Vito Francesco Polcaro
Che nella società moderna, la scuola, l’università, la ricerca ed in generale la cultura, abbiano un ruolo determinante per garantire lo sviluppo sociale ed economico è cosa così ovvia che nessuno si azzarda a metterla in discussione.
D’altra parte, che a scuola, università e ricerca l’Italia dedichi meno attenzione di qualsiasi altro paese industrializzato (e, ormai, anche di diversi paesi in via di sviluppo) è talmente noto che non c’è bisogno di ribadirlo: come ripeteva spesso il compagno Antonino Cuffaro, quando era Sottosegretario alla ricerca scientifica, questi temi in Italia sono prioritari per tutti per 11 mesi all’anno ma nel dodicesimo, quello nel quale si approva la legge finanziaria, non contano più nulla. Se vogliamo, ora la situazione è anche peggiore, perché i fondi per istruzione e ricerca si tagliano anche “fuori stagione”.
Qualcosa quindi non funziona: per quale motivo, se tutti sono d’accordo che il sapere è importante, che viviamo nella “società della conoscenza”, che solo i paesi che sanno come svilupparla potranno contare nel mondo “globalizzato”, la situazione della scuola, dell’università e della ricerca in Italia non fa che peggiorare sempre più in fretta, tanto che ormai si ha quasi la certezza che, senza una inversione di rotta si arriverà tra breve al loro collasso? Cosa bisogna fare per cambiare questa situazione?
Per rispondere a queste domande, è necessario entrare un po’ nel merito della teoria che sta alla base della affermazione condivisa da tutti gli economisti, indipendentemente dalla loro impostazione, per la quale “la scienza e la tecnologia sono necessarie” e vedremo subito che anche questa affermazione non è neutrale rispetto all’impostazione politica.
In primo luogo, è bene separare i termini del problema perché scienza, tecnologia ed innovazione tecnica non sono affatto la stessa cosa.
Per semplificare (anche a costo di essere troppo schematici), definiamo “scienza” la conoscenza generale, finalizzata all’avanzamento della comprensione della natura e della società, accettata da una comunità sulla base della sua coerenza e della capacità di spiegazione e di previsione che offre. Chiamiamo “tecnologia” una conoscenza generale, finalizzata all’individuazione di soluzioni generali di problemi specifici, accettata da una comunità sulla base della sua applicabilità operativa ed “innovazione tecnologica” una conoscenza specifica, finalizzata alla soluzione di problemi specifici, accettata caso per caso sulla base della sua adeguatezza effettiva, anche indipendentemente dalla conoscenza di principi sottostanti (Adamoli, 2012).
Il primo studioso ad includere il concetto di innovazione tecnologica nell’analisi economica è stato indiscutibilmente Marx, nel III libro del Capitale. Secondo Marx, in un sistema capitalistico, l’innovazione tecnologica è attuata allo scopo di ridurre il costo individuale della merce. Infatti, secondo Marx, una macchina riduce il costo individuale di produzione perché produce di più nello stesso tempo, ad esempio meccanizzando processi prima manuali, rendendo più veloci alcuni processi, suddividendoli in più fasi ecc. Il singolo produttore si serve del nuovo macchinario se il costo complessivo dell’innovazione consente un risparmio di lavoro e dunque una riduzione del valore delle merci prodotte. Sul mercato arrivano le merci prodotte con i diversi metodi ed escludendo differenze qualitative (supponendo cioè che tutti i metodi produttivi producano merci identiche), sul mercato si formerà un unico prezzo per ogni singola merce, a prescindere dai metodi produttivi con cui viene prodotta. Se l’uso di una macchina consente un risparmio di costi, il prezzo che si forma sul mercato premierà l’innovatore. Nel tempo, si arriva ad una situazione in cui tutti i produttori adottano metodi produttivi simili e a quel punto ci sarà già chi sta introducendo un nuovo metodo. L’innovazione rappresenta così l’operare della concorrenza tra i singoli capitali. Marx quindi tratta la questione dell’innovazione tecnologica separatamente da quella sulla scienza, che affronta in altre sue opere.
La prima approfondita trattazione dell’innovazione è però dovuta all’economista austriaco Joseph Alois Schumpeter a partire dalla Teoria dello sviluppo economico (Schumpeter, 1911). Schumpeter si rifà largamente ai concetti marxiani, ma li interpreta in un quadro nel complesso di economia classica.
