Il «ground zero» della pax americana
Alberto Negri
(il manifesto, 15.9.2020)
Trump, i ministri degli Emirati, del Bahrain e il premier israeliano Netanyahu celebrano oggi alla Casa Bianca il nuovo «ground zero» della pax americana. Come gli Emirati anche il Bahrain ha scelto di seppellire il piano saudita Abdallah del 2002.
Un testo di riferimento della diplomazia araba che condizionava la normalizzazione dei rapporti con Israele alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale. La dichiarazione comune, che parla di «un passo storico per far avanzare la pace in Medio Oriente», non include neppure un riferimento al progetto israeliano d’annessione della Cisgiordania, per cui gli Emirati avevano chiesto la sospensione (non la cancellazione) in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico. Siamo a un compromesso sempre più al ribasso, altro che accordo di pace.
In poche parole, Israele ottiene il riconoscimento dei monarchi del Golfo e il via libera a ogni nefandezza anti-palestinese in cambio di zero concessioni. Lo sottolinea anche l’International Crisis Group think tank di Bruxelles guidato da Robert Malley, figlio di rifugiati ebrei, assistente di Clinton e Obama per il Medio Oriente, considerato uno dei maggiori esperti americani della questione israelo-palestinese.
Ma a Trump non importa un fico secco: deve rivincere la corsa presidenziale, dare una mano a se stesso in primo luogo poi anche all’amico Netanyahu, contestato in patria per la sua corruzione, precipitato in un nuovo lockdown e sull’orlo di un’ennesima crisi di governo. La Casa Bianca ha persino «arruolato» i Talebani afghani per avviare un acrobatico- ma necessario, dopo quasi venti anni di guerra – negoziato di pace a Doha nel Qatar, figuriamoci se non è disposta a calpestare i diritti dei palestinesi e ogni risoluzione delle Nazioni Unite. Che poi questo gran parlare di pace avvenga nel Golfo del petrolio e delle armi, di fronte all’Iran, avversario di Israele e delle monarchie assolute, non è certo un caso.
Sono loro, i petrodollari, che devono sostenere il finanziamento di tutta questa «pace» che nasconde un nuovo sistema di sicurezza e di alleanze internazionali, che prima viaggiavano sottotraccia e nelle segrete stanze e ora si dispiegano alla luce del sole. È la «Nato araba» a trazione israeliana che tiene dentro dai monarchi assoluti agli autocrati come Al Sisi.
Il silenzio degli europei, ma anche della Russia, è il segnale che anche a loro interessa assai poco dei diritti negati dei palestinesi, fanno parte a pieno titolo del complesso militar-industriale: pensano al fondo sovrano degli Emirati da 700 miliardi di dollari e al Public Investment Fund saudita che sta acquistando aziende in tutto il mondo, grazie al crollo dei prezzi dovuto alla pandemia.
Protestano soltanto l’Iran, che rimane stritolato sotto sanzioni, e la Turchia di Erdogan, lanciata in piani di grandeur neo-ottomana ma il cui rating del debito è stato appena classificato da Moody’s «ad alto rischio di insolvenza». Prima o poi così toccherà anche all’Arabia saudita, oliate tutte le ruote del consenso, far la pace con Tel Aviv, visto che Manama per firmare ha avuto sicuramente il via libera di Riad e del principe Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, amicone di Trump e del genero del presidente Jared Kushner che proprio in Barhain l’anno scorso presentò il suo piano per il Medio Oriente.
Se infatti gli Emirati arabi uniti godono di una certa autonomia diplomatica, il Bahrain è sotto tutela della corona saudita che ha aiutato la dinastia degli Al Khalifa a restare in sella di fronte alle rivolte della maggioranza sciita che, come ci informa Michele Giorgio sul manifesto, è largamente contraria all’intesa con Israele. Questi con gli Emirati e il Bahrain più che accordi di pace sono rese incondizionate allo strapotere del complesso militar-tecnologico americano-israeliano. Di questa resa c’erano i precedenti.
Gli Emirati hanno una consolidata cooperazione con gli israeliani nei sistemi di sorveglianza. Come ricordava il New York Times, la cyber-intelligence di Abu Dhabi impiega ex funzionari della National Security Agency americana e dei servizi israeliani: difensori dei diritti umani come Ahmed Mansour, da 10 anni in carcere, non hanno scampo. Il fondatore della compagnia di mercenari Blackwater, Erik Prince, è al servizio delle monarchie del Golfo e ha agito come facilitatore degli accordi tra Israele e gli Emirati che hanno ricevuto da Tel Aviv un software, venduto anche a Riad, per individuare gli obiettivi da colpire con l’aviazione in Yemen. Prodotti testati _ insieme ai sistemi a guida laser, di intercettazione e spionaggio _ contro i palestinesi a Gaza.
