[Il nesso inscindibile che lega le forme acute del tempo storico vissuto e l’elaborazione, storia e teoresi. Il problema centrale nel pensiero del filosofo torna in un’ampia raccolta dei suoi scritti di estetica. Due volumi editi da PGreco con l’introduzione di Emiliano Alessandroni]
Da Il Manifesto del 04/082020
https://ilmanifesto.it/gyorgy-lukacs-fra-larte-e-la-vita/
di Lelio La Porta
La vita di György Lukács (1885-1971), turbolenta e tempestosa, è stata una di quelle vite che hanno costretto il pensiero a sottomettersi quasi totalmente alle stesse svolte imposte dall’esistenza storica.
Nato da una ricca famiglia ebrea, laureatosi a Budapest nel 1906, Lukács approfondisce gli studi filosofici a Berlino e Heidelberg dove subisce l’influenza del neocriticismo e dello storicismo tedesco e stringe amicizia con Ernst Bloch. In questo stesso periodo prepara un libro sull’estetica (non portato a termine) e uno su Dostoevskij (non pubblicato, di cui rimangono gli appunti). Fra il 1914 e il 1915 scrive Teoria del romanzo. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale conduce Lukács a quella che sarà la scelta fondamentale della sua vita: l’adesione al marxismo e l’iscrizione al Partito Comunista Ungherese.
Nel 1919, nella breve esperienza della Repubblica ungherese dei Consigli, fu commissario del popolo all’istruzione e commissario politico della quinta divisione. Conclusasi l’esperienza consiliare, dovette fuggire a Vienna. Vive fra Vienna e Berlino e produce, fra gli altri, una serie di saggi che, rielaborata, comparirà in volume nel 1923 con il titolo di Storia e coscienza di classe. Nel 1928 le tesi politiche note come Tesi di Blum gli costarono l’accusa di deviazionismo di destra e l’espulsione dal Comitato Centrale del Partito Comunista Ungherese.
All’avvento al potere del nazismo in Germania, si trasferisce a Mosca dove rimarrà fino alla fine della seconda guerra mondiale studiando e ricercando presso l’Istituto Marx-Engels-Lenin. Finita la guerra, Lukács tornò in Ungheria e fu membro del Parlamento, della direzione dell’Accademia delle Scienze, professore di estetica e di filosofia della cultura all’Università di Budapest. Nel 1956 ritorna alla politica e viene eletto di nuovo nel Comitato centrale del Partito comunista ungherese.
Durante gli eventi rivoluzionari di quell’anno in Ungheria è nominato ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Nagy; deportato in Romania a seguito dell’intervento sovietico, rientra in Ungheria nell’aprile del 1957 ritirandosi definitivamente a vita privata, nonostante la riammissione nel partito nel 1967. Muore il 4 giugno del 1971, per cui il prossimo anno ricorrerà il 50° anniversario della sua scomparsa.
Il breve schizzo biografico giustifica, da un lato, l’incipit e, dall’altro lato, pone all’attenzione il problema centrale del pensiero lukácsiano, continuamente messo in evidenza dallo stesso filosofo: lo stretto rapporto fra vita e pensiero, fra storia e teoresi. Rileggendo ora alcuni testi di Lukács raccolti in una silloge di suoi scritti di estetica (Arte e società, con un saggio introduttivo di Emiliano Alessandroni, PGreco, volume I, pp. LXXI-395, euro 22; volume II, pp. 319, euro 22), si ha la conferma di questo nesso inscindibile fra le forme acute (e critiche proprio nel senso che determinarono le scelte compiute dal pensatore) del tempo storico vissuto e l’elaborazione, nel caso specifico, estetica.
Scorrendo le pagine dei due volumi, infatti, si incontrano due testi nei quali la questione appena messa in evidenza risulta essere il cuore dello sviluppo del pensiero, non soltanto estetico, di Lukács. La Prefazione del 1967 (contemporanea a quella a Storia e coscienza di classe al punto che alcuni temi si sovrappongono e sembrano integrarsi) con cui si apre la raccolta è, di fatto, il racconto di un pensiero, qui quasi esclusivamente estetico, in continua elaborazione, in continua lotta con la storia, con le sue svolte, con i suoi snodi problematici. Infatti si nota, come lo stesso Lukács sottolinea, come ci sia un vuoto di 15 anni fra Teoria del romanzo (1914-1915) e Letteratura di tendenza o letteratura di partito? (1932).
