Nunzia Augeri
(da “Marxismo Oggi”, n.3/2008)
Il 2008 ha portato gradi rievocazioni, discussioni e bilanci sugli avvenimenti del 1968, una data considerata spartiacque nel corso degli avvenimenti del secolo scorso. Sono stati anche ampiamente ricordati gli avvenimenti internazionali, sia il maggio francese che l’invasione della Cecoslovacchia, il 20 di agosto: un fatto che toccò molto da vicino l’opinione pubblica in Italia. Quasi nessuno però, nella stampa italiana, ha ricordato la strage avvenuta a Città del Messico il 2 ottobre 1968, pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, quando gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul paese che in America Latina deteneva una fama non del tutto immeritata di libertà e di apertura democratica, soprattutto per l’opera del leggendario presidente Lazaro Cardenas, negli anni Trenta del secolo scorso.
Dieci anni fa, in occasione del trentennale, la stampa un poco ne aveva parlato, ma per reiterare quella che era stata la tesi del governo di Gustavo Diaz Ordaz, il presidente del Messico in carica nel 1968: una congiura comunista, stroncata con una repressione resa necessaria dalle particolari circostanze, e che si era conclusa con 26 morti.
Nel 1968 io abitavo da due anni a Città del Messico, nel quartiere di Tlatelolco, proprio nell’edificio Chihuahua, prospiciente la Piazza delle Tre Culture, al quinto piano. Da pochi giorni avevo traslocato da un appartamento affacciato sulla piazza a un altro contiguo, sulla parte posteriore.
Quel 2 di ottobre il pomeriggio ero uscita per fare acquisti, lasciando in casa la bambina di due anni e il bimbo di quattro mesi con la domestica, un’anziana india. Intorno alle cinque era caduta qualche goccia di pioggia e mi ero affrettata a prendere un taxi per tornare a casa. Ricordando che sulla piazza era prevista una manifestazione, scesi dall’auto sulla Calzada de Nonoalco, il viale che passava davanti al grattacielo del Ministero degli esteri, e feci a piedi le poche decine di metri che mi separavano da casa.
Vedevo di scorcio l’enorme piazza gremita di gente, e sentivo che qualcuno parlava da una delle terrazze dell’edificio, ma non riuscivo a distinguere le parole. Mi diede però immediatamente molta noia un elicottero che volteggiava sopra la chiesa e la piazza: ho vissuto nell’infanzia i bombardamenti su Milano e qualsiasi cosa mi voli sopra la testa mi dà un profondo senso di disagio. Erano passati pochi secondi quando vidi che l’elicottero sparava una luce verde di bengala. A quel punto il disagio divenne paura. Scattai a correre malgrado il grosso pacco che mi impicciava, saltai i muretti del parcheggio e mi ritrovai trafelata dietro l’edificio. In pochi secondi si era scatenata una sparatoria fittissima. Infilai di corsa le scale, fino al quinto piano. In casa i bambini e la vecchia domestica erano tranquilli.
Presi le chiavi dell’appartamento che avevamo appena lasciato e andai a vedere con cautela, senza affacciarmi. All’estremità più lontana della piazza c’era un carro armato, mentre la grande spianata era già quasi vuota, solo gruppi di corpi che giacevano sparsi. Uno cercò di alzarsi e fuggire: una pallottola ben mirata lo raggiunse. Una scena del genere l’avevo già vista pochi giorni prima, il 29 di settembre all’alba, quando gli studenti liceali che occupavano la Vocacional siete, una scuola che si affacciava sul terzo lato della pizza, di fronte alla chiesa, erano stati abbattuti come selvaggina.
