Paolo Crocchiolo *
È uscito recentemente in libreria un nuovo libro di Federico Rampini Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto (Mondadori, 2024)[1].
Già a partire dal titolo, il concetto di “Occidente” sembra alludere a un’entità a sé stante, a prescindere cioè dal contesto storico che lo lega dialetticamente al “non-Occidente” e soprattutto al “Sud globale”.
Nella narrazione rampiniana l’idea di Occidente finisce per identificarsi con il modello di civiltà incarnato dal libero mercato e dal capitalismo tout court, trascurando completamente il travagliato percorso storico che ha caratterizzato nel loro evolversi la nostra come le altre società umane.
Dal punto di vista del materialismo storico le origini dell’Occidente si possono far risalire alla “rinascita dell’anno mille” e alle Crociate, vere e proprie guerre proto-coloniali in occasione delle quali le nascenti borghesie commerciali dei comuni e soprattutto delle repubbliche marinare si affacciavano per la prima volta come forze autonome rispetto al preponderante mondo feudale. È però solo più tardi, nel Rinascimento, che l’accumulo di risorse e di potere da parte della nuova classe emergente, anche in coincidenza con la conquista dei territori d’oltremare e lo sfruttamento intensivo delle loro popolazioni, comincia a tradursi in progressi culturali sia nel campo filosofico-umanistico che in quello della ricerca e, conseguentemente, delle scoperte tecnico-scientifiche (che prima erano state piuttosto monopolio di altre zone non-occidentali come il mondo islamico, o come la Cina, quest’ultima però più tesa ad isolarsi in sé stessa e a non espandersi militarmente in altri continenti). Già Marx rilevava come la produzione delle risorse materiali tendeva a trasformarsi in produzione di risorse intellettuali che a loro volta contribuivano in un rapporto dialettico a retroagire sull’acquisizione delle prime.
Allo sfruttamento della forza lavoro europea, reso particolarmente efficiente grazie alla rivoluzione industriale, si aggiunse quindi in misura crescente quello della nuova manodopera schiavistica dei paesi colonizzati, vero e proprio combustibile umano gettato nella fornace del sistema capitalistico, quest’ultimo caratterizzandosi d’altra parte come un superamento di quello feudale per un suo più razionale uso della forza lavoro umana integrato con il lavoro delle macchine. L’artefice di tale superamento, la classe borghese, rappresentava dunque inizialmente una forza rivoluzionaria nella misura in cui lottava per conquistare il potere politico sostituendosi all’aristocrazia. La rivoluzione francese rappresentò in questo senso il punto di svolta, dopodiché, una volta consolidato il proprio potere nel corso dell’ottocento, la borghesia industriale ebbe modo di sviluppare pienamente le sue potenzialità attraverso la conquista e il saccheggio di territori sempre più vasti, il che a sua volta si tradusse via via in un accumulo di risorse materiali disponibili a finanziare le scoperte tecnico-scientifiche utilizzabili, anche in campo militare, per consolidare e imporre ovunque il sistema del libero mercato-libera impresa-libero profitto e libero sfruttamento.
Non è tanto l’Occidente in sé quindi, quanto il sistema capitalistico nel suo insieme e dunque con la partecipazione e l’indispensabile contributo delle masse oppresse (a diversi livelli) dello stesso Occidente e del resto del mondo, ad essere stato all’origine della tanto decantata quanto presunta “superiorità” della nostra civiltà (“Perché possiamo dirci superiori”, III Capitolo [2]). Il che significa anche che non esiste l’Occidente buono benefattore dell’umanità separato da quello cattivo sfruttatore delle classi lavoratrici e oppressore dei popoli sottomessi con la forza al suo dominio. L’Occidente è sempre lo stesso e in tanto produce beni materiali e culturali (arte, scienza ecc.) in quanto è dialetticamente e inscindibilmente collegato con il non-Occidente. I lavoratori del mondo non-occidentale hanno infatti creato nei secoli le condizioni materiali determinanti per sviluppare una cultura artistica e soprattutto tecnico scientifica-umanistica (la cosiddetta “civiltà” così definita tout court) che è stata poi utilizzata per consolidare il potere delle classi dominanti nell’ambito del sistema capitalistico globalizzato. Senza parlare della ricerca e produzione in campo militare, che sono state appunto (e sono tuttora) lo strumento fondamentale, nonché la garanzia di ultima istanza, delle classi dominanti per mantenersi al potere[3]. La scienza “occidentale”, insomma, in realtà è un prodotto dell’umanità nell’insieme delle sue varie componenti, sviluppata nei secoli più recenti principalmente nel contesto geografico “occidentale”, in cui si è storicamente localizzato il modo di produzione capitalistico. Infatti, i progressi tecnici, scientifici, artistici e culturali in genere, compiuti dall’umanità nel corso della sua storia, non possono essere compresi al di fuori dell’evolversi storicamente determinato dei modi di produzione e degli ordinamenti sociali e politici che ne sono espressione.
