Francesco Pietrobelli
«Il sovranismo non ha una data di fondazione, un padre fondatore e un manifesto. È un fenomeno diffuso che ha avuto grande fortuna negli ultimi anni e ha caratteristiche diverse da un Paese all’altro. Ma le sue manifestazioni possono anche presentare considerevoli somiglianze». Con queste parole comincia la premessa al libro di Sergio Romano L’epidemia sovranista, edito a fine dell’anno scorso da Longanesi. Vengono così subito specificati gli obiettivi dell’opera, che non intende portare una analisi esaustiva del fenomeno sovranista, bensì delineare quei tratti comuni di sviluppo e quegli elementi ricorrenti pur fra le molteplici sfaccettature assunte dal fenomeno a seconda del Paese in questione. Di conseguenza, «più che una storia del sovranismo questo è un viaggio nell’arcipelago sovranista»[1].
Un fenomeno politico, il sovranismo, di recente fortuna e caratterizzato da una battaglia politica impostata come – con parole che ad alcuni potrebbero far storcere il naso – «una nuova lotta di classe» fra i vecchi rappresentanti di un establishment che ha deluso e i nuovi politicanti pronti, a detta loro, a porre in effetto i voleri del popolo. Ma per capire realmente questo fenomeno, va compreso innanzitutto il retroterra storico che ha portato alla situazione odierna, come Romano stesso sottolinea. Si sviluppa così un’analisi, breve e soprattutto concentrata sul terreno europeo, della crisi delle democrazie liberali dopo la fine della guerra fredda e la cosiddetta “fine delle ideologie”, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni 2000 e con la crisi finanziaria del 2008, quando «il grande mercato governato dalle regole del “Washington consensus”»[2] ha iniziato a rivelarsi un sistema economico e politico incapace di soddisfare le necessità e i desideri delle popolazioni, favorendo invece un continuo arricchimento di una minima percentuale di persone a discapito della stragrande maggioranza.
In un contesto di critica alla globalizzazione, al sistema finanziario globale, nonché di aumentata paura per il fenomeno terrorista dopo l’attentato alle Torri Gemelle e di timore per i fenomeni migratori ingenti, iniziano a crescere una serie di politicanti capaci di raccogliere queste paure e utilizzarle a fini elettorali e politici: «Erano Umberto Bossi e Antonio Di Pietro in Italia, Pim Fortuyn in Olanda, Pia Kjærsgaard in Danimarca, Mattias Karlsson in Svezia, Filip Dewinter nel Belgio fiammingo, l’ex giudice Ronald Schild ad Amburgo. Avevano tratti comuni: una mentalità giustizialista, uno stile tribunizio, un concetto populista di economia e una vena autoritaria. Dicevano di essere in guerra contro i poteri forti e consideravano l’immigrato un potenziale nemico. Fu evidente sin da allora che l’anti-fascismo, l’anti-nazismo, l’anti-colonialismo e altri tratti distintivi del catechismo democratico-liberale non appartenevano alla loro cultura. […] anzi, qualcuno ostentava una certa nostalgia per i regimi autoritari e totalitari degli anni fra le due guerre»[3].
Sulla base di queste premesse parte una analisi, sia concettuale che storica, sullo sviluppo dei sovranismi più recenti, sia europei (Le Pen, Salvini, Johnson, Viktor Orbán, ecc.) che extra-europei (Putin, Trump, Modi, ecc.), tramite la quale vengono delineati gli elementi comuni più lampanti dell’«epidemia sovranista». Fra questi, la già citata lotta all’establishment e a coloro che hanno portato in rovina il Paese e favorito i cosiddetti poteri forti, con la conseguente critica allo stato liberale, sintomo di una società individualista e debole, incapace di sviluppare una comunità forte e organizzata secondo saldi principi educativi[4]; la critica al fenomeno migratorio per motivi economici ma soprattutto per il rischio del terrorismo, in particolare di matrice musulmana, e come la cosiddetta “invasione” avrebbe intaccato «l’identità nazionale»[5]; la centralità del cristianesimo, specie nelle sue varianti più reazionarie, come elemento per la costruzione della propria identità in contrapposizione alle ondate migratorie[6]; la ricerca di alleanze con partiti esteri sovranisti pur di portare avanti, specie a livello europeo, il proprio progetto; il rapporto ambiguo con la tecnologia – utilizzata per i propri scopi ma al contempo criticata, così da avere il favore di quelle fasce della popolazione che verso di essa sono diffidenti[7] – e, infine, l’utilizzo di un linguaggio semplice, pungente ed efficace, che dia l’idea di essere rivoluzionari e di avere in tasca «la soluzione di tutti i problemi che affliggono la società»[8].