Tornai nel mio appartamento, chiedendomi disperata che cosa potevo fare. Niente. La sparatoria continuava, ma le pallottole si conficcavano nella parete dell’edificio di fronte alle mie finestre. A un rapido calcolo balistico, noi eravamo relativamente al sicuro: i bimbi ebbero la loro cena. Circa tre quarti d’ora dopo cominciava a imbrunire e la sparatoria sembrava cessata; cambiai il maglione rosso con uno scuro e uscii dall’appartamento per recarmi sulla terrazza dell’edificio e vedere meglio che cosa succedeva: la piazza era quasi deserta, sparsa come prima di corpi inanimati. Tornando verso l’appartamento – una breve rampa di scale – mi imbattei in un gruppo di cinque o sei uomini. Erano in borghese e pensai fossero studenti. Mi spinsero in un angolo e mi chiesero chi ero e cosa facevo; li guardai bene: erano troppo vecchi per essere studenti e le pistole che impugnavano erano tutte uguali, d’ordinanza. Inoltre avevano addosso qualcosa di bianco, che sul momento non capii che cosa potesse essere. Risposi con calma, dicendo che ero straniera e parlando inglese. Mi raccomandarono di stare ben chiusa in casa. Seppi più tardi che erano i provocatori del “Batallon Olimpia”, mandati a sparare dall’edificio per fingere che fossero gli studenti.
Dalla casa continuavo a sentire dei tiri isolati e cominciai a preoccuparmi per mio marito. Avevamo appuntamento alle otto per cenare fuori con un gruppo di amici, quasi tutti giornalisti. Tentai di telefonare a diversi numeri per avvisare che non potevo uscire, ma i telefoni erano staccati e non c’era modo di comunicare.
Erano circa le otto quando sentii bussare alla mia porta: una vicina di casa, incinta di otto mesi, era uscita per una visita medica lasciando a casa la bambina di cinque anni con una giovanissima domestica. Al ritorno si era trovata nel mezzo della sparatoria. In un momento di pausa aveva chiesto aiuto ai militari e le era stato dato un soldato di guardia che la accompagnasse fino a casa. Gli ascensori erano stati bloccati, lei abitava all’undicesimo piano e aveva trascinato il suo pancione per le scale. Arrivata al quinto piano non ce la faceva più: la mia porta le sembrò un’ancora di salvezza. Entrò in casa mia sconvolta dal terrore. La feci sdraiare sul letto, le preparai una camomilla – non avevo altri calmanti - credo che le somministrai perfino un paio di schiaffi per farla tornare in sé. A un certo punto, raggiungendo la cucina, notai qualcosa che luccicava dietro un mobile dell’ingresso: il soldato che aveva accompagnato la vicina si era rannicchiato nell’angolo e sollevò verso di m un viso imberbe, sconvolto: droga o paura? Lo spinsi fuori, preoccupata che la sua sparizione venisse notata. Se ne andò, trascinando u fucile più alto di lui.
Solo la presenza della bambina avrebbe calmato la signora. In un momento di calma bussarono alla porta: era la Croce rossa che cercava morti e feriti negli appartamenti. Pensai che fosse il momento adatto e mi lanciai per le scale fino all’undicesimo piano. La bimba e la ragazzina si erano salvate rifugiandosi nel bagno e l’appartamento, che dava sulla piazza, mostrava nei muri ampi squarci provocati dai cannoni dei carri armati. Per tornare a casa mia dovevamo però traversare una delle terrazze che si aprivano ogni tre piani. Dopo una breve esitazione, decisi che la cosa migliore era traversare in alto, al nono piano. Ci lanciammo tutte e tre accanto al muro interno: subito arrivarono alcuni colpi, ma troppo angolati e finirono in alto. Ormai al sicuro, ci raggiunsero alcuni infermieri della Croce rossa, che si gettarono su di noi per salvarsi: una patetica e ormai inutile piramide. Eravamo in salvo e scendendo le scale arrivammo al mio appartamento. La signora si calmò finalmente e in cucina preparammo la cena anche per le due nuove ospiti. Erano quasi le nove, i miei bimbi dormivano tranquilli e anche la bambina ebbe il suo lettino.
Ero sempre molto preoccupata per mio marito e grande fu la gioia al sentire suonare alla porta. Era però il marito della vicina, un alto magistrato, parente del comandante delle truppe che agivano nella piazza; ci raccontò con sdegno che aveva visto i soldati tagliare le dita ai morti per impadronirsi degli anelli. Una settimana dopo non se ne ricordava più.