Ma è proprio il trionfo del capitalismo globalizzato di matrice occidentale che ha determinato e continua a determinare l’uso ineguale dell’insieme delle risorse materiali e intellettuali prodotte, in funzione delle diseguaglianze sociali su cui esso stesso si regge e che contribuisce a creare. È nel contesto più vasto delle logiche di mercato e, su scala planetaria, del colonialismo e neocolonialismo che vanno inseriti infatti i meccanismi che sottendono alla produzione e distribuzione dei beni.
Partiamo dalla salute: Rampini tesse le lodi “della scienza occidentale, del capitalismo farmaceutico occidentale, della generosità occidentale, [che] scopre vaccini e cure che salvano vite nei paesi più poveri”[4], sia pur ammettendo, genericamente, che “cure e profilassi non giungono mai così velocemente come si vorrebbe”[5]
Generosità?
In realtà, innumerevoli sono gli esempi che si potrebbero citare a dimostrazione del fatto che la produzione e distribuzione di farmaci e vaccini sui mercati mondiali sono rigorosamente regolate dalle logiche della massimizzazione dei profitti delle grandi imprese private che ne detengono il monopolio (e questo vale anche per tutti gli altri beni, distribuiti a seconda di quanto possa rendere l’investimento nei diversi contesti socioeconomici in cui viene fatto). Quando Rampini cita il caso della beneficienza effettuata, bontà loro, da Bill e Melinda Gates[6] a certe popolazioni povere del globo, dimentica che tali donazioni sono solo una piccola parte delle immense ricchezze accumulate dagli stessi Gates nel più ampio contesto del saccheggio delle risorse di quegli stessi paesi operato dal mondo occidentale, in primo luogo mediante il meccanismo dei debiti-capestro che gravano su di essi sin dal momento della loro formale decolonizzazione.
Altre significative omissioni della narrazione rampiniana sono lo stanziamento dei fondi destinati a ricerca, sviluppo e produzione di nuovi farmaci e vaccini, rigidamente ispirato alla logica del ritorno economico delle somme investite, adeguandosi convenientemente alle situazioni di volta in volta prevalenti nelle popolazioni dei potenziali acquirenti e quindi del potenziale “mercato”; e, per conseguenza, la strenua difesa dei brevetti sulle terapie salvavita dell’AIDS, che si tradusse in milioni di morti che non disponevano dei mezzi necessari per accedere alle cure per tutti gli anni in cui la loro vendita era appunto rigidamente regolata da tali brevetti.
Quanto ai vaccini, totalmente monopolizzati dalle grandi imprese private, sono tre i fattori che ne regolano la produzione e la distribuzione: il primo, che non ha nulla a che vedere con la politica, riguarda la loro immunogenicità, che dipende dalla maggiore o minore capacità dei microrganismi di suscitare una risposta anticorpale efficace nei loro confronti da parte dell’organismo ospite. Ad esempio, virus come quello dell’epatite C o dell’AIDS non sono risultati suscettibili ad alcun vaccino sino ad ora prodotto, mentre altri come quello del morbillo o della poliomielite presentano un altissimo tasso di immunogenicità e quindi di efficacia.
Un secondo fattore, decisivo per gli interessi delle ditte produttrici, è quello della diffusione, o meno, dell’infezione anche nei paesi industrializzati, cioè in quelli potenzialmente più interessanti come fonte di profitti. Nel caso della malattia di Ebola, ad esempio, negli ultimi decenni si sono osservate periodiche fiammate epidemiche nei paesi dell’Africa Centro-Occidentale, la più rilevante delle quali si sviluppò in Liberia, Guinea e Sierra Leone tra il 2013 e il 2015. L’epidemia, che comunque causò varie migliaia di vittime e in un primo momento sembrò espandersi anche al di fuori dell’Africa, fu rapidamente circoscritta alle popolazioni locali e quindi, scongiurato il pericolo per il mondo occidentale, le ricerche per produrre un vaccino abortirono ben presto. Gli abitanti dei paesi periodicamente flagellati dalle recrudescenze di quel morbo, che ne avrebbero bisogno, non rappresentano evidentemente un mercato appetibile per le ditte farmaceutiche e quindi sono sacrificabili alle esigenze del sistema produttivo vigente. I pochissimi europei contagiati vennero trattati tempestivamente con il siero iperimmune dei soggetti guariti, una terapia applicabile solo a singoli casi selezionati, in quanto estremamente costosa.