Secondo Schumpeter, sono cinque i casi in cui viene intrapresa l’innovazione:
- produzione di un nuovo bene
- introduzione di un nuovo metodo di produzione
- apertura di un nuovo mercato
- conquista di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di semilavorati
- riorganizzazione dell’industria innovatrice per consolidare il suo vantaggio
Anche Schumpeter affronta solamente il ruolo economico della tecnologia, ma non si occupa se non marginalmente del ruolo della scienza: egli infatti rimane ancorato al modello positivista, che identifica una filiera che nasce dalla ricerca di base, che genera ricerche applicate, dalle quali derivano poi le innovazioni tecnologiche e da queste il prodotto innovativo (modello lineare dell’innovazione). A Schumpeter, di questo processo, interessa solo l’innovazione tecnologica, perché solo a questa attribuisce un valore economico. Derivando da processi ritenuti estranei all’economia, l’innovazione è quindi per Schumpeter un fattore esogeno rispetto sistema economico, che ha bisogno di un tramite per entrare a farne parte. Questo autore attribuisce quindi all’imprenditore (imprenditore-innovatore) il ruolo di convertire l’invenzione (fatto tecnico) in innovazione (fatto economico). Questo “imprenditore taumaturgo” è quindi il “motore” dello sviluppo economico: solo alla fine della sua attività scientifica Schumpeter riconosce (partendo dalla considerazione empirica dell’evoluzione del capitalismo verso la fase manageriale) che l’impresa di grandi dimensioni è diventata il motore del progresso tecnico ed economico, sostituendosi all’imprenditore-innovatore come anello di congiunzione tra invenzione ed innovazione, in quanto gode di maggiori risorse, che le permettono di indirizzare il processo di avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche; essa è, cioè, in grado di realizzare al proprio interno attività di ricerca e sviluppo tali da controllare l’innovazione ai fini della propria crescita (creazione della funzione aziendale autonoma di ricerca e sviluppo).
Questa visione shumpeteriana si è poi evoluta in una miriade di studi successivi, sia all’interno dell’economia classica e neoclassica che all’interno di quella keynesiana che in quella “eterodossa”, ma i principi sono rimasti sostanzialmente gli stessi.
Peccato che questi principi presentano una serie di problemi e di contraddizioni che all’inizio del XX secolo poteva essere difficile identificare ma che ora debbono essere tenute in conto. In particolare è il modello di progresso tecnologico lineare ad essere concettualmente sbagliato.
Solo la linea di pensiero che si rifà a Schmookler (negli anni ’60) e poi, più compiutamente, a Kline e Rosemberg (anni ’80), realizza che tra innovazione tecnologica e “scienza” il legame è più complesso, perché può esistere un’innovazione tecnologica che non ha nessun legame con la “scienza”, nel senso definito precedentemente: è famoso l’esempio, riportato in Inside the black box di Rosemberg (1982) del container, la maggiore innovazione del XX secolo nel campo dei trasporti, che non richiede maggiori conoscenze “scientifiche” di quelle che ha qualsiasi autotrasportatore che sa che, per portare un gran numero di oggetti diversi, è più comodo metterli in una scatola piuttosto che caricarli sul camion uno per uno.
In realtà, proprio Rosemberg mostra come la “catena lineare dell’innovazione” accettata da Schumpeter non abbia basi reali, ma vada invece sostituita da un modello nel quale la scienza e la tecnologia corrono su due binari paralleli ed indipendenti, prendendo l’una dall’altra quando se ne senta la necessità. In particolare, la tecnologia metterà a disposizione della scienza strumentazione sempre più potente, che non solo permetterà di raccogliere dati utili per risolvere problemi aperti, ma metterà anche in evidenza fenomeni che non sono spiegabili dalle teorie correnti, spingendo a “rivoluzioni scientifiche”, nel senso dato a questo termine da Khun. D’altro canto, la scienza offrirà alla tecnologia la possibilità di utilizzare nuovi principi per ottenere soluzioni precedentemente impossibili o anche per affrontare problemi che in precedenza non si potevano neppure immaginare.
