Riccardo Bravi

Al Vietnam e al suo popolo

  

Quando gli americani partirono a gambe levate da Saigon, il 30 aprile 1975, lo “zio Hồ”, come ebbero affettuosamente a soprannominarlo i suoi compatrioti vietnamiti, era già morto da sei anni. Baluardo mondiale della lotta al colonialismo e figura-simbolo dell’emancipazione sociale per i paesi oppressi del mondo intero non ebbe modo, purtroppo, di vedere la tanto agognata liberazione del suo popolo dalla potenza americana, duramente combattuta a partire dall’occupazione del 1955.

Il nome di Hồ Chí Minh rimane importante, a tutt'oggi che le mire imperiali sono ben lungi dall'essersi spente, per avere ingrossato le fila di quei colonizzati che hanno saputo rivoltarsi alle potenze occidentali e per essersi reso portavoce, nell'arco di una vita intera, di coloro a cui la voce non era stata concessa. Nei suoi scritti e discorsi, raccolti finalmente in Italia in un bel volume curato da Andrea Catone e Alessia Franco (Ho Chi Minh. Internazionalismo e patriottismo. Scritti scelti 1919-1969, MarxVentuno Edizioni, Bari 2019) si ripercorrono le tappe di questi cinquant’anni di lotta. Cinquant'anni impegnati a riscattare quella “subumanità” di cui parlava Marx in riferimento alle condizioni oggettive in cui si trovavano i popoli sottomessi ai grandi imperialismi mondiali.

Dagli anni Cinquanta del secolo scorso Hồ Chí Minh diventerà una figura fondamentale del processo di emancipazione dei paesi colonizzati e la sua voce conoscerà una risonanza sempre maggiore. Quelle parole d'ordine che egli aveva appreso dalla cultura della Rivoluzione francese fungeranno da stimolo per una critica impietosa alla politica coloniale di quello stesso paese in cui la Rivoluzione del 1789 era scoppiata. Così leggiamo nel discorso n. 13 (p. 123):

Da ragazzo, a tredici anni, ho sentito per la prima volta le parole francesi: libertà, uguaglianza e fratellanza. E per noi ogni uomo bianco è francese. E volevo conoscere la civiltà francese, sapere cosa si cela dietro a queste parole. Ma nelle scuole per indigeni, i francesi allevano pappagalli. Ci nascondono libri e giornali, vietano non solo i nuovi scrittori, ma anche Rousseau e Montesquieu. Cosa dovevo fare? Ho deciso di andarmene. Un annamita è un servo della gleba. Non solo ci è proibito viaggiare, ma ci vietano anche il minimo movimento all’interno del Paese. Le ferrovie sono costruite con uno obiettivo ʻstrategico̕: secondo i francesi, non siamo ancora maturi per utilizzarle. Sono arrivato fino alla costa, quindi sono partito. Avevo 19 anni. Si tenevano le elezioni in Francia. I borghesi si buttavano fango l’uno sull’altro.

   Se da un lato l’imperialismo d’Oltralpe non esiterà a inglobare l’intera Indocina - battezzandola “francese” per distinguerla dai possedimenti di altri imperi rivali -, dall'altro l’intellighenzia della sinistra più radicale, rappresentata da personalità come Jean-Paul Sartre, non esiterà a denunciare i crimini perpetrati dall'Occidente a danno dei paesi colonizzati. Questa operazione di denuncia trova forma in tre prefazioni che Sartre, tracciando un parallelismo de facto tra le situazioni di diversi tipi di soggettività subalterne, dedicherà rispettivamente a tre opere di importanza capitale per il movimento di decolonizzazione mondiale: Orphée noir (1948), che apre l’Anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française, le prefazioni che precedono, nel 1957, il Portrait du colonisé précédé du Portrait du colonisateur di Albert Memmi e Les Damnés de la Terre di Frantz Fanon quattro anni dopo.

Sia Memmi che Fanon appariranno come i portavoce della lotta anticolonialista dei loro rispettivi popoli. A sua volta Hồ Chí Minh si farà volontariamente ambasciatore e leader del Vietnam soggiogato dal fardello coloniale: rimasto colpito dalle tesi di Lenin su “patriottismo” e “internazionalismo”, due movimenti che sarebbero dovuti andare di pari passo nella creazione di un “fronte” di liberazione nel quadro del movimento socialista internazionale, la filosofia del futuro Presidente vietnamita si nutrirà dell’idea confuciana inserita entro un impianto di matrice marxista-leninista.

I numerosi appellativi utilizzati da Hồ Chí Minh (se ne rintracciano grosso modo centocinquanta, tra cui il più celebre Nguyễn Ái Quốc, con il quale vengono presentate le Rivendicazioni del popolo annamita alla Conferenza di Versailles del 1919), marcano in maniera altrettanto originale la singolare personalità del leader vietnamita, che era solito nascondersi sotto questi nomi per poter mantenere un certo desiderio di riservatezza.

È difficile tuttavia collocare il pensiero di Hồ Chí Minh nello spettro dei movimenti nati dalla fondazione dei partiti comunisti mondiali, per cui l’“hochiminismo” non avrà altrettanti adepti di quanti ne ha avuti invece il “maoismo”. Non esistono poi testi teorici – o se esistono, non ve n’è alcun residuo di traduzione nel mondo occidentale – nei quali vengano esplicitate le matasse critiche di tale pensiero.

Proprio in Francia Hồ Chí Minh aderirà al PCF e sarà favorevole alla sua entrata nella Terza Internazionale, in seguito contestandogli, tuttavia, l’estremo disorientamento avuto nei riguardi dei popoli colonizzati, causa probabilmente di un malessere ideologico generato dalla ricezione di due miti antitetici: quello del buon metropolitano e quello del buon colonizzato.

Per avere fornito gli strumenti teorici con cui superare il disorientamento che tormentava anche alcuni tra i più importanti partiti comunisti d'Occidente e avere contribuito a metter fine all’atroce macchina del colonialismo mondiale, il genere umano presente e futuro non sarà ad Hồ Chí Minh mai abbastanza grato.

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