Viceversa, l’eradicazione del vaiolo nel 1977 e l’ormai quasi eradicazione della polio sono state ottenute in primo luogo perché, finché tali virus restavano in circolazione, incombeva sempre la minaccia di una loro diffusione anche in Occidente. Per altri virus ubiquitari, come il morbillo, grazie agli sforzi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (che, come agenzia dell’ONU, non è “Occidente”, ma dipende dai finanziamenti di tutti gli stati del mondo), sono state organizzate campagne vaccinali coronate da notevoli successi nei paesi del Sud globale, dove i tassi di mortalità del morbillo dovuti a malnutrizione e immunodepressione erano altissimi (senza curarsi beninteso di rimuovere le cause di fondo delle diseguaglianze e della malnutrizione stessa). Comunque, i vaccini, i farmaci, i presidi sanitari in genere non sono offerti gratis, ma hanno un costo e da ciò dipende il fatto che “non giungono mai così velocemente come si vorrebbe”. Per importarli, come si importano tutti i mezzi di sussistenza compresi gli alimenti e le infrastrutture necessarie per l’agricoltura l’edilizia i trasporti le comunicazioni ecc., gli Stati del sud del mondo sono obbligati a indebitarsi ulteriormente con il sistema bancario-industriale occidentale svendendo materie prime e sfruttando intensivamente forza-lavoro agricola, estrattiva ecc. a bassissimo costo. Il fatto che, come riferisce Rampini, dopo ben 40 anni si sia finalmente arrivati, ad es. in Zimbabwe all’obiettivo “95-95-95”, cioè al 95% dei pazienti affetti da AIDS diagnosticati, al 95% di questi trattati e al 95% liberati dal virus[7] non è dunque un grazioso regalo dell’Occidente, ma il risultato degli sforzi congiunti di istituzioni locali, nazionali e internazionali fondati primariamente sui sacrifici degli abitanti stessi di quelle regioni.
In terzo luogo, fu solo grazie alle lotte delle classi lavoratrici nei paesi occidentali che nei primi tre decenni del secondo dopoguerra (i “trenta gloriosi”) si giunse ad ottenere un equo accesso ai presidi sanitari mediante l’istituzione dei servizi sanitari nazionali. A livello mondiale, tali politiche erano culminate nella “Dichiarazione di Alma Ata” (1978), nella quale si affermava solennemente, da parte dell’OMS, che la salute era un diritto umano fondamentale e che quindi ogni stato doveva impegnarsi a reperire le risorse necessarie per far raggiungere a tutti i suoi cittadini il più̀ alto livello di salute possibile, inteso non solo come assenza di malattia, ma come stato di pieno benessere psicofisico[8].
All’inizio degli anni ’80, però, sotto l’impulso delle politiche neoliberiste di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, la filosofia del bene pubblico fu soppiantata da quella del libero mercato, nell’ambito della quale anche la salute, l’istruzione, la cultura ecc. venivano considerate merci a disposizione di chi, nella piramide sociale, fosse in grado di potersi permettere migliori prestazioni.
Uno dei risultati di tale virata regressiva furono le cosiddette NTD (Neglected Tropical Diseases, ovvero malattie tropicali trascurate), un settore all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa di quelle “cenerentole” tra le infezioni che, pur colpendo centinaia di milioni di persone nei paesi più poveri del mondo, non interessano nessuno nel ricco, progressivo e tecnologicamente avanzato Occidente. A ben pensarci, il fatto stesso di definire una malattia “negletta” rappresenta già di per sé un’ammissione d’impotenza da parte dell’OMS, l’accettazione di una realtà politico-economica fallimentare rispetto agli scopi ufficialmente perseguiti e solennemente proclamati ad Alma Ata, come s’è visto prima. Eppure, malattie come la lebbra, il tracoma (la principale causa di cecità nel mondo), la fascioliasi e altre elmintiasi, le filariosi, l’ulcera del Buruli, le schistosomiasi e molte altre di questo gruppo, potrebbero essere facilmente controllate, curate e in certi casi persino eradicate. Ma dedicare i fondi e le energie necessarie a tale impresa non risulta essere compatibile con i meccanismi di base del neoliberismo, che vincolano gli investimenti delle imprese farmaceutiche alle potenzialità di un mercato capace di garantire un adeguato ritorno economico, cosa nella fattispecie evidentemente impossibile per definizione.
