Salvatore Tinè
C'è un passo della risoluzione sulla memoria storica, approvata dal Parlamento europeo il 20 settembre 2019 che non dovrebbe sfuggire ed è il seguente: "L'integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all'Olocausto, e all'espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell'Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l'integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente".
Perciò, prosegue il documento "per i paesi europei che hanno sofferto a causa dell'occupazione sovietica e delle dittature comuniste l'allargamento dell'UE, iniziato nel 2004, rappresenta un ritorno alla famiglia europea alla quale appartengono". Pur inserito all'interno di un testo pieno di vere e proprie falsità storiche, come quella secondo la quale la II guerra mondiale sarebbe scoppiata per responsabilità anche dell'Urss, non si può negare che questo brano contenga una verità storica profonda intorno alla costitutiva, originaria natura politica dell'integrazione europea, corrispondente alle finalità antisovietiche e anticomuniste delle classi dirigenti europee che ne furono le promotrici. Non a caso il richiamo alle originarie motivazioni della nascita dell'Europa unita viene espresso a proposito del suo odierno allargamento ad alcuni dei paesi già appartenenti al blocco sovietico, funzionale alla strategia di vero e proprio accerchiamento della Russia congiuntamente condotta da UE e NATO, la cui inscindibilità è in questo senso dichiarata e apertamente rivendicata: "alla luce della loro adesione all'UE e alla NATO i paesi dell'Europa centrale e orientale" sono tornati "alla famiglia europea di paesi democratici liberi".
Non a caso la categoria di totalitarismo, funzionale all'assurda equiparazione tra due regimi, quello nazista e quello sovietico, che pure si sono combattuti in una guerra che è stata definita dallo storico inglese Chris Bellamy insieme “totale e assoluta” e le cui condizioni erano già maturate addirittura nel corso degli anni Venti e Trenta,[1], viene evocata per condannare in primo luogo sul piano ideologico l'odierna Russia di Putin. "La Russia - si legge nel documento - rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista" e "il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico". Di qui l'invito rivolto alla "la società russa" a "confrontarsi con il suo tragico passato" e cioè a ripudiare le idee del socialismo e del comunismo, ciò che evidentemente secondo le classi dominanti dell'Europa occidentale il regime russo non avrebbe ancora fatto. Insomma, come già nella anni '40 e '50, la teoria del totalitarismo serve a giustificare sul piano ideologico la riaffermazione del primato imperialista dell'Europa occidentale in tutto il continente, sia pure all'ombra dell'impero globale americano, contro la Russia in primo luogo, utilizzando contro di essa i paesi dell'est e non esitando a sostenere al tal fine anche i peggiori regimi fascisti e ovviamente contro la Cina popolare e tutti i paesi che a prescindere dalla loro natura sociale e politico ostacolano o combattono l'imperialismo. In tal modo sono le stesse origini stesse dei fenomeni “totalitari” in questa ricostruzione storica di tipo ideologico insieme eurocentrica e anticomunista. Perfino un testo, pure destinato ad avere grande importanza nello scontro ideologico che ha segnato la guerra fredda tra il campo imperialista e quello socialista nella seconda metà del Novecento, come Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt non mancava di rilevare le più lontane origini del “totalitarismo” ben al di là del cosiddetto “secolo breve” nella crescita mostruosa degli apparati di dominio e di coercizione burocratici e militari dei maggiori stati capitalistici europei nell’epoca del colonialismo e dell’imperialismo: “i tre decenni che vanno dal 1884 al 1914- scriveva in una pagina del suo libro- separano il XIX secolo, conclusosi con la corsa alla conquista dell’Africa e la nascita dei pan-movimenti, dal XX, apertosi con la prima guerra mondiale. Si usa indicarli come l’epoca dell’imperialismo, caratterizzata da una quiete stagnante in Europa e da una frenetica ridda di avvenimenti in Asia e in Africa. Taluni suoi aspetti fondamentali appaiono così vicini ai fenomeni totalitari del XX secolo che si è tentati di considerare l’intero periodo come la quiete che precede la tempesta, una fase preliminare delle successive catastrofi.”[2] Appare evidente il tentativo del documento del parlamento europeo di rimuovere e cancellare dalla memoria storica dei popoli del continente proprio questo periodo che la stessa teorica del “totalitarismo” giudica una “fase preliminare delle successive catastrofi” del ‘900, allo scopo di cancellare così il ruolo fondamentale che l’Urss e il movimento comunista mondiale hanno svolto nel processo di decolonizzazione. La criminalizzazione del comunismo come “totalitarismo” insomma mira a cancellare i crimini del colonialismo e dell’imperialismo.