Una analisi che si rivela interessante, seppur concisa e non approfondita su certi temi, e che si rivela essere il perno dell’opera, a conclusione della quale troviamo l’opinione dell’autore sulla diffusione del sovranismo e su una possibile via d’uscita dall’attuale “epidemia”. In particolare, fra i principali motivi che hanno portato a questa situazione politica, Romano afferma: «Finché la democrazia rappresentativa continuerà a navigare in acque torbide vi saranno uomini politici che cercheranno di conquistare il consenso della pubblica opinione chiedendo di avere maggiori poteri; e vi saranno intellettuali pronti a sostenere che le democrazie rappresentative dividono mentre le democrazie illiberali rispettano lo spirito comunitario di un popolo»[9]. Il problema starebbe dunque nell’attuale debolezza delle democrazie rappresentative, le quali – se nel dopoguerra, avendo vinto contro il nazifascismo, avevano riottenuto prestigio – sono state colpite dalla loro incapacità di risolvere le crisi recenti a causa della loro deriva neoliberale. Romano auspica allora, specie sul terreno europeo e non potendosi fidare della pseudo-democrazia statunitense, ridottasi ad uno «Stato militaresco», lo sviluppo di un’Europa che diventi uno Stato federale e abbia un bilancio e delle istituzioni comuni che le permettano di affrontare i grandi problemi attuali, nonché di avere un peso nello scacchiere internazionale, a patto al contempo di rifiutare al suo interno paesi sovranisti come quelli di Visegràd che rallentano eccessivamente il funzionamento dell’economia e della democrazia europee[10].
Proprio in quest’ultima parte dell’opera risiede il punto più debole dello scritto di Romano (la cui analisi del fenomeno sovranista, seppur non sistematica, resta comunque interessante): quest’ultima parte, ancora più di altre, sembra infatti particolarmente viziata da una idealizzazione delle democrazie liberali. Ci si richiama ad un periodo – il dopoguerra – caratterizzato da un certo equilibrio e da un buon funzionamento di tali sistemi, i quali avrebbero poi subito un’incrinatura alla fine della Guerra fredda. Non vi è tuttavia alcun approfondimento della natura di queste democrazie e nessun accenno ai problemi che le affliggevano già prima degli anni ’90. Romano evita accuratamente di presentare una analisi del liberalismo in grado di evidenziare le forti contraddizioni strutturali che fin dal principio lo hanno attraversato: il suo essere, vale a dire, una concezione politica essenzialmente legata alla realtà borghese e alla conseguente difesa di determinati interessi di classe. Ridurre la nascita dei sovranismi agli sviluppi neoliberali, indicati come una “deviazione” dalla retta via, significa non cogliere il fatto che questa svolta neoliberale in campo economico e politico nasce innanzitutto dalla crisi del compromesso keynesiano. D'altro canto, se mai vi è stato un liberalismo più sociale e attento al benessere collettivo, esso è stato il frutto di uno scontro di classe non indifferente, dove la forza dei lavoratori è stata capace di imporre principi e diritti nel campo sociale, civile e lavorativo che sarebbero stati altrimenti trascurati o negati dalla politica vigente, interessata in primo luogo alla tutela dei profitti del mondo capitalista. L'avvento del liberalismo, se certamente ha costituito un avanzamento complessivo rispetto all'età feudale, ha comunque imposto un sistema politico ed economico esso stesso non avulso da logiche classiste, le quali garantiscono, nelle loro articolazioni, il sussistere di una invalicabile gerarchia sociale. Nel momento in cui questo sistema entra in crisi e non riesce più a tutelare la strutturazione capitalista della società, soprattutto a causa di realtà socialiste che propongono un’alternativa fra le masse, ecco che entrano in gioco reazioni di stampo autoritario, le quali cercano di orientare il malcontento verso soluzioni che rimangano nell’alveo borghese, sopprimendo al tempo stesso gruppi politici che propongono alternative di carattere marxista.
Se non si fa caso a questi elementi, qui solamente accennati, si rischia di non avere un’idea chiara degli sviluppi autoritari indicati con il termine sovranismo. Sarebbe a questo punto da chiedersi se lo stesso concetto di sovranismo non perda di chiarezza quando venga subordinato ad analisi di stampo liberale incapaci di evidenziare quelle criticità che il liberalismo stesso presenta. Di fronte a ciò, andrebbe infatti rivisto anche il modo in cui Stati e sistemi politici fra loro piuttosto eterogenei, vengono riuniti in un unico calderone concettuale da parte di Romano, per capire se ciò in realtà non porti a trascurare differenze storiche e politiche di una certa rilevanza per la comprensione dell’attuale assetto geopolitico. Un solo esempio fra i tanti: è appropriato sussumere l’America di Trump e la Russia di Putin, l’Inghilterra di Johnson e l’India di Modi (ovvero paesi che sono stati storicamente colonizzatori e conservano questa propensione, con paesi che sono stati storicamente colonizzati e avvertono ancora questa paura) sotto lo stesso ombrello categoriale?
Andrebbe forse messa in questione l’idea secondo cui la stessa democrazia rappresentativa – intesa nel suo assetto liberale e borghese – sia realmente democratica, cioè si presenti come un reale governo delle masse popolari che partecipano attivamente alla vita politica del paese. Queste problematiche, come già evidenziato, non vengono affrontate dall’autore – anzi, egli mostra, come detto, una enorme e ingiustificata fiducia verso il progetto liberale europeo –, ma ciò non toglie l’interesse per un libro che, in maniera concisa ed efficace, fornisce qualche nuovo elemento con cui orientarsi all'interno dell’«arcipelago sovranista».
[1]Sergio Romano, L’epidemia sovranista, Longanesi, Milano 2019, p. 7.
[2]Ivi, p. 15.
[3]Ivi, pp. 34-35.
[4]Ivi, p. 57.
[5]Ivi, p. 47.
[6]Ivi, p. 51.
[7]Ivi, p. 44.
[8]Ivi, p. 83.
[9]Ivi, pp. 96-97.
[10]Ivi, pp. 101-103.