Scrive il filosofo: «La guerra e poi la rivoluzione russa e quella ungherese determinarono una svolta profonda nella mia concezione della società e nella mia ideologia, facendo di me un marxista». Questa «svolta», caratterizzata da un evidente accantonamento delle questioni estetiche, ebbe motivazioni di carattere etico-politico e fu contraddistinta dalla stesura di almeno tre opere, due delle quali sono state già richiamate: Tattica e etica (1919), Storia e coscienza di classe (1923), Tesi di Blum (1928). Poi ebbe inizio il periodo staliniano, ossia l’esperienza vissuta nell’Urss di Stalin (molto ci sarebbe da scrivere sul presunto «stalinismo» di Lukács, ma il prossimo anniversario consentirà, si spera, di fare luce su quest’aspetto del suo pensiero).
Gli scritti raccolti nel secondo volume risalgono tutti agli anni Cinquanta e culminano con alcuni capitoli dell’Estetica (La peculiarità dell’estetico) introdotti da una Prefazione che è il secondo testo a cui si faceva riferimento qualche riga sopra. Qui Lukács è di una chiarezza solare facendo presente che la realizzazione della sua estetica, da lui coltivata fin da giovane, avviene negli anni Cinquanta «con contenuti del tutto nuovi, con metodi radicalmente opposti» a quelli seguiti in gioventù.
Proprio nella grande Estetica degli anni Sessanta si delinea il programma di una fondazione filosofica dell’estetica, l’individuazione delle sue categorie specifiche, la delimitazione del suo ambito rispetto ad altri ambiti. Dal comportamento quotidiano dell’uomo derivano sia la scienza sia l’arte. Entrambe sono forme di rispecchiamento della realtà ma l’arte, intesa come mimesis, cioè imitazione, ha una funzione specifica, particolare: la sua rappresentazione della vita è antropocentrica, antropomorfa. Eppure arte e scienza hanno qualcosa in comune: si contrappongono alla religione che, guardando verso l’alto dei cieli, vuole custodire l’unicità umana.
La raccolta è introdotta da un saggio di Emiliano Alessandroni intitolato «L’immaginazione artistico-letteraria tra dialettica e ideologia», ricco di riferimenti e rimandi che consentono di cogliere nella sua specificità la riflessione estetica di Lukács. Interessanti, e da riprendere ed approfondire, le analogie che Alessandroni coglie fra Lukács e Gramsci senza dimenticare che, secondo chi scrive, il primo affronta le questioni artistiche nell’ottica dello studioso di estetica prima, e dello studioso di estetica in quanto marxista poi, mentre il secondo le affronta dal punto di vista dell’intellettuale e del dirigente politico attento a cogliere il nesso storico della subordinazione dei governati ai governanti anche attraverso l’analisi della letteratura e dell’arte.
Come a volte accade, in conclusione c’è una punta di polemica che, però, al tirar delle somme, può procurare il modesto fastidio del pizzico di una zanzara: non sarebbe stato il caso di riportare il sottotitolo dell’antologia pubblicata per la prima volta in italiano nel 1972, cioè «Scritti scelti di estetica»? E non sarebbe stato anche il caso di ricordare le traduttrici e i traduttori dei saggi lukácsiani? Cesare Cases, Fausto Codino, Anna Marietti Solmi, Mazzino Montinari, Emilio Picco, Renato Solmi, Alberto Scarponi, Eraldo Arnaud, Carlo Benedetti, Sergio Bologna, Giovanni Piana, Francesco Saba Sardi.
Franco Fortini dedicò al filosofo una poesia:
«Le scarpe pesanti il gomito sui libri / il sigaro spento non per il dubbio / ma per il dubbio e la certezza / nell’ultima foto / dall’altra parte del vero / occhi smarriti guardandoci. / Alle sue spalle guardiamo i libri deperiti / i tappeti il legno gotico / del San Martino a cavallo / che si taglia il mantello / per darne metà al mendicante. / Gli uomini sono esseri mirabili».
Fortini stesso la commentò nel modo seguente: «…la mia breve poesia si conclude con una citazione greca, con una situazione di tipo umanistico: “L’uomo è l’essere più mirabile che vi sia, molte sono le cose mirabili in questo mondo e l’uomo è la cosa più mirabile”, mi pare che dica il primo coro dell’Antigone. Forse in quel sigaro spento è contenuta una piccola allegoria: è la diversità del dubbio e dell’amarezza che ci ha impedito di mantenere acceso il nostro sigaro».
Forse, riaccendendo quel sigaro, potremmo avere qualche dubbio e qualche amarezza in meno guardando a questa nostra epoca.