Jacques R. Pauwels *
Nel suo lavoro di più fresca data, La Non-épuration en France de 1943 aux années 1950 (“La mancata epurazione in Francia dal 1943 agli anni Cinquanta”), la storica Annie Lacroix-Riz contraddice la visione sulla Liberazione del paese nel 1944-45 diffuse da una recente storiografia succube della destra politica (“droitisée”). Questa tendenza, sempre più di moda, si dimostra molto critica nei confronti della Resistenza e, di contro, piuttosto indulgente riguardo la collaborazione con l’occupante. Si è sostenuto, ad esempio, che la Resistenza è stata in generale inefficace e che la Francia è debitrice della sua liberazione quasi esclusivamente agli sforzi degli americani e degli altri alleati occidentali – questi ultimi appoggiati dalle forze dei “Francesi Liberi” di De Gaulle – che sbarcarono in Normandia nel giugno del 1944.
Inoltre, si è detto che la Resistenza ha approfittato dell’occasione offertagli dalla liberazione per comettere ogni sorta di atrocità, compresi omicidi e la rasatura in pubblico del capo di giovani donne innocenti che avevano solamente “collaborato in orizzontale” ossia che avevano avuto delle storie d’amore con soldati tedeschi. Questa “purga selvaggia” (épuration sauvage) dei collaborazionisti è stata paragonata a una fase di “terrore” orchestrata dai comunisti, veri o presunti membri della Resistenza, nel tentativo di conseguire i loro sinistri obiettivi rivoluzionari.
Esclusi i casi più sfacciati, i collaborazionisti vengono attualmente presentati dalla “storiografia dominante” in gran parte come persone perbene, rispettabili, ben intenzionati e “onesti cittadini” (gens très bien, un’espressione presa a prestito dal titolo di un racconto di Alexandre Jardin), vittime di costrizione da parte tedesca, senza potere e dunque innocenti “subordinati” (subalternes), intrappolati senza colpa tra la Scilla dei nazisti e la Cariddi della Resistenza, e spesso coinvolti loro stessi in atti segreti di resistenza. Alcuni collaborazionisti erano dei fanatici, naturalmente, e perpetrarono dei crimini, ma si trattava in gran parte di zotici delle classi inferiori, esemplificati al meglio dai membri della famigerata organizzazione paramilitare del regime di Vichy, la Milizia.
Nel 1944-45, il governo provvisorio francese, presieduto dal Generale De Gaulle, riuscì alla fine a ripristinare “la legge e l’ordine”. Questo, si presume, è il modo nel quale in Francia, dopo anni di difficoltà economiche e politiche, una sconfitta militare, l’occupazione tedesca e lo scompiglio della Liberazione, nacque uno stato rispettoso delle leggi, l’État de droit gollista. Anche in questo modo, però un’inevitabile purga di collaborazionisti veri o immaginari ebbe luogo e colpì molte vittime innocenti, in particolare tra le fila dell’alta burocrazia statale, la crème della crème del mondo degli affari e, in generale, nell’elite della nazione.