All’interno di questo gruppo di infezioni, tipico è il caso della tripanosomiasi americana, o malattia di Chagas, da cui sono affette circa dieci milioni di persone in tutta l’America Latina (soprattutto in Brasile), e che colpisce, anzi può colpire, esclusivamente gli strati più poveri della popolazione. Il motivo di tale esclusività risiede proprio nella modalità di trasmissione dell’infezione: l’agente responsabile, il protozoo Trypanosoma cruzi, è ospite abituale di cimici che si rifugiano esclusivamente nei tetti di paglia delle capanne, da cui nottetempo scendono per pungerne gli abitanti, trasmettendo loro in tal modo l’infezione. Il più delle volte, se viene superata la fase acuta iniziale, la malattia decorre in forma asintomatica, anche nei casi in cui si sviluppa una cardiopatia latente e una conseguente insufficienza cardiaca la quale però, non di rado, può portare a morte improvvisa, anche ad anni di distanza dall’episodio infettante. Negli anni ’70 la Volkswagen, avendo deciso di delocalizzare in Brasile alcune sue unità produttive, sottopose a sistematico esame del sangue per anticorpi anti-trypanosoma tutti i soggetti che, apparentemente in buona salute, si erano presentati per essere assunti come manovali od operai nelle sue nuove installazioni industriali. Al termine della prova, quelli che erano risultati positivi all’esame e quindi rischiavano di rappresentare un cattivo investimento data la possibilità di una loro morte improvvisa, vennero semplicemente scartati, senza che venisse loro comunicato nulla e tanto meno fosse loro raccomandato di sottoporsi ad eventuali controlli e cure: se si risparmia sul costo della manodopera, è bene farlo fino in fondo!
Un ultimo esempio che chiarisce ulteriormente qual è il reale contesto socioeconomico all’origine dei problemi sanitari nei paesi del Sud globale e, in particolare, dell’Africa Subsahariana riguarda ancora una volta le modalità di diffusione dell’AIDS. Consideriamo, infatti, le dinamiche imposte dalla globalizzazione capitalistica in termini di estremo depauperamento dei piccoli agricoltori, spesso cacciati dalle loro terre (per il cosiddetto “land grabbing”) e obbligati, per sopravvivere, ad emigrare per lunghi periodi lontano dalle famiglie d’origine per svolgere lavori semischiavistici o servili in industrie minerarie o estrattive, aziende agricole, o domestici in residenze private ancora di stampo coloniale (ad esempio in Sud Africa a partenza da Mozambico, Malawi, Zimbabwe, ecc.). Il sabato sera, al termine di una settimana di lavoro massacrante, il massiccio ricorso alla prostituzione è una realtà ovunque, e si svolge ovviamente in condizioni igieniche estremamente precarie. Il concomitante uso degli alcolici (la “droga dei poveri”), in cui annegare la propria disperazione, non fa che peggiorare la situazione. Infatti, gli alcolici di infima qualità, cinicamente esportati in Africa e nei paesi non industrializzati per compensare la riduzione delle vendite in Europa dovuta alle politiche di promozione della salute che qui ne vietano lo smercio (secondo il principio che “del maiale non si butta via niente”), hanno il duplice effetto euforizzante e disinibente d’impedire da un lato, se mai ve ne fosse stata l’intenzione o la possibilità materiale, l’adozione delle necessarie misure di prevenzione (i preservativi costano), ma dall’altro anche di anestetizzare il dolore dovuto all’eventuale presenza di ulcere veneree in sede di mucose genitali, vere e proprie porte aperte al passaggio del virus.
Altre magnifiche sorti e progressive meraviglie
In un altro punto del libro, Rampini parla dell’odierna “…capacità di produrre, anno dopo anno, una sovrabbondanza di cibo”, ovviamente attribuendone tutto il merito all’Occidente (cioè al capitalismo occidentale), e sciorina le cifre mirabolanti che servirebbero a comprovare il suo assunto: “La componente globale di malnutriti è calata da circa il 65% nel 1950, passando per il 25% nel 1970, fino al 15% del 2000. Progressi continui hanno permesso di raggiungere l’8,9% nel 2019...È un risultato straordinario in sé…Come si spiega questo miracolo? ...”[9] E via intonando il peana in onore del “mondo libero”, presunto - e unico - autore del “miracolo”..