Nel Golfo si è così insediato una Grande Fratello della sorveglianza: con questa superiorità militare e tecnologica israeliana le monarchie finiranno nella sfera dello stato ebraico che dalle sponde del Golfo sarà in grado di infiltrare le comunità iraniane locali e tenere nel mirino la repubblica degli ayatollah. La «pace»” è arrivata al ground zero del sopportabile e neppure Viso Pallido Biden ha niente da dire.
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Accordo di Abramo, il nuovo ordine regionale di Trump
Michele Giorgio
(il manifesto, 16.9.2020)
Il 13 settembre 1993 Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano durante la cerimonia alla Casa Bianca per la firma degli Accordi di pace di Oslo. Quel gesto fece immaginare ai più ottimisti un futuro in cui i palestinesi avrebbero ottenuto la libertà e la fine dell’occupazione militare israeliana. Ieri 15 settembre 2020, 27 anni dopo quel gesto tra il premier israeliano e il leader palestinese, la firma dell’Accordo di Abramo, che normalizza i rapporti tra Israele, gli Emirati e il Bahrain, ha dimostrato definitivamente quanto fossero ingannevoli le intese raggiunte in segreto in Norvegia. In questi 27 anni i palestinesi hanno ottenuto riconoscimenti sulla carta, sono stati accolti in tante agenzie e organizzazioni internazionali e all’Onu ufficialmente esiste lo Stato di Palestina. Ma ancora oggi restano prigionieri nella loro terra, chiusi in città e villaggi che ricordano i Bantustan, senza alcuna prospettiva realistica di ottenere sovranità. In queste ore presunti esperti si affannano a spiegare su media-megafoni che i palestinesi «stanno perdendo un altro treno». Ma ai palestinesi è stato sempre offerto, da Oslo in poi, lo stesso o poco più di quanto Donald Trump propone nel suo piano: uno staterello-fantoccio sotto il controllo di Israele in qualche porzione di Cisgiordania. Con Gaza isolata, prigione per gli islamisti di Hamas e i suoi 2 milioni di abitanti. Prendere o lasciare.
Evocava, non a caso, un nuovo Medio Oriente ieri Donald Trump. «È l’alba di un nuovo Medio Oriente…Siamo qui per cambiare il corso della storia», ha detto sotto lo sguardo compiaciuto del premier israeliano Netanyahu e i sorrisi stampati sul volto del ministro degli esteri emiratino Abdullah bin Zayed Al Nahyan e di quello del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al-Zayan. Ed è vero, sta nascendo un nuovo ordine regionale. Non è stata fatta la pace, come si è detto banalmente, tra Israele, Emirati e Bahrain. Abu Dhabi e Manama non sono mai stati in guerra con lo Stato ebraico, hanno sempre avuto con esso, specialmente negli ultimi anni, relazione strette e una ampia collaborazione, specie nell’intelligence. Solo che si è svolta dietro le quinte. Più concretamente sta sorgendo un sistema regionale in cui le monarchie arabe sunnite riconoscono la superiorità economica, militare e strategica di Israele che ne diventa di fatto il difensore davanti al nemico comune, l’Iran. Israele sgraverà, in parte, Washington della responsabilità avuta per decenni di proteggere i ricchi alleati nel Golfo.
Nella pax americana i palestinesi non contano nulla, sono un tassello che non appartiene al mosaico. Perché hanno il torto di reclamare ancora i loro diritti sanciti da una infinità di risoluzioni internazionali. «Gli accordi ci permetteranno di stare a fianco del popolo palestinese e di aiutarlo nel loro sogno di uno stato indipendente…grazie per aver deciso di mettere fine all’annessione (a Israele) dei territori palestinesi», ha proclamato solenne Abdullah bin Zayed Al Nahyan rivolgendosi a Netanyahu. Per l’analista ed esperta di diritto internazionale Diana Buttu «Rinunciando alla condizione del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati (nel 1967), Emirati, Bahrain e i paesi che si uniranno a loro, si adeguano alla linea dell’Unione europea: faranno affari e tanti programmi insieme a Israele e ogni tanto ci ricorderanno che i palestinesi hanno dei diritti».