Nel suo nuovo libro, Lacroix-Riz demolisce dalle fondamenta questa interpretazione revisionista con ricerche esaustive ed assai documentate che fanno emergere i nomi di un gran numero di personalità sia oscure che importanti, rendendo talvolta impegnativa la lettura di questo testo per chi non abbia grande familiarità con la storia della Francia nella Seconda Guerra Mondiale. Nei suoi precedenti lavori, come Le choix de la défaite e De Munich à Vichy, Lacroix Riz aveva già spiegato come, nella primavera del 1940, l’elite politica, militare ed economica della Francia aveva consegnato il paese ai nazisti con l’obiettivo di installarvi un regime fascista. La classe superiore si attendeva che un sistema di governo autoritario di questo genere fosse più sensibile alle sue esigenze e ai suoi desideri rispetto a quanto lo era stato il sistema pre-bellico della “Terza Repubblica”, troppo indulgente nei confronti della classe operaia, specialmente durante il governo del “Fronte Popolare” negli anni 1936-37. Lacroix-Riz fece seguire a queste opere altri studi frutto di meticolose e documentate ricerche (Industriel et banquiers français sous l’Occupation e Les élites français, 1940-1944. De la collaboration avec l’Allemagne à l’alliance américain) che dimostravano com l’elite avesse prosperato sotto la protezione del regime di Vichy del Maresciallo Pétain, avesse collaborato con entusiasmo con i tedeschi e combattuto con le unghie e con i denti contro una Resistenza fatta in gran parte da una classe operaia, in cui prevalevano i comunisti, indirizzata a promuovere, per il dopoguerra, cambiamenti radicali e persino rivoluzionari. Ora la storica francese dimostra come la Liberazione non sia stata accompagnata da una vera epurazione dei collaborazionisti ma, au contraire, che la “gens très bien” dell’elite francese della burocrazia statale e degli affari riuscì a sfuggire ad ogni espiazione dei suoi peccati di collaborazionismo e che gran parte del sistema di Vichy, che li aveva serviti tanto bene dal 1940 al 1944, rimase in piedi – e noi possiamo arguire, fino ad oggi.
Partiamo dalle cosidette “purghe selvagge’, le presunte vittimizzazioni di persone innocenti da parte di partigiani comunisti, o di comunisti che si spacciavano per partigiani, presumibilmente nel tentativo di eliminare oppositori e rivali in preparazione di un colpo di stato rivoluzionario. Lacroix-Riz dimostra che assassinii ed esecuzioni sommarie ebbero luogo, ma in gran parte nel contesto di violenti scontri che scoppiarono prima dello sbarco in Normandia e della liberazione di Parigi. Contrariamente alla teoria della sua inutilità dal punto di vista militare, la Resistenza ostacolò seriamente i preparativi del nemico per difendersi contro gli sbarchi alleati che stavano per avvenire nella Normandia e causò ad esso pesanti perdite, come ammisero le stesse autorità tedesche. Gran parte delle atrocità perpetrate nel contesto di quella forma di guerra non furono opera di partigiani, ma di nazisti e collaborazionisti, in particolare la Milizia, ad esempio l’esecuzione di ostaggi e il famigerato massacro di Oradour-sur-Glane. I combattenti della Resistenza, d’altro canto, non avevano come obiettivi vittime innocenti, ma miravano ai soldati tedeschi e particolarmente agli odiosi collaborazionisti, uomini la cui punizione (compresa la loro esecuzione) veniva ripetutamente richiesta in trasmissioni radiofoniche dalle Forze Libere francesi di De Gaulle dall’Inghilterra. Quanto alle donne cui venne raso il capo, moltissime se non la gran maggioranza erano colpevoli di attività ben più efferate della “collaborazione orizzontale”, ad esempio il tradimento di vari membri della Resistenza.
Non ci fu nessuna épuration sauvage prima o durante la Liberazione e le presunte importanti epurazioni che avrebbero seguito la Liberazione stessa si risolsero in una messinscena. Sia l’elite dello stato francese che il settore privato avevano allegramente approfittato della collaborazione e avevano buone ragioni per temere l’arrivo al potere dei loro nemici della Resistenza. A seguito della Liberazione, tuttavia, non arrivò al potere l’ala radicale della Resistenza e l’elite non ebbe che poca o nessuna punizione per i suoi peccati di collaborazionismo. Il suo prezioso ordine sociale ed economico capitalista rimase intatto (a dispetto di alcune riforme) e la stessa elite conservò gran parte del suo potere e dei suoi privilegi. Di questa immeritata benedizione la classe superiore doveva ringraziare i liberatori americani di quella che un tempo era stata una grand Nation, ed anche Charles de Gaulle, il generale che aspirava di fare di nuovo grande la Francia.