Se si analizzano bene queste cifre, sono almeno tre i fattori omessi da Rampini, che invece hanno inciso e tuttora incidono in maniera determinante sui dati riportati, modificandone completamente il senso. Il primo è di tipo matematico: se si convertono le percentuali in cifre assolute, è facile notare che con l’aumento esponenziale della popolazione mondiale complessiva, a percentuali apparentemente molto basse corrispondono cifre rilevantissime in assoluto. Oggi, ad esempio, il numero dei gravemente denutriti ammonta ancora a sette-ottocento milioni di esseri umani, il che rappresenta uno “zoccolo duro” non indifferente, anche considerando gli altri due fattori e cioè che nell’immediato dopoguerra si partiva da una situazione di collasso economico e sociale quasi generalizzato e che comunque una buona parte dei non più denutriti appartengono alla tanto vituperata Cina comunista. Il fatto che nonostante i tanto decantati progressi tecnico-scientifici introdotti in tre quarti di secolo dal “generoso” Occidente, la fame flagelli ancora poco meno di un miliardo di persone ha tutta l’aria di un fallimento del sistema turboliberista, che affida al profitto privato problemi che solo un sistema produttivo ispirato a principi razionali di equa condivisione delle risorse potrebbe risolvere[10]. È da tener presente, inoltre, che l’aumento complessivo della vita media non è uniforme nelle varie realtà del mondo, ma è principalmente dovuto all’aumento della vita media nei paesi più ricchi e fra le classi privilegiate, il che alza la media complessiva, ma non riflette i molto più modesti aumenti di quelli più poveri e delle classi che non possono permettersi un’assistenza sanitaria ormai preda di sempre più consistenti processi di privatizzazione. D’altra parte, quei sette-ottocento milioni di cui si diceva rappresentano al tempo stesso un serbatoio di potenziale manodopera semigratuita estremamente utile per comprimere i costi della forza lavoro degli occupati, sia nei paesi d’origine che laddove riescano a filtrare in Occidente come “clandestini”. La miseria originariamente creata nel Terzo Mondo viene in tal modo messa a frutto dagli stessi che l’hanno provocata, al momento dell’immigrazione.
Molto diversa rispetto alla situazione della Cina, è quella dell’India[11], che però Rampini in più punti[12] mette invece sullo stesso piano della prima, riconoscendo indifferentemente ad entrambe gli stessi progressi dal punto di vista di parametri fondamentali quali l’aspettativa di vita, la mortalità infantile, l’alfabetizzazione ecc.
Quando nella sperimentazione clinica si paragonano due “coorti”, ovvero popolazioni seguite in parallelo negli anni, si usa fare un bilancio dopo un periodo di tempo prefissato per osservare se sono emerse fra di esse differenze significative. Secondo il criterio del “ceteris paribus”, cioè grosso modo della parità di ogni altra condizione, volto ad escludere la presenza di eventuali fattori confondenti, le differenze rilevate possono essere ascritte allora, con estrema probabilità, ad una causa discriminante come l’uso o non uso di un certo farmaco ecc.
Nel caso delle significative e tuttora macroscopiche differenze fra i tassi di povertà, analfabetismo, aspettativa di vita media, mortalità infantile ecc. rilevabili fra India e Cina al termine di un periodo di osservazione che abbraccia complessivamente gli ultimi 70 anni (circa tre generazioni), appare chiaro che la rivoluzione socialista cinese e la conseguente economia pianificata coordinata dal partito comunista hanno svolto un ruolo determinante nel fare la differenza. Non appare, insomma, un’analisi corretta quella basata sulla rimozione della rivoluzione come fatto storico condizionante le fasi successive.
Un discorso analogo si può fare per la rivoluzione cubana del 1959, che segue di dieci anni quella cinese. Infatti, fin dai primi anni Sessanta, l’OMS e le più autorevoli testate scientifiche internazionali, tra cui quelle statunitensi, mettevano in risalto gli enormi successi conseguiti in campo sanitario dalla Cuba post-rivoluzionaria e tale valutazione è stata ribadita ancora recentemente, ad es. dal “New England Journal of Medicine”[13], e questo nonostante il feroce embargo che da oltre 60 anni stringe in una morsa l’economia cubana e la sua popolazione. Ancora in anni più recenti, l’aiuto fornito da Cuba in vari scenari è stato rilevantissimo ed ha raccolto elogi unanimi da parte dell’OMS, dalle autorità politiche e sanitarie dei singoli paesi, tra cui l’Italia e anche da testate indipendenti come il New York Times, il Guardian, il Washington Post e numerosi altri[14]. In varie occasioni, soprattutto ad Haiti, in Africa Occidentale ecc., l’intervento di Cuba ha superato di gran lunga, in termini quantitativi, gli aiuti forniti dagli occidentali, USA in testa[15]. Dire, come fa Rampini, che l’aiuto offerto da Cuba sia stato sostanzialmente propagandistico e, in pratica, “trascurabile”[16] è un’affermazione quanto meno superficiale e arbitraria, oltre che un’evidente sottovalutazione della realtà.