Quindi, non ha alcun senso trascurare lo sviluppo della “scienza” in favore di quello della tecnologia, sperando che la soluzione dei problemi dello sviluppo (sia quello dell’impresa che quelli della società: in questo contesto poco importa) derivi solo da ricerche finalizzate a problemi specifici ed attuali, perché se non si sviluppa contestualmente la “conoscenza” in generale, quando si avrà bisogno di nuovo sapere per risolvere un problema contingente sarà sempre troppo tardi.
Perciò, è necessario sostituire i concetti di “scienza” e “tecnologia” con un concetto più generale di “conoscenza”, che comprenda sia il “sapere” che il “saper fare”. Se questa conoscenza viene parcellizzata in conoscenze parziali, che non dialogano l’un l’altra, il suo sviluppo inevitabilmente si interrompe, perché è proprio dallo scambio continuo che deriva la sua crescita. Da ciò si deduce una conseguenza immediata: una volta che la tecnologia viene legata indissolubilmente con la “scienza” in un unico concetto di “sapere”, il suo ruolo nel circuito economico cambia totalmente, perché il sapere non è una merce ma un “bene comune”, dato che esso aumenta e non diminuisce il suo valore con la condivisione.
Questo è l’errore fondamentale di tutta la visione mercantilistica della ricerca voluta dal neoliberismo, che ha avuto la sua prima formulazione teorica in un documento dell’OCSE di un terzo di secolo fa e che è stato successivamente scopiazzato, come i temi degli studenti poco brillanti, per un terzo di secolo e senza neppure capirlo bene nei documenti e nelle proposte di ministri più o meno “conservatori” e di sedicenti “esperti” più o meno “accademici” di tutto il mondo, Italia inclusa.
La teoria neoliberista infatti, forzando il concetto, sicuramente giusto e persino banale, per il quale una società tecnologicamente avanzata è inevitabilmente basata sulla conoscenza anche nell’economia, interpreta il sapere non come un bene comune ma solo come una merce e gli assegna quindi un valore solo quando produce profitto. Alla produzione di profitto deve perciò essere condizionata l’organizzazione della scuola, dell’università, della ricerca, tagliando i costi di produzione e mettendo gli operatori in sfrenata concorrenza tra loro, per accaparrarsi le “commesse” dei potenziali clienti. Non c’è quindi più posto per la libertà di pensiero e di insegnamento, la curiosità intellettuale, lo sviluppo armonico della personalità dei giovani, l’utilità sociale.
La sola “conoscenza” che il neoliberismo considera è quindi quella tecnologica, anche avanzatissima ma totalmente sussunta nelle merci e nei processi che la producono, e tollera ogni altra forma di conoscenza, che chiama, appunto, “di base”, solo se la considera un gradino propedeutico per produrre tecnologia e, da questa, profitto. Non a caso, spesso, se non sempre, quando si parla di “società della conoscenza” si sta in realtà parlando di “economia della conoscenza” e, parlando di “economia” si sottintende ovviamente l’aggettivo “capitalistica”.
D’altra parte, moltissimi di coloro che si sono opposti alla visione neoliberista del “sapere”, le contrappongono una concezione che chiamano “antiriduzionista”: confesso che non sono mai riuscito a capire esattamente cosa si intende con questo termine, anche se lo sento ripetere di continuo. Temo tuttavia che, anche nella sua versione più seria (quella, per intenderci, che parte dalla fisica quantistica e non quella che finisce per giustificare anche l’astrologia, la medicina omeopatica e ogni stravaganza del genere) non si tratti di altro che di una n-esima riedizione di una visione idealistica del sapere: credo che, dopo il lavoro di Engels, di Lenin e, infine, di Geymonat, sprecare parole per contestare questa visione della scienza sia inutile. Non è però inutile ricordare a questi compagni che, in politica, sbagliare l’analisi anche nella massima buona fede corrisponde inevitabilmente a fallire nell’azione che da questa analisi deriva.
Dobbiamo perciò chiederci da quale visione del “sapere” bisogna dunque partire per fondare una vera “società basata sulla conoscenza”.