De Gaulle era un patriota genuino, ma conservatore, molto devoto all’ordine economico e sociale esistente in Francia. Quanto agli americani, destinati a succedere ai tedeschi come padroni dell’Europa, o almeno alla metà occidentale del continente, erano determinati a fare trionfare “la libera impresa” dovunque in Europa e portare il continente nell’orbita economica e politica dello Zio Sam. Questo voleva dire prevenire ogni cambiamento politico e socio-economico al di fuori di quelli puramente di facciata – senza preoccuparsi di desideri e aspirazioni di coloro che avevano resistito ai nazisti e agli altri fascisti, e in generale del popolo. Significava anche il perdono, la protezione e il sostegno dei collaborazionisti con credenziali anti-comuniste, che è esattamente quello che erano stati i membri dell’elite in Francia. In effetti, le autorità americane non avevano nulla contro il regime di Vichy e inizialmente avevano sperato che, dopo l’uscita dei tedeschi dalla Francia, sarebbe in qualche modo sopravvissuto, o sotto Pétain o sotto qualche altra personalità di Vichy, come Weygand o Darlan, se necessario dopo un’epurazione dei più rabbiosi elementi filo-tedeschi e l’applicazione di una mano di vernice democratica. Dopo tutto, il sistema di Vichy aveva sostanzialmente funzionato come sovrastruttura politica del sistema economico-sociale capitalista francese, un sistema che Washington pretendeva di salvare dalle grinfie dei suoi nemici di sinistra nella Resistenza. Dopo i rovesci tedeschi sul fronte orientale, e in particolare dopo la battaglia di Stalingrado, tuttavia, innumerevoli collaborazionisti di Vichy vedevano profilarsi per loro un triste destino e attendevano la salvezza nelle sembianze di un “futuro americano” per la Francia ovvero, come ama esprimersi Lacroix-Riz, con il passaggio da un “tutore” tedesco a uno americano. Con una liberazione da parte degli americani, potevano aspettarsi che i loro peccati di collaborazionismo, ed anche i loro crimini, venissero perdonati e dimenticati, mentre le aspirazioni rivoluzionarie o anche semplicemente progressiste della Resistenza sarebbero state destinate a rimanere un sogno impossibile.
I dirigenti di Washington non nutrivano alcuna simpatia per de Gaulle. Come molti esponenti di Vichy, lo consideravano un uomo di facciata utile ai comunisti. Lo ritenevano qualcuno che, se fosse andato al governo, avrebbe spianato la via all’assalto finale “bolscevico”, proprio come Kerensky che aveva preceduto Lenin nella Rivoluzione Russa del 1917. Gradualmente, tuttavia, arrivarono a capire, come prima di loro aveva già fatto Churchill, che sarebbe stato impossibile imporre al popolo francese una personalità compromessa con Vichy e che capitava che proprio un governo guidato da de Gaulle sarebbe stato l’unica alternativa ad uno capeggiato dalla Resistenza, indirizzato a riforme radicali e dominato dai comunisti. C’era bisogno del generale per neutralizzare i comunisti alla fine delle ostilità. Lo stesso de Gaulle manovrò per accontentare Washington, promettendo che con la fine della guerra si sarebbe rispettato lo status socio-economico e garantendo il suo impegno perché innumerevoli collaborazionisti di Vichy, che godevano del favore degli americani, fossero integrati nel suo movimento Francesi Liberi e ascendessero persino a posizioni di comando. In questo modo de Gaulle si trasformò in un “leader di destra”, accettabile sia all’elite francese che agli americani, destinati a succedere ai tedeschi come “protettori” degli interessi di quell’elite. Questo è il contesto nel quale de Gaulle venne catapultato a Parigi nel momento della liberazione della città alla fine di agosto del 1944. L’idea era quella di prevenire il possibile tentativo da parte della Resistenza, dominata dai comunisti, di costituire un governo provvisorio nella città. Gli americani organizzarono le cose in modo che de Gaulle sfilasse sui Campi Elisi come il salvatore che la Francia patriottica aveva atteso per quattro lunghi anni. E il 23 ottobre 1944 Washington alla fine rese ufficiale questa posizione e lo riconobbe come il capo del governo provvisorio della Francia liberata.