Erano quasi le dieci e d’improvviso si scatenò l’inferno: una sparatoria fortissima dai quattro lati dell’edificio, e anche dal cielo ci mitragliavano con gli elicotteri. L’unico posto protetto della casa era un corridoio con una grande armadio a muro. Prendemmo i bambini dai loro letti, mentre le pallottole entravano in sala e in cucina. Entrai nella stanza del piccolo strisciando per terra e rovesciai la culla per farmelo cadere fra le braccia. Dopo pochi minuti sopra la culla arrivò una pallottola esplosiva che si aprì in un’ampia rosa di schegge. I bambini finirono dentro l’armadio a muro e tutti noi ci stringemmo nel breve corridoio. Fuori dalla porta si sentiva scrosciare per le scale il torrente d’acqua provocato dai buchi nei serbatoi che si trovavano sul tetto. Pensavo a mia madre, ai bombardamenti che aveva sopportato durante la guerra, nella nostra casa nei pressi della stazione centrale di Milano, e sapevo che era necessario resistere alla paura, alla disperazione, a tutto.
Appena calmata la sparatoria, che durò per un’eterna mezz’ora, grande fu la gioia di rivedere mio marito. Era arrivato poco prima e si era rifugiato fra i cespugli di un giardinetto vicino. Raccontò di aver visto mucchi di cadaveri vicino alla chiesa e sotto i portici dell’edificio. Ci affacciammo con cautela alle finestre dell’appartamento vicino, che davano sulla piazza: vicino alla chiesa, alla luce incerta di un’unica lampadina, si vedevano due grandi mucchi di corpi, e qualche ombra che si muoveva.
In casa avevamo ancora acqua ed elettricità. Andammo a letto, per un breve sonno nervoso. Alle sei del mattino eravamo di nuovo in piedi. Alcune famiglie se ne andavano. Accanto alla chiesa un uomo lavava ampie pozze di sangue. Ai quattro angoli dell’edificio si erano piazzati i carri armati e reparti dell’esercito occupavano ogni piano. Quando mio marito uscì dovemmo svegliare e far scostare un soldato che dormiva a ridosso della nostra porta.
La bimba a due anni non capiva perché mai quel giorno dovesse essere diverso dagli altri: si mise a strillare perché voleva uscire a giocare. E io pensai che la vita doveva continuare a Tlatelolco, perché chi vive, ricorda. Uscii con i due bimbi, e immediatamente alle mie spalle si misero due soldati. Il campo giochi era deserto e la bimba lanciava strilli di gioia con tutta l’altalena a sua disposizione. Schierati sull’attenti accanto all’altaleno, i due soldati col mitra erano il simbolo della ferocia, della stupidità, della paura.
Vivemmo quindici giorni con l’occupazione militare e il coprifuoco che impediva di uscire appena buio. Pochissime famiglie erano rimaste, anche perché solo sulla mia scala disponevamo di luce e acqua, mentre le altre ne erano prive. Vari amici mi offersero ospitalità, ma volli restare a Tlatelolco per dimostrare che c’erano dei testimoni. Alcuni amici vennero a trovarmi e qualcuno riuscì perfino a fare delle fotografie. Le vicine vennero a raccontarmi tutto ciò che avevano visto e vissuto: un’infermiera aveva cercato di soccorrere i feriti ammucchiati nei sotterranei e aveva visto come li uccidevano brutalmente. Un’altra aveva perduto il figlio quattordicenne, raggiunto da una pallottola perché si era affacciato a vedere che cosa succedeva; nei giorni successivi due uomini erano passati a diffidarla dal parlare del figlio ucciso, altrimenti la seconda figlia sarebbe stata in pericolo. Una famiglia intera era scomparsa, lasciando la finestra aperta e un tavolo ancora apparecchiato per la cena; restò così per settimane, ben visibile dalla spianata della piazza, finché qualcuno fece chiudere tutto. Facendo dei conti abbastanza precise, fra quello che avevamo visto noi e quello che avevano visto i vicini residenti in diversi appartamenti con diverse visuali, risultò che solo sulla piazza i morti erano stati circa trecento. Più quelli che erano stati uccisi nelle case, negli scantinati, nelle vie circostanti. Nessun cadavere venne riconsegnato alle famiglie, nessun funerale turbò la città che si preparava alle Olimpiadi.