«Molte nazioni sono pronte» a fare la pace con Israele, «almeno cinque o sei si uniranno molto in fretta», ha annunciato Trump «sono nazioni in guerra ma stanche di combattere», ha detto, senza nominare alcun paese. Ha aggiunto che «Grandi cose accadranno» con l’Arabia Saudita, regno che Trump vuole portare alla normalizzazione con Israele prima delle presidenziali Usa. «Vedrete grande attività. Ci sarà pace in Medio Oriente…Anche Bibi è stanco di guerra», ha proseguito con una risata, riferendosi a Netanyahu. Il premier israeliano cogliendo l’imbeccata ha replicato «Il popolo d’Israele conosce il prezzo della guerra, conosco il prezzo della guerra. Sono stato ferito in battaglia. Un soldato è morto nelle mie braccia. Mio fratello Yoni ha perso la vita salvando ostaggio». Siamo qui, ha aggiunto Netanyahu, «per l’alba della pace, per dare speranza ai figli di Abramo. Questa pace porterà alla fine del conflitto arabo israeliano una volta per sempre».
Sul palcoscenico della firma dell’Accordo di Abramo i rappresentanti di Emirati e Bahrain sono stati solo delle comparse accanto ai protagonisti Trump e Netanyahu. Prima della firma degli accordi, il presidente Usa aveva offerto la chiave d’oro della Casa Bianca al leader israeliano. Netanyahu ha ringraziato e forse avrà pensato: l’ho sempre avuta.
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La protesta diffusa dei palestinesi invisibili
Chiara Cruciati
(il manifesto, 16.9.2020)
In Palestina le ore che hanno preceduto la firma dell’Accordo di Abramo sono trascorse nell’anormale consuetudine di una vita sotto occupazione: 21 palestinesi arrestati dall’esercito israeliano, tra cui tre minori, tra Gerusalemme e Cisgiordania, da Tulkarem a Hebron. Detenzioni invisibili dal palcoscenico festoso del Giardino delle rose della Casa Bianca.
Gli invisibili, i palestinesi, ieri hanno però manifestato la loro rabbia per normalizzazioni che li escludono. In tutti i Territori occupati (ma anche nel vicino Libano) in migliaia sono scesi in piazza in quello che è stato ribattezzato da Mohammed Shtayyeh, premier dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), «the black day», il giorno nero, a cui ne seguirà un altro venerdì, il giorno del lutto.
L’ennesimo giorno da segnare sul calendario della lunga tragedia palestinese, quello che mette ufficialmente fine all’iniziativa araba di 18 anni fa, che con tutte le sue lacune almeno poneva al centro il diritto – seppur annacquato – all’autodeterminazione. Ieri per le strade percorse dalle proteste, a Hebron, Ramallah, Tulkarem, Nablus, Gaza city, tra le bandiere palestinesi svolazzavano i cartelli con i volti dei protagonisti della normalizzazione, una X sul viso.
«No alla normalizzazione con l’occupazione», scandiva lo striscione di apertura della marcia a Hebron. «Non puntiamo sui regimi arabi che commerciano con le aspirazioni dei loro popoli e con la causa palestinese – ha detto a Middle East Eye Fahmy Shaheen del National and Islamic Forces – Puntiamo sui popoli arabi». «Quello che avviene oggi non è normalizzazione, ma un’alleanza strategica», il commento di Jamal Zahalka, capo del partito National Democratic Assembly.
Dietro l’iniziativa diffusa nei Territori sta il neonato gruppo «United Palestinian Leadership for Popular Resistance», creato sulla spinta del video-vertice di inizio settembre, tra Ramallah e Beirut, delle varie fazioni palestinesi. Proprio dal Libano, ieri il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha telefonato al presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas.
I due hanno ribadito la fragile unità frutto dell’ultimo tassello di isolamento a cui il popolo palestinese è appeso dal 1948: «Non permetteremo che la causa palestinese sia un ponte per la normalizzazione con il potere occupante alle spese dei nostri diritti nazionali, della nostra Gerusalemme e del diritto al ritorno». Quanto questa unità, frettolosa, senza reali basi strategiche e con scarse visioni comuni, possa essere efficace è dubbio. Sui principali partiti palestinesi pesano quasi 30 anni di lenta morte celebrale dell’Olp e una frammentazione imposta, neppure troppo indirettamente, dagli Accordi di Oslo.
L’opposizione agli accordi è andata di scena anche a Washington, fuori dalla Casa Bianca, una chiamata alla protesta da parte di una 50ina di organizzazioni statunitensi, arabe e palestinesi, mentre la petizione online «Palestine Charter», lanciata da varie organizzazioni palestinesi (incluso il movimento Bds) superava le 200mila firme di utenti dal mondo arabo.