Certo il documento non manca talvolta di far riferimento allo “stalinismo” piuttosto che al comunismo in quanto tale. Alcuni interventi hanno a questo proposito concentrato la loro attenzione su questa apparente confusione. Anche qui, tuttavia, non si può non ammettere che il documento insiste su un elemento innegabilmente vero, ovvero la grande, enorme importanza del cosiddetto “fenomeno staliniano” non solo nella storia effettiva dell’Urss e del movimento comunista mondiale ma anche nella stessa definizione teorica e storica del modello di socialismo che l’Urss ha incarnato per una lunga fase della vicenda del “secolo breve”. A questo proposito potrebbe forse essere utile rileggere quanto affermò appena pochi mesi della sua morte a proposito dei “crimini” dello “stalinismo” un protagonista della storia del movimento comunista mondiale, quale Palmiro Togliatti. Intervenendo al Comitato centrale del PCI del 21-23 aprile 1964, il segretario del PCI avvertiva lucidamente insieme all'ambiguità, la sostanziale inadeguatezza della categoria di "stalinismo" ad una comprensione effettivamente critica e storica della grandiosa ma anche contraddittoria e complessa vicenda sovietica nel periodo compreso tra gli anni '20 e la gigantesca vittoria contro il nazismo, così come della stessa figura e opera di Stalin, di là da ogni impostazione superficialmente criminalizzatrice o liquidatoria. Così riferendosi alla denuncia compiuta da Suslov delle persecuzioni personali ordinate dall'alto nel periodo della direzione staliniana, affermava:
"Noi continuiamo però a ritenere che queste denunce debbano essere integrate da una più attenta e approfondita critica degli errori politici, che furono all'origine di tutti gli altri mali, delle cause di questi errori, del modo come incominciarono a manifestarsi e quindi presero il sopravvento. Quanto allo scopo di comprendere meglio i pericoli che possono minacciare un regime socialista e come si debbono combattere e allo scopo, inoltre, di non consentire ai nostri avversari di buttare nell'informe calderone del cosiddetto ‘stalinismo’ tutti i momenti positivi della storia del primo Stato proletario, dalla costruzione economica socialista alla grande politica estera democratica fatta da questo Stato mentre in Europa crollavano gli ordinamenti della democrazia, dal sovrumano sforzo di guerra alla lotta conseguente per l'unità, nella guerra, di tutte le forze progressive."[3]
Rilette oggi, le osservazioni di Togliatti colpiscono per la loro impressionante lucidità. È stata infatti proprio la categoria di "stalinismo" criticata dal grande dirigente comunista, ad avere aperto la strada alla criminalizzazione della storia dell'Urss e quindi dell'intero movimento comunista mondiale. Ciò per l'ovvia ragione che Stalin è stato innegabilmente il principale protagonista, la personalità in assoluto più rilevante per un lungo periodo di quella storia. La criminalizzazione di Stalin, immediatamente funzionale del resto alla "beatificazione" dei capi di stato e del leader politici dei paesi capitalisti e imperialisti non poteva non aprire la strada alla criminalizzazione del comunismo tout court e quindi alla nefasta teoria del totalitarismo. Ma l'aspetto più tragico di questa vicenda è che i principali responsabili di questa criminalizzazione, forse tra le cause più importanti della nostra sconfitta, sono stati proprio i sovietici. La categoria di "culto della personalità" sulla base della quale Kruschev nel suo celebre "rapporto segreto" al XX Congresso del PCUS denunciò i più gravi fenomeni di violazione della legalità socialista che avevano scandito i momenti di maggiore scontro sociale e politico nell’Urss degli anni ’20 e ’30, avrebbe finito per attribuire alla sola personalità di Stalin le responsabilità soggettive di quei fenomeni così inibendo o ostacolando una più seria indagine delle loro cause oggettive. Si è trattato di una grave limite del XX Congresso del PCUS, foriero di gravi conseguenze negli sviluppi successivi della vicenda sovietica, che non a caso lo stesso Togliatti non mancò di rilevare già nella celebre intervista a Nuovi argomenti del giugno 1956. In quell’importante intervento, il segretario del PCI sottolineò l’esigenza di approfondire l’analisi delle cause dei processi di “degenerazione” dei metodi di direzione politica del partito e dello stato sovietici che avevano portato nell’esercizio del potere staliniano perfino a forme di “tirannide” personale ma nello stesso tempo sottolineò come l’aver taciuto dei “meriti” di Stalin fosse stato uno “strano” errore sebbene “comprensibile” del XX Congresso.[4] Si può dire quindi che la categoria di “stalinismo”, pure inventata ai fini di una ricostruzione non puramente deformata e ideologica della storia del comunismo del Novecento, si è trasformata in architrave della mistificante “teoria del totalitarismo”.