Sotto gli auspici di De Gaulle, la Francia sostituì il sistema di Vichy con una nuova sovrastruttura politica democratica, la “Quarta Repubblica”. (Il sistema sarebbe stato rimpiazzato da uno più autoritario, presidenziale nello stile americano, la “Quinta Repubblica”, nel 1958.) E la classe operaia, che aveva patito parecchio sotto il regime di Vichy, venne gratificata con un consistente pacco di benefici che comprendevano salari più alti, ferie pagate, assicurazione sanitaria e contro la disoccupazione, generosi piani pensionistici e altri servizi sociali, in breve, un rispettabile “welfare state”. Tutte queste misure beneficiarono di un ampio sostegno da parte dei plebei percettori di salario, ma furono mal sopportate dai patrizi dell’elite, in particolare dai datori di lavoro, il patronat. L’elite, tuttavia, apprezzò molto che queste riforme accontentassero la classe operaia, togliendo in questo modo il vento dalle vele rivoluzionarie dei comunisti, anche se questi si trovavano nel culmine del loro prestigio per il ruolo avuto all’interno della Resistenza e il loro collegamento con l’Unione Sovietica, allora ampiamente accreditata in Francia come il vero vincitore della Germania nazista.
Le donne e gli uomini della Resistenza vennero ufficialmente elevati alla posizione di eroi, con monumenti eretti e strade nominate a loro nome. Di contro, i collaborazionisti vennero ufficialmente “epurati” e i loro rappresentanti più infamanti vennero puniti. Alcuni di loro, ad esempio il sinistro Pierre Laval, furono condannati a morte e importanti collaborazionisti economici, come il produttore d’auto Renault, ebbero la loro attività nazionalizzata. Con il suo governo provvisorio pieno di riciclati di Vichy che guardavano, oltre le sue spalle, allo Zio Sam, de Gaulle assicurò che solamente le alte sfere del regime di Vichy sarebbero state epurate e punite. Molte, se non la maggior parte delle banche e gruppi industriali che avevano collaborato dovettero la loro salvezza a collegamenti americani, ad esempio la filiale francese della Ford. Sentenze di morte vennero spesso commutate in pene assolutamente minori e ufficiali tedeschi occupanti (come Klaus Barbie) assieme a collaborazionisti, autori di importanti crimini, vennero fatti sparire dal paese e riemergere a nuova vita nel Sud e persino nel Nord America dai nuovi padroni americani della Francia che apprezzavano lo zelo anti-comunista di questi personaggi. Innumerevoli collaborazionisti sfuggirono all’epurazione producendo falsi “certificati della Resistenza” o sviluppando improvvise malattie che portavano al differimento dei processi e alla fine alla loro cassazione. Funzionari locali colpevoli di aver lavorato con e per i tedeschi evitarono la loro punizione con trasferimenti in città dove il loro passato collaborazionista non era noto, ad esempio da Bordeaux a Digione. E molti di quelli che venero giudicati colpevoli ricevettero solamente una blanda punizione, un semplice buffetto al polso. Tutto questo fu possibile perché il governo di de Gaulle, e il suo ministero della Giustizia in particolare, pullulavano di impenitenti esponenti di Vichy, che senza sorprese erano quelli che Lacroix-Riz chiama “un club di appassionati oppositori dell’epurazione” (un club d’anti-épuraters passionés).
L’elite della Francia, nonostante il fatto di doversi ritrovare di nuovo, come prima del 1940, con gli inconvenienti di un sistema democratico-parlamentare, nel quale oltretutto ai plebei era consentito di suggerire alcune misure, riuscì a mantenere saldamente sotto controllo i centri di potere non eletti nello stato francese del dopoguerra, come l’esercito, il potere giudiziario, le alte sfere della burocrazia e della polizia, organi di cui aveva sempre avuto il monopolio. I generali di Vichy, ad esempio, in gran parte noti come acerrimi nemici della Resistenza, ma che si erano opportunamente convertiti al gaullismo, continuvano ad esercitare il controllo sulle forze armate e innumerevoli ufficiali che erano stati diligenti servitori di Pétain o delle autorità tedesche di occupazione rimanevano in carica ed erano in grado di perseguire carriere prestigiose e beneficiare di promozioni ed onori. Annie Lacroix-Riz conclude sostenendo che il supposto “stato rispettoso della legge” di de Gaulle “sabotò l’epurazione degli ufficiali [collaborazionisti] di alto rango, in tal modo … consentendo la sopravvivenza dell’egemonia di Vichy sul sistema giudiziario francese” – e, si potrebbe aggiungere, la sopravvivenza dello stile del sistema di Vichy in generale.
