di Leonardo Pegoraro
Carlo Formenti ha recentemente recensito il mio libro I dannati senza terra su MicroMega, focalizzando l’attenzione su alcuni aspetti teorici che sollevo in particolare nella prima parte. Dalla critica alla tesi dell’unicità dell’Olocausto ebraico e la necessità di coniugare la parola ‘genocidio’ (e, insisto io, anche la parola ‘Olocausto’) al plurale, alla propensione dei regimi liberal-democratici più avanzati (Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda) a commettere efferati genocidi contro un multiverso di popoli indigeni, fino alla tesi sulla natura intrinsecamente coloniale del genocidio.
Il genocidio, infatti, come sapeva il suo coniatore (il giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin) e come confermeranno in seguito altre grandi personalità del Novecento (tra cui il rivoluzionario martinicano Franz Fanon, al quale il mio libro si richiama evidentemente già nel titolo), è anzitutto un fenomeno coloniale e presuppone la distruzione deliberata di un gruppo etnico-razziale (della sua vita culturale, biologica e fisica). Oltre a denunciare i genocidi su cui glissa l’Occidente liberale per tutelare la sua orgogliosa autocoscienza, l’invito che emerge nel corso di tutta la trattazione e che viene esplicitato nell’ultima frase del libro è dunque quello di lottare per un mondo decolonizzato come precondizione di un mondo senza genocidi.
Nel ringraziare Formenti per aver letto e apprezzato il mio libro, vorrei approfittarne per portare chiarezza sulla differenza tra l’impianto teorico che guida la mia ricerca e posizioni che ritengo da esso assai differenti e lontane. Posizioni che oggi sembrano attecchire anche in una sinistra ‘radicale’ sempre più debole, disgregata e da un trentennio (cioè dal crollo dell’Unione sovietica e dalla concomitante sconfitta del movimento operaio europeo) in balia delle narrazioni dominanti del momento: ieri l’imperialismo dei ‘diritti umani’, oggi il sovranismo ‘anti-imperialista’. Di qui l’emergere di tendenze politiche che sotto la bandiera sacrosanta della difesa della Costituzione, della sovranità e della patria ripropongono con argomentazioni e parole d’ordine più o meno nuove non già la questione nazionale - che pure esiste e si pone in primo luogo nei confronti degli Stati Uniti - ma il vecchio e assai meno nobile socialsciovinismo, al quale associano il nichilismo antieuropeo.
Il mio libro è certamente una critica nei confronti dell’universalismo astratto e immediato di cui dà prova il liberalismo ‘democratico’ (caro alla borghesia globalista e liberoscambista legata al capitale finanziario) e che da Woodrow Wilson in poi ha informato la cosiddetta globalizzazione (l’ordine mondiale occidentocentrico di marca statunitense). Un universalismo incompiuto che, a causa della sua incapacità di riconoscere le specificità e storicità particolari, troppo spesso ha schiacciato interi popoli e culture. E che, laddove l’ha ritenuto necessario e ‘giusto’, non ha esitato ad esportare manu militari la ‘civiltà’ e la ‘democrazia’ contro i cosiddetti ‘barbari’ e le cosiddette ‘dittature’ su scala planetaria, seminando morte e distruzione. Dalle guerre genocidarie contro gli ‘spietati indiani selvaggi’ ai sedicenti interventi umanitari in Medio Oriente.
Il mio lavoro, tuttavia, non va ricondotto per ciò al particolarismo che ispirava il liberalismo conservatore delle origini. E che oggi è stato riportato in auge da quella frazione delle classi dominanti (la borghesia sovranista e protezionista legata alla dimensione nazional-territoriale) che ha scalzato i globalisti finora vincenti. Un particolarismo che da sempre contesta l’idea di uguaglianza del genere umano e che difende egoisticamente il ‘popolo’ contro minacce di varia natura (sempre altre ed esterne), che ne metterebbero in discussione la sovranità e ne intaccherebbero il benessere: la liberalizzazione del mercato senza confini, le istituzioni sovranazionali e il cosiddetto mondialismo. Senza mai disdegnare il capro espiatorio prediletto e l’Altro per eccellenza: i migranti (peggio se poveri, neri e musulmani).
Ma come si è affermata la borghesia sovranista? Negli ultimi decenni la crisi della globalizzazione ha comportato l’emergere di ex-colonie finora escluse dai giochi (a partire dalla Cina), nonché ad una ridistribuzione delle quote di ricchezza e di potere a svantaggio dell’Occidente. A questa sfida la borghesia globalista ha risposto in due modi. Sul piano esterno avviando un processo di ri-colonizzazione del mondo (con tanto di guerre) che ha contribuito, tra le altre cose, a innescare fenomeni di immigrazione su larga scala. Sul piano interno tramite un aggiustamento dei conti all’insegna del neoliberismo e dell’austerità che ha impoverito i ceti medi e le classi lavoratrici. Sfruttando il malcontento di questo blocco sociale sempre più impoverito, insofferente e rabbioso (e sempre più privo di riferimenti politico-culturali di sinistra), la borghesia sovranista ha approfittato della crisi di legittimità dei globalisti e ha avuto la meglio.
Scaricando le contraddizioni e i costi della globalizzazione e della sua crisi sull’Unione europea, l’euro e, soprattuto, sui migranti, i sovranisti hanno buon gioco nel contrapporre i subalterni autoctoni alle orde di ‘barbari’ che premono alle porte del Primo Mondo (bianco e cristiano). I sovranisti di ‘sinistra’, in particolare, bollano gli immigrati, citando Marx a sproposito, come ‘esercito industriale di riserva’ e, ben lungi dall’identificarsi con loro, finiscono con l’agitare la bandiera della difesa dei lavoratori contro l’‘invasione’, seguendo così le destre sul loro stesso terreno. Un’invasione - si dice, sacrificando in questo modo il materialismo storico sull’altare del complottismo - scientemente programmata da non meglio identificati manovratori occulti per abbassare il costo del lavoro degli autoctoni o rimpiazzarli direttamente con gli immigrati.
Una sinistra degna di questo nome dovrebbe invece denunciare questa contrapposizione tra lavoratori nostrani e lavoratori stranieri che fa passare i secondi per carnefici in combutta con il capitalismo e l’imperialismo, quando in realtà si tratta di vittime della globalizzazione e del revival colonialista. Una contrapposizione che tra l’altro crea le basi per la formazione di una classe di lavoratori stranieri sottopagata, servile e perennemente ricattabile in quanto costretta alla clandestinità e all’illegalità. La sinistra, infine, dovrebbe anche farsi pars costruens e sforzarsi di unire i soggetti più deboli, indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale. Riattualizzando la lezione di Lenin, dovrebbe cioè costruire un legame solidale in funzione anti-imperialista tra le istanze e le lotte delle classi subalterne bianche e quelle dei migranti e più in generale dei popoli del Terzo Mondo.
Per concludere, la cornice concettuale entro cui si muove la mia ricerca si ispira all’universalismo concreto e mediato. Ad un equilibrio a volte difficile, certo, ma indispensabile alla costruzione della comune umanità, tra l’universale e il particolare. In altre parole, al riconoscimento dell’unità delle diversità umane e della diversità dell’unità umana. Ovvero a quel variegato e prezioso patrimonio etnoculturale del genere umano messo a repentaglio dall’ideologia e dalla pratica coloniali, e proprio per preservare il quale Lemkin ha teorizzato il crimine di genocidio.