Alessandro Portelli*
Avevo cercato Bruno Eluisi per il mio libro L’ordine è già stato eseguito, perché mi raccontasse di suo fratello Aldo, militante antifascista ucciso alle Fosse Ardeatine. Ma Bruno Eluisi aveva anche memorie sue, di quando a 23 anni lo avevano mandato a fare la guerra in Russia. «Io so’ partito per la Russia l’11 luglio del ’41 – raccontava – la prima nevicata l’ha fatta a ottobre del ’41; e non ci avevamo niente. Poi so’ arrivati gl’indumenti invernali; con una compagnia fucilieri che eravamo 153-154 persone, so’ arrivati sei cappotti con pelliccia. Naturalmente i cappotti chi se l’ha presi? Gli ufficiali. E che, li lasciavano ai soldati? Poi la compagnia fucilieri ciànno dato 153 preservativi. I muli so’ morti tutti pe’ strada perché al freddo non hanno resistito».
Non so se i senatori più o meno di sinistra che hanno votato, con la destra, senza neanche starci a pensare l’istituzione di una «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini» per «conservare la memoria dell’eroismo» degli alpini nella battaglia di Nikolajewka che durante la campagna di Russia «sapevano quello che facevano».
Due parole spiccano in questo inusitato atto di revisionismo storico: «sacrificio» ed «eroismo». Mi paiono giuste tutte e due.
È giusto parlare di sacrificio, sia per ricordarsi le persone sacrificate, sia per ricordarsi chi li ha traditi e sacrificati. I soldati italiani caduti nell’invasione nazifascista dell’Unione Sovietica non erano lì perché ci volevano stare, ma perché ce li avevano mandati, come bestie al macello. Ricordarci delle vittime senza una sillaba sulla catena di comando, dalle gerarchie militari al Duce, che li ha spediti a morire congelati o a farsi ammazzare al fianco dell’esercito più genocida della storia (che li trattava col disprezzo riservato a una razza inferiore), non significa fare memoria degli eroi ma cancellare la memoria dei criminali che li hanno fatti morire.
Anche Vera Simoni l’avevo cercata perché mi parlasse di suo padre, il generale Simone Simoni, finito alle Fosse Ardeatine perché non approvava quella guerra. Ma anche lei aveva visto quella guerra lontana, nell’impatto sul suo stesso spazio quotidiano.
«Io ero all’università al principio della guerra; mio fratello era al fronte, perché nonostante papà non credesse nella guerra però era il dovere e va bene. Allora a un certo momento ho visto a un padiglione dell’università che era stato adibito a ospedale di guerra, io ho visto affacciati dei giovani bellissimi, sanissimi, perché li potevo vedere che erano in pigiama e li vedevo da giù.
E questi mi hanno chiamato perché gli impostassi una lettera. Dico sì, ma senz’altro; però avevo risentimento, perché dicevo, mio fratello sta al fronte e sta combattendo, ma voi cosa fate qui? Non ho detto una parola, però lo pensavo. A un certo momento si sono messi a sedere sul davanzale per tirarmi queste buste, queste lettere da impostare: erano tutti senza piedi, perché erano stati mandati al fronte russo con le scarpe da ginnastica, perché l’Italia non aveva il cuoio; quindi loro non avevano neanche visto il nemico: i piedi congelati. Ora queste cose bisogna che si sappiano; per questo mio padre combatteva, combatteva contro questa situazione, perché lo sapeva». Questo dunque è il «sacrificio». Ma anche eroismo è una parola giusta. In tutta la sciagurata invasione della Russia, l’eroismo è consistito soprattutto nel cercare di restare vivi, e meritano rispetto, ammirazione e compassione sia quelli che ci hanno perso la vita, sia quelli che sono tornati con addosso ferite incancellabili. Nella battaglia di Nikolajewka, scrive Rigoni Stern (che, a differenza dei senatori votanti sui loro scranni, quel giorno c’era) «il tenente Moscioni si ebbe bucata una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi. Ora è guarito della ferita ma non delle altre cose. Oh,no, non si può guarire». Ma ricordiamoci anche dell’eroismo di quelli che sono tornati per fare i partigiani, come Nuto Revelli, partito giovane ufficiale fascista e tornato combattente per la libertà: la lezione che lui ha imparato da quella vicenda non è la stessa che ci vorrebbero impartire oggi i nostri sventurati senatori.
E infatti c’è un elemento di sfacciataggine nella data scelta per questo ennesimo artificiale giorno di falsa memoria: il 26 gennaio, la vigilia del Giorno della Memoria che ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz – ad opera, fra l’altro, di quegli stessi soldati contro cui i nostri alpini erano costretti a combattere a Nikolajewka. Così, la memoria delle Shoah è disinnescata, incastrata fra due celebrazioni che la contraddicono o la sminuiscono – la campagna di Russia e le foibe. Forse dovremmo smetterla di aggiungere giorni della «memoria» che servono a «ricordare» solo per dimenticare. Ricordare Nikolajewka per dimenticare da che parte stavamo; ricordare le foibe per dimenticare i massacri e gli stermini fatti dagli italiani in Jugoslavia. La memoria non serve per farci sentire in pace con noi stessi e per chiudere le ferite. La memoria serve per disturbarci, e per tenerle aperte.
Raccontava Bruno Eluisi: «Quindi durante le avanzate, magari tu stavi un giorno con la pancia a terra sul ghiaccio, quando poi occupavi questa piccola stazioncina ti trovavi soltanto vecchi e ragazzini e le donne – e magari sotto il letto c’erano i mitragliatori, capito? Allora – non è che le cose l’hanno fatte soltanto i tedeschi ma noi pure l’abbiamo fatto, purtroppo. Arrivavi là, trovavi il vecchietto e due donne – acchiappavi il vecchietto e l’ammazzavi. Ma d’altronde è così: arrivi dopo una giornata con la pancia nella neve, arrivi lì, ammazzi e via».
Oh, no, di queste ferite non si può guarire.
* fonte: il manifesto, 9/4/2022.