Socializzazione della miseria, o del benessere?
Nel primo capitolo del libro, Rampini ricorda di essere stato un fervente ammiratore di uno dei padri del movimento di liberazione africano, il presidente della Tanzania Sylvius Nyerere[17], ma dice anche di essersi ricreduto perché “Nyerere [sul socialismo africano] raccontò una favola bugiarda”. Più avanti, ammette che “Karl Marx non predicò mai simili idiozie”, ma aggiunge che “la sua visione non ha avuto successo…”. Il fatto che il socialismo del benessere (e non la “socializzazione della povertà” alla Nyerere) non abbia avuto pieno successo nel primo secolo di tentativi non significa però che la soluzione risieda nel capitalismo selvaggio di matrice occidentale ovunque imposto, anche con la forza se necessario, come nel Cile di Pinochet o, ad es., nell’Iraq sotto il “proconsolato” di Paul Bremer.
Proprio per questo risultano condivisibili le critiche che Rampini rivolge a Ghandi nello stesso capitolo[18] per la sua nostalgica propensione ad un ritorno al passato preindustriale caratterizzato, ad esempio, dai telai a mano. Visione tutt’altro che marxista, ovviamente, la quale invece promuove, non la socializzazione della miseria, ma piuttosto quella del progresso industriale e tecnologico, come s’è detto più sopra a proposito della Cina.
La lente deformante della presunta sinistra “politicamente corretta”
La narrazione rampiniana, da una parte si sforza di promuovere quello che arbitrariamente viene definito “Occidente” (in realtà il neoliberismo globalizzato), dall’altra appunta i suoi strali contro coloro (in primo luogo i fautori del “politicamente corretto”) che criticano l’Occidente e che a dire dell’autore, rappresenterebbero genericamente la “sinistra”. Ma qui si apre una serie di problemi interpretativi e di attribuzioni politiche che determinano inesattezze sia (come si è visto) nella definizione di “Occidente” che in quella di “sinistra”. La confusione nasce dal fatto di non collegare dialetticamente in una visione d’insieme le strutture economiche e le sovrastrutture ideologico-politiche, tra cui in primo luogo il razzismo, che invece rappresenta oggi un fattore costitutivo del neoliberismo. Criticare il razzismo senza contestualizzarlo storicamente come supporto ideologico di imperialismo, colonialismo e neocolonialismo, è un vuoto esercizio di retorica che tutt’al più può servire a suscitare sensi di colpa nella mente del borghese consentendogli al tempo stesso di rasserenare la sua coscienza mediante il pubblico pentimento, ma lasciando comunque invariate le strutture di base del sistema capitalista. Nel suo celebre libro “Il nome della rosa” Umberto Eco mette in risalto, fra le varie sette pauperiste ereticali di metà ‘Duecento, quella di fra Dolcino, che esortava infaticabilmente al “penitenziagite”, cioè ad all’autoflagellazione, per espiare i propri peccati. La pratica ossessiva del “politically correct” e della “cancel culture” può essere ben considerata il corrispettivo contemporaneo di tale ideologia, che non solo non ottiene alcun risultato concreto (le masse sfruttate non sanno che farsene dei sensi di colpa degli sfruttatori), ma anzi rappresenta essa stessa una componente perfettamente funzionale al mantenimento dello status quo “occidentale”[19].
Il razzismo insomma non va considerato come un’entità a sé stante, ma come ideologia funzionale, anzi concretamente connaturata, ai meccanismi dello sfruttamento capitalistico, che presuppongono la creazione di una falsa nozione di diseguaglianza, adducibile a giustificazione dello stesso sfruttamento. Da cui la necessità, per una sinistra che voglia essere tale, di spostare l’impegno politico dalla lotta al razzismo in astratto, staccato cioè dai suoi risvolti sociali ed economici, a quella contro ogni forma di discriminazione ad esso collegata, ricordando che il tasso di discriminazione di qualunque individuo o gruppo di individui è direttamente proporzionale al tasso di sfruttabilità degli stessi. Non è certamente di sinistra criticare una sovrastruttura senza mettere in discussione la struttura materiale di cui la sovrastruttura stessa non è che l’espressione ideologica.