Chiariamo subito che qui non si intende assolutamente sostenere la tesi che gli “antiriduzionisti” ed i neoliberisti siano ugualmente dannosi e neppure quella, semplice ma non per questo esatta, che non c’è differenza tra il modello di Berlinguer e Bousquin e quello di Berlusconi e poi di Monti e dei “professori” della Bocconi. I passati governi di centro-sinistra europei hanno fatto certo un errore nella propria politica dell’istruzione e della ricerca: hanno pensato che fosse possibile fare concorrenza all’America sul suo terreno e su questo superarla. Il governo dei “professori” e dei banchieri, come prima quello del “bunga-bunga” e poi quello dei “rottamatori”, non intendeva fare alcuna concorrenza agli USA, ma solo assecondarli in tutto e farsi loro suddito per ottenerne la copertura. La differenza quindi c’è ed è enorme: ora si sta tentando di ridurre la quantità di sapere nella società italiana, per renderla meno consapevole e quindi più docile; prima, si è tentato invece di aumentarvi il contenuto di conoscenza, ma non ci si è riusciti perché il modello che si cercava di inseguire non è esportabile, dato che si basa sulla enorme disponibilità di risorse che si può ottenere solo controllando l’intero pianeta (contrariamente a quel che si pensa, il sistema americano è assai poco efficiente, perché la precarizzazione comporta sprechi enormi di risorse umane, e diviene estremamente efficace solo perché sostenuto da finanziamenti al di fuori della portata di qualsiasi altra nazione), e non è compatibile con una politica democratica, perché intrinsecamente basato su di una selezione di classe e di censo (non a caso, solo il suo segmento privato riesce a produrre istruzione di una certa qualità, anche se solo in piccola quantità, tanto che poi gli USA debbono “drenare” cervelli da tutto il mondo per far fronte alle proprie esigenze).
Quindi, quando e se una vera Sinistra (cioè una rappresentanza del mondo del lavoro) andrà al governo del Paese, non dovrà solo abrogare le “riforme” delle destre e dei banchieri, ma anche correggere gli errori del passato: questo però può essere più facile di quanto sembri. Infatti, il sistema formativo italiano, come si era configurato a partire dalla riforma Gentile, aveva due problemi fondamentali: da un lato quello derivante dalla sua impostazione di matrice idealistica, con la conseguente intrinseca scala dei saperi che poneva quelli umanistici come prioritari e quelli scientifici e tecnologici come inferiori (ed ai quali quindi si doveva dedicare minore attenzione) e dall’altro quello di essere un sistema elitario, totalmente incapace di fornire una istruzione di massa, dato che era concepito proprio per aumentare le distanze sociali. Tuttavia, le trasformazioni subite dal sistema gentiliano, in buona parte per la spinta del movimento dei lavoratori, a partire dalla riforma delle elementari e dall’istituzione della scuola media unica, avevano già eliminato una grossa parte del problema. Questo si era ormai ridotto solo alle scuole superiori, con i licei che fornivano un’istruzione di buona qualità (anche se troppo sbilanciata verso la cultura umanistica) e gli istituti tecnici e, soprattutto, professionali che restavano configurati come una forma residuale di “avviamento al lavoro”, che, per altro, con le trasformazioni subite dal sistema produttivo, di solito non avviava proprio a niente. La riforma Berlinguer avrebbe potuto rimediare a quest’ultima parte del problema se non avesse commesso l’errore di cercare di farlo riducendo i costi, seguendo il “modello americano”, che, come abbiamo detto, è più economico di quello europeo solo nella sua parte che non funziona. Quindi, per fare posto ad una maggiore quantità di conoscenze scientifico-tecnologiche, di storia moderna, di attività pratica (tutte cose ottime e necessarie), si è scelta la strada di tagliare la formazione umanistica e di affidare la trasmissione del “saper fare” al mercato. Ma sarebbe bastato invece aumentare il periodo di scuola obbligatoria, il numero di docenti, il tempo scuola e le risorse materiali (aule, laboratori, biblioteche, palestre, fondi per le attività complementari scelte dalle scuole in autonomia e magari anche gli stipendi dei docenti) per trovare lo spazio per affiancare all’ottima cultura umanistica trasmessa nei licei una altrettanto buona cultura scientifica e tecnologica di base, una cultura unitaria per formare una generazione di cittadini veramente pronti ad una vera “società basata sulla conoscenza”.