Ma la critica alla teorizzazione ideologiche del “totalitarismo” non significa che una attenta e critica considerazione dei fenomeni totalitari che abbiamo conosciuto agli inizi dell’epoca dell’imperialismo e poi soprattutto a partire dalla guerra totale del 1914-1918 in Europa e nel mondo non sia non solo utile ma perfino indispensabile per una profonda comprensione anche del nostro più recente passato. Ma tale considerazione non può prescindere dalla concreta determinatezza dei contesti e degli sviluppi storici oltre che dalla natura delle classi e dei soggetti sociali e politici coinvolti in essi. I fenomeni totalitari che hanno caratterizzato in modo particolare la prima metà del Novecento si inquadrano dentro quella gigantesca “guerra di posizione” che ha visto contrapporsi l’Urss e il movimento operaio e comunista europeo e mondiale da un lato e dall’altro il campo capitalista e imperialista. Non c’è dubbio che gli anni ’30 siano stato il passaggio più drammatico di questa guerra “totale” nel corso della quale, come lucidamente vide Gramsci in carcere, entrambi gli schieramenti in conflitto furono costretti a mettere in campo tutte le loro potenzialità e riserve politiche e organizzative attraverso quella che il pensatore comunista definì una “inaudita concentrazione dell’egemonia”[5]. E’ tuttavia proprio la considerazione di questo contesto determinato a non consentire una equiparazione tra i due campi contrapposti né sul piano dell’analisi sociale né su quello della valutazione storico-politica. Così lo stesso Gramsci, nel cuore del Novecento, provava a fissare in una nota dei Quaderni del carcere quella che definiva una “politica totalitaria” sul piano dell’analisi delle forme politiche di governo e di dominio, di coercizione e di egemonia nella società: “una politica totalitaria tende: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore.” Ma subito egli precisava, passando dall’analisi delle forme politiche in quanto tali a quella della loro natura sociale e di classe colta nella concretezza della loro dialettica ed evoluzione storiche, come la medesima funzione egemonica e centralizzatrice del partito si svolgesse sia “quando il partito è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva”, sia quando “il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura diventi essa “’totalitaria’” e si “ha quindi una fase regressiva o reazionaria, oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.”[6] Ci pare che queste preziose indicazioni insieme teoriche e storiche di Gramsci sulla sostanziale differenza di là dalle loro apparenti analogie formali tra i vari tipi, progressivi e regressivi di “politiche totalitarie” ci possano guidare ad una comprensione critica e materialistica, ovvero non puramente ideologico-strumentale o formalistica dei cosiddetti “totalitarismi” del Novecento a partire dalla loro relazione non soltanto con l’evoluzione sociale e politica del mondo capitalistico ma anche con le stesse dinamiche della lotta di classe a scala mondiale che nelle forme di una lunga e complessa “guerra di posizione” tra forze storiche contrapposte ha così profondamente hanno inciso sulla vicenda del primo Stato operaio della storia.
[1] Cfr. Chris Bellamy, Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, Torino 2010, pp. 22-49.
[2] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano 1999, p. 171.
[3] P. Togliatti, Sul movimento operaio internazionale, Roma 1972, p. 334.
[4] Ivi, p. 248.
[5] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino 1975, p. 802.
[6] Ivi, p. 800.