Anche nel campo delle sostanze psicotrope convenzionalmente definite come “illegali”, il problema va affrontato in un’ottica diversa, sia da quella degli antiproibizionisti “politicamente corretti” che sottovalutano o magari negano a priori gli effetti collaterali di tali droghe, sia di quelli che, come Rampini, si appigliano alle loro possibili nocività per invocare interventi di ordine pubblico repressivi, peraltro incapaci di incidere sulle cause profonde delle diseguaglianze sociali e della violenza che ne consegue[20]. E ciò, indipendentemente dal fatto che gli atti di vandalismo siano poi compiuti di volta in volta da appartenenti all’una o all’altra classe sociale. Non bisogna dimenticare infatti che sin dalle sue origini nel secolo scorso, le “guerre alle droghe”, a partire da quella agli alcolici, sono state utilizzate come pretesto per discriminare e criminalizzare le minoranze etniche, in particolare quelle amerindia, cinese ed afroamericana. Ne è risultata e ne risulta tuttora una nettissima prevalenza, nelle carceri, di tossicodipendenti appartenenti a tali minoranze e soprattutto a quella afroamericana, del tutto sproporzionata rispetto al numero totale dei tossicodipendenti nella popolazione generale[21]. In un contesto socioeconomico basato sulla monetizzazione di qualunque risorsa e sul profitto privato, al di là se legalmente ottenuto o illegalmente estorto, ogni forma di proibizione non fa che respingere nella clandestinità i fenomeni che si vorrebbero sopprimere, alimentando per conseguenza il mercato nero e i traffici della criminalità organizzata. Un discorso analogo si potrebbe fare a proposito di fenomeni come l’aborto o l’immigrazione, allorché vengono dichiarati, e perseguiti, come illegali. Inoltre, nel caso delle sostanze psicotrope, una loro gestione trasparente e immune da pregiudizi demonizzanti, dovrebbe tener presente, oltre ai loro possibili effetti collaterali nocivi, anche la loro ormai lungamente comprovata efficacia terapeutica in vari tipi di patologie. Senza contare i vantaggi dati dalla possibilità, in regime di legalizzazione, di controllarne la qualità e la modalità di assunzione evitando al contempo di scoraggiarne gli utenti, per il timore di uscire allo scoperto, dal chiedere assistenza alle strutture sociosanitarie qualora il loro uso diventi problematico.
In un altro punto del suo libro[22] Rampini cita il luogo comune per cui “se sei ricco, devi aver derubato un povero” e aggiunge che questa è una “grottesca caricatura del marxismo, che non è mai stato così banale.” Vero, si tratta certo di un’affermazione semplicistica, ma se si approfondisce il concetto, c’è un fondo di verità, anzi la realtà del sistema di capitale è persino più iniqua. Infatti, alla massimizzazione dei profitti corrisponde necessariamente una minimizzazione dei salari, peraltro gestita mediante una sapiente differenziazione dei livelli di sfruttamento della forza lavoro a seconda del tenore di vita dei soggetti sfruttati, sulla base di gerarchie non solo di classe sociale all’interno dei vari paesi, ma anche fra nazioni centrali e nazioni periferiche (la definizione è del sociologo ed economista americano Immanuel Wallerstein ed è parte della sua teoria del “sistema-mondo”)[23]. Con ciò rendendo molto più difficile il crearsi di quell’unità fra lavoratrici e lavoratori che potrebbe costituire una potenziale minaccia per i privilegi di ricchi e potenti.
Nel IV Capitolo del suo volume, dal titolo pomposo “Chi sta salvando il pianeta? Noi”[24], Rampini affronta il problema dei cambiamenti climatici e, più in generale, dell’attuale crisi ecologica globale. A sostegno della sua visione “ecomodernista” del fenomeno, cita lo scienziato ambientalista canadese Vaclav Smil e “…tanti altri, che conciliano la tutela dell’ecosistema con il progresso tecnologico generato dal capitalismo”[25].