Per l’università, in realtà si sarebbe dovuto cambiare ancora meno: il suo ottimo livello è dimostrato dal fatto che i laureati italiani, che non trovano lavoro in Patria, non hanno alcuna difficoltà a trovarlo all’estero. Bisognava solo diminuire il numero di coloro che non riuscivano a concludere gli studi ma, per ottenere questo, una volta rimediato alla carenza di cultura scientifica di base (non a caso, coloro che riescono a terminare gli studi umanistici sono percentualmente molto di più di coloro che arrivano ad ottenere la laurea in materie scientifiche) bastava di nuovo aumentare il numero dei docenti, assurdamente basso ed assolutamente inadeguato a seguire il numero di nuovi iscritti all’università da quando (proprio a causa della minore selezione di classe nelle scuole) questo è enormemente aumentato, aumentare i fondi per la ricerca e le risorse materiali per questa e per la didattica (di nuovo, aule, biblioteche, laboratori) e i fondi per il diritto allo studio, permettendo a tutti gli studenti, anche a quelli che non hanno alle spalle una famiglia che li può sostenere, di poter studiare senza doversi arrabattare per trovare un alloggio e il vitto, combattere contro i costi dei libri e degli altri strumenti necessari per uno studio moderno e di assicurare loro tempi di studio distesi, senza dover districarsi tra il seguire corsi sempre più totalizzanti, lavorare (sfruttatissimi) per mantenersi all’università ed avere un minimo di vita sociale (che ad un giovane non si può negare). Bisogna comunque dire che, sul piano del diritto allo studio, qualcosa i governi di centro-sinistra hanno fatto, mentre quelli successivi hanno solo tagliato fondi a man bassa. Il problema quindi non è stato quello di introdurre la “laurea breve”: anche se non era affatto necessaria, se la si voleva fare, essa non avrebbe generato alcun problema se non si fosse pensato contemporaneamente di dovere per forza renderla “professionalizzante” (anche per quei tipi di studi ove era palesemente impossibile) e non si fosse preteso, sempre per tenere il costo della riforma a zero, che la laurea triennale divenisse lo sbocco privilegiato degli studi universitari.
Per gli enti pubblici di ricerca, al posto di tanti sterili esercizi di “ingegneria istituzionale”, sarebbe bastato intervenire sulla drammatica carenza di finanziamenti e di personale e sulla reale possibilità di applicazione del principio costituzionale della libertà di ricerca, sulla quale l’unico provvedimento effettivo è stato la riduzione dello storico precariato al CNR operata dal compagno Cuffaro quando era sottosegretario, cosa certo importantissima ma da sola non sufficiente se contemporaneamente non si fosse mantenuto in moto un meccanismo per evitare che si ricostruisse immediatamente, come è poi successo inevitabilmente.
Sulla ricerca industriale, bisognava prendere atto che l’imprenditoria italiana, per la sua stessa natura, non poteva essere spinta ad interessarsene solo da un meccanismo di incentivi e che il sistema produttivo andava modificato da una politica di interventi diretti dello Stato.
Se allora vogliamo in conclusione enunciare cosa serve per permettere ad un modello di società basata sulla conoscenza di decollare, possiamo riassumerlo in poche parole: serve una visione di sistema che può derivare solo da un “pensiero unitario” alla Geymonat, più cultura, più libertà di pensiero, programmazione dell’economia ed un intervento concreto dello Stato in questo settore. Aver trascurato ideologicamente queste esigenze e’ stato nel recente passato uno degli errori più gravi della sinistra, che non deve più ripetersi.
Vito Francesco Polcaro
Riferimenti bibliografici
Adamoli G. Innovazione tecnologica, impresa e competitività, 2012, http://www.adamoli.org/gelasio67/innovazione-tecnologica/PAGE0008.HTM.
Keynes J. M. Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta, ”Collana degli Economisti”, UTET, Torino, 1936 (ristampa 2006).
Schumpeter J.A., Teoria dello sviluppo economico, ”Collana degli Economisti”, UTET, Torino, 1939, vol. V (ristampa: ETAS, Milano, 2009).
Khun T. S. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962 (ristampa: Einaudi, Torino, 2009).
Marx K., Il capitale – libro III, 1894 (ristampa Newton Classici, 2008).
Rosemberg N, Inside the black box, Cambridge University Press, Cambridge (MA), 1982.