istituzioni più adatte a garantire i diritti umani. La politica continua quindi ad avere un ruolo fondamentale negli stessi pure impetuosi processi di integrazione e unificazione economica e culturale che caratterizzano la contemporaneità del mondo globale, a dispetto delle letture economicistiche e neo-liberali della globalizzazione che tanta influenza hanno avuto soprattutto negli anni precedenti la crisi del 2008 in certi ambienti della sinistra radicale che allora si definiva “no-global” o “neo-global”.
In conclusione, credo che queste due saggi contengano non solo elementi molto importanti per la definizione, anche su un piano teorico e filosofico, di un moderno universalismo comunista, diverso e alternativo ad ogni forma di universalismo aggressivo, di astratto “cosmopolitismo” per dirla con Gramsci, ma anche alcuni lineamenti di una prospettiva di unificazione del movimento comunista internazionale in grado di articolare dialetticamente ovvero nei termini di una universalità concreta, determinata nelle sue forme sempre mutevoli e storicamente specifiche, non solo economiche ma anche politiche, quel progetto comunista di emancipazione dell’intero genero umano oggettivamente rilanciato dal processo di globalizzazione capitalistica e insieme dalle sue contraddizioni.
* Intervento svolto in occasione della presentazione del fascicolo di gennaio-febbraio 2021 della rivista “Marx Ventuno”.