Nel 1944-45, l’elite francese non venne costretta a fare ammenda dei suoi peccati di collaborazionismo ed inoltre ebbe la fortuna che la minaccia rivoluzionaria portata al suo ordine economico-sociale capitalista potè venire sventata dall’introduzione di un sistema di sicurezza sociale. L’aspro conflitto di classe del periodo bellico tra patrizi e plebei, riflesso nella dicotomia collaborazione/resistenza, non si concluse definitivamente in questo modo, ma semplicemente diede origine a una tregua. E questa tregua fu essenzialmente “gaullista”, dato che venne conclusa sotto gli auspici di una personalità che era abbastanza conservatrice per i gusti dell’elite francese e dei suoi nuovi“tutori” americani, ma il cui schietto patriottismo lo rendeva anche amico della Resistenza e dell’elettorato che in essa si riconosceva.
Con il collasso dell’Unione Sovietica e la scomparsa della minaccia comunista, tuttavia, l’elite francese ha cessato di vedere la necessità di mantenere il sistema di servizi sociali che aveva dovuto adottare con molta riluttanza. Il compito di smantellare il “welfare state” francese, intrapreso sotto gli auspici di presidenti filo-americani come Sarkozy ed ora Macron, veniva ora facilitato anche dall’adozione de facto da parte dell’Unione Europea del neo-liberalismo, un’ideologia che promuove il ritorno a un capitalismo senza condizioni, all’americana. E così ripartita la guerra di classe che aveva contraddistinto il collaborazionismo dalla resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. È in questo contesto che la storiografia francese è diventata sempre più dominata da un revisionismo che è critico nei confronti della Resistenza e indulgente rispetto alla collaborazione con il fascismo e con il fascismo stesso. Il libro di Annie Lacroix-Riz fornisce un antidoto di cui si sentiva il bisogno contro la falsificazione di questo capitolo di storia. Speriamo che altri studiosi seguano il suo esempio e indaghino fino a che punto fascisti e collaborazionisti sono stati riabilitati e la Resistenza anti-fascista denigrata dalla storiografia revisionista – e dai politici di destra – in altri paesi europei, ad esempio l’Italia e il Belgio.
Un’ultima osservazione si impone. Macron cerca di distruggere il welfare state che fu introdotto sulla scia della Liberazione per evitare i cambiamenti rivoluzionari promossi dalla Resistenza a guida comunista. Sta giocando col fuoco. In realtà, il tentativo di liquidare i servizi sociali che limitano, ma non impediscono, l’accumulazione capitalista e sono pertanto solo un secondario fastidio all’ordine economico-sociale esistente, rimuove un importante ostacolo alla rivoluzione, una genuina minaccia esistenziale a quell’ordine. La sua offensiva ha dato il via ad una massiccia resistenza, quella dei “gilè gialli”. Questa eterogenea compagnia certamente non è guidata da un’avanguardia comunista, come la Resistenza del tempo di guerra, ma di sicuro sembra possedere un certo potenziale rivoluzionario. Il conflitto tra un presidente che rappresenta l’elite francese e i suoi tutori americani, ed è sotto molti aspetti erede di Pétain e, d’altro canto, i gilet jaunes che rappresentano le contrariate, inquiete masse plebee che desiderano un cambiamento, eredi dei partigiani del tempo di guerra, possono comunque portare la Francia a fare esperienza di qualcosa che sfuggì al tempo della Liberazione : una rivoluzione – e una vera, piuttosto che una finta, epurazione.
* Da: Global Research, 10 febbraio 2020. Traduzione di Silvio Calzavarini.