Di fatto tutto era cominciato nel luglio 1968 con una rissa fra due gruppi di liceali, pare a causa di ragazze. Le autorità intervennero subito col pugno di ferro, mandando i “granaderos”, delle truppe speciali antisommossa. Fu una scintilla che fece divampare un incendio. Nel giro di pochi giorni, varie scuole superiori si misero in sciopero, le truppe entrarono nei licei, che in Messico dipendono direttamente dall’Università, e quindi godono del particolare status di autonomia gelosamente difeso dalle autorità accademiche. Gli studenti medi e universitari organizzarono subito un Consiglio nazionale per coordinare le manifestazioni che si estendevano ad altre università del paese. Gli studenti rivendicavano libertà per i prigionieri politici, la fine della repressione e il ritiro delle leggi varate negli anni precedenti che criminalizzavano il diritto di sciopero, di riunione, di manifestazione del dissenso.
Una manifestazione in agosto portò sulle strade della città duecentomila persone che appoggiavano le richieste degli studenti e sfilavano non solo in perfetto ordine, ma anche in silenzio: un enorme corteo davvero impressionante. Di fatto, dietro agli studenti si era schierata la classe media emergente del paese, che avendo raggiunto un minimo di status economico rivendicava il diritto di intervenire nella vita politica, sottraendola alla dittatura del Partido Revolucionario Institucional, che deteneva il potere dal 1917, e delle trecento famiglie che dominavano il paese. Era impressionante vedere come bottegai, madri di famiglia, persone qualsiasi contribuissero largamente a sovvenzionare il movimento studentesco.
La repressione fu subito durissima. Infierì in un primo tempo al Politecnico. Sulla stampa non ho mai trovato ricordo del massacro che ci fu là alla fine di settembre. Era presente per caso un docente italiano, che riuscì a chiamare per telefono la nostra ambasciata, e riferì di aver visto un pullman carico di decine di corpi di studenti uccisi. E sempre alla fine di settembre, in un pomeriggio di scontri sulla piazza di Tlatelolco, gli abitanti gettarono tutto quel che capitava, compreso l’olio bollente, sui “granaderos” che inseguivano i ragazzi. Il 2 di ottobre ne ebbero la punizione.
Di quella strage si assunse piena responsabilità l’allora presidente Gustavo Diaz Ordaz. Non vi fu estraneo però l’allora ministro degli Interni, Luis Echeverria Alvarez, che divenne poi il Presidente della repubblica successivo. E naturalmente non vi fu estranea la CIA che secondo documenti desecretati nel 2003, contribuì a organizzare il massacro e preparò le truppe che vi dovevano partecipare.
Dopo quel 2 di ottobre, su Città del Messico e su tutto il paese calò una cappa pesante di silenzio e di timore. Ma dieci anni dopo, quando l’ormai ex presidente Diaz Ordaz era destinato al posto di ambasciatore del Messico in Spagna, tutta l’Europa scese in piazza a manifestare la propria riprovazione: ricordo un manifesto degli studenti di Madrid, che diceva più o meno: “E’ vero che noi vi abbiamo mandato Cortes, però per favore non mandateci in cambio Diaz Ordaz”. Perfino nella lontana Finlandia, dove abitavo allora, alcuni cittadini messicani si presentarono all’ambasciata per restituire il passaporto in segno di protesta.
Passarono trent’anni e nel 1998 mi recai in Messico per deporre di fronte alla Commissione parlamentare di inchiesta da poco istituita. Abitavo ancora a Tlatelolco, ospite di una famiglia di miei vecchi vicini e amici, i quali una sera radunarono altri vicini che avevano vissuto quella giornata. Nessuno di loro accettò di seguirmi e rendere testimonianza di ciò che avevano visto. Mi dissero: “Cara, tu poi prendi l’aereo e parti. Noi restiamo qui”. E per restare in Messico era meglio tacere.
Io non ho taciuto. Sono andata a parlare, a ricordare. Forse non è servito a molto, ma lo ritenevo un dovere, io che sono sopravvissuta, nel ricordo dei nostri tanti amici, messicani e non solo, sacrificati sull’altare di un brutale Huitzilopochtli che continua a nutrirsi del sangue latinoamericano.