In contrasto con questa fiducia nel potere salvifico della scienza e della tecnica lasciando immutati il modo di produzione capitalistico e i rapporti sociali esistenti, il sociologo americano John Bellamy Foster, universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti nel campo, descrive questa stessa crisi come il risultato della logica del profitto ad ogni costo, e nel suo saggio “The Return of the Dialectics of Nature: The Struggle for Freedom as Necessity”[26], scrive: “Una ‘frattura antropogenica’ nei cicli biogeochimici della terra, generata dal sistema capitalista, sta ormai minacciando la distruzione del globo come rifugio sicuro dell’umanità e di innumerevoli specie che vivono su di esso in un arco temporale, non di secoli, ma di qualche decennio… Il punto ormai non è solo quello di interpretare il mondo, ma di cambiarlo prima che sia troppo tardi”. L’analisi di Foster può estendersi ad ogni aspetto della catastrofe ecologica, compreso quello delle ricorrenti pandemie che, a ritmi sempre più ravvicinati, infestano il pianeta negli ultimi decenni. Le cause delle sempre più frequenti ondate epidemo-pandemiche vanno ricercate infatti precisamente in quei fattori speculativi tipici della globalizzazione capitalistica quali le urbanizzazioni di massa, che mettono gli esseri umani a diretto contatto con le specie silvestri normalmente confinate nella giungla, e le deforestazioni selvagge propedeutiche agli allevamenti intensivi, ottimo terreno di coltura per una grande varietà di microrganismi potenzialmente patogeni[27].
Da quanto detto risulta dunque sempre più evidente l’inadeguatezza del sistema politico “occidentale” che affida all’economia del profitto privato la risoluzione di problemi sanitari e più in generale ecologici riguardanti il genere umano nel suo complesso. Le evidenti lacune e contraddizioni della narrazione unilaterale rampiniana sin qui rilevate non sembrano invece contribuire alla chiarificazione dei temi trattati, proprio a partire dall’acritica adesione dell’autore al modello di sviluppo economico, sociale e politico imperante, considerato come unico parametro di riferimento possibile nella fase storica attuale.
* Già professore di Etica e diritti umani all'Università Americana di Roma, attualmente professore di Geopolitica all'Università Popolare Antonio Gramsci.
[1] Rampini, F.: Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024
[2] Ibid. p. 40
[3] Non si può certo accusare l’Occidente di aver mai risparmiato sullo sviluppo e la produzione degli armamenti; il napalm, ad esempio, è uno dei suoi “regali” più belli
[4] Rampini, F.: Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024, p.217
[5] Ibid. p. 213
[6] Ibid. p. 215-216
[7] Ibid. p. 217
[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_di_Alma_Ata#I_dieci_punti_della_dichiarazione
[9] Ibid. p. 133-134
[10] Ziegler, J.: La privatizzazione del mondo. Marco Tropea, 2003
[11] In un suo studio apparso on line nel 2021 [https://sbilanciamoci.info/india-e-cina-un-confronto-impari/], Vincenzo Comito rileva che … per quanto riguarda l’aspettativa di vita alla nascita, nel caso dell’India troviamo per il 2011 una cifra di 65 anni, di 73 per la Cina; per la mortalità infantile su 1.000 nascite, sempre per il 2011, India 61, Cina 15; per la percentuale dei bambini vaccinati per il morbillo, sempre per il 2011, India 74%, Cina 99%; per il tasso di alfabetizzazione femminile sempre per il 2011, all’età di 15-24 anni, India 74%, Cina 99%; per gli anni medi di scolarizzazione all’età di 25 anni, sempre per il 2011, India 4,4 anni, Cina 7,5; per la proporzione di bambini sottopeso nel periodo 2006-2010, India 43%, Cina 4%.
[12] Rampini, F.: Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024, p.19, 109
[13] A Different Model — Medical Care in Cuba Authors: Edward W. Campion, M.D., and Stephen Morrissey, Ph.D. Published January 24, 2013NEnglJMed 2013;368:297-299 VOL. 368 NO. 4
[14] Salim Lamrani, « The Health System in Cuba: Origin, Doctrine and Results », Études caribéennes [En ligne], 7 | Juillet 2021
[15] Ibid. n. 65 e sgg.
[16] Rampini, F.: Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024, p. 213
[17] Ibid, p. 9 - 12
[18] Ibid. p. 9, 10
[19] Ibid. p. 305 - 309
[20] Ibid. p. 309 e sgg.
[21] https://www.hrw.org/legacy/campaigns/drugs/war/key-facts.htm#:~:text=Nationwide%2C%20blacks%20comprise%2062%20percent,to%20prison%20on%20drug%20charges.
[22] Rampini, F.: Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024, p. 22
[23] Wallerstein, I.: Welt-System-Analyse. Eine Einführung. Springer Verlag, 2018
[24] Rampini, F. : Grazie, Occidente. Tutto il bene che abbiamo fatto. Mondadori, 2024
[25] Ibid., p. 122
[26] Bellamy Foster, J: The Return of the Dialectics of Nature: The Struggle for Freedom as Necessity. Monthly Review, December 1, 2022
[27] Crocchiolo, P.: Il liberismo moltiplicatore di epidemie: dall’AIDS alla COVID-19. Micromega, 5, 2021 p. 117-134