Lelio La Porta
György Lukács è stato, fra i pensatori marxisti del XX secolo, uno dei più prolifici dal punto di vista teorico. La mole massiccia dei suoi lavori, comunque, non gli ha impedito di proporsi con una chiarezza argomentativa che è nota a chi abbia avuto modo di frequentare i suoi scritti; il parere è corroborato leggendo le dieci interviste raccolte in volume da Antonino Infranca ed intitolate Lukács parla. Interviste (1963-1971), Edizioni Punto Rosso, Milano 2019, pp. 200, €18,00).
Prima di affrontare i contenuti delle interviste lukácsiane, è d’obbligo menzionare i meriti, non soltanto di traduttore e di curatore, ma soprattutto di assiduo e coerente studioso nonché di caparbio e acuto diffusore del pensiero del filosofo ungherese, di Antonino Infranca. Si tratta, infatti, di uno dei più accreditati specialisti del pensiero e dell’opera di Lukács a livello internazionale e, oggi, di uno dei massimi studiosi italiani del pensiero lukácsiano. Nel caso di queste interviste, a materiali già noti, ma mai raccolti in volume, ha aggiunto, caricandosi dell’onere ben gravoso della traduzione anche dalla lingua ungherese, l’intervista che compare con il titolo di Intervista sconosciuta, sulla quale si tornerà a scrivere più avanti. Le lingue usate dal filosofo sono quattro, ossia francese, inglese, tedesco e ungherese. Infranca nota, nell’Introduzione, che le interviste dal francese esistevano già in italiano e in quella versione sono riproposte nel testo. Tutte le altre sono state tradotte dal curatore.
La prima intervista della silloge è datata 1963, l’ultima 1971 (il filosofo ungherese morì il 4 giugno dello stesso anno). Per quanto lo stesso Infranca tenda a sottolineare che i temi delle interviste sono gli stessi, seppure diversi siano gli interlocutori, resta il fatto che la capacità argomentativa di Lukács sia tale da creare un’aura di interesse sempre nuovo, quasi di attiva compartecipazione alle problematiche che analizza volta per volta e delle quali propone le possibili soluzioni.
Uno degli elementi centrali delle interviste mi sembra essere il concetto di manipolazione e, di conseguenza, quel concetto che più di altri consente di penetrare il senso profondo della critica di Lukács alla manipolazione, che nel mondo socialista era da lui ritenuta retaggio del passato stalinista, ossia la democratizzazione[1]. Il testo lukácsiano sulla democratizzazione è del 1968 e segue di poco l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Invece l’Intervista sconosciuta (pp. 56-105), rilasciata a Ferenc Fehér per uso interno del Comitato Centrale del Partito Socialista Operaio Ungherese, fu fatta pervenire ai membri dell’organismo di Partito il 22 luglio del 1968, prima dei fatti di Praga. Qui il filosofo, senza andare troppo per il sottile, avverte i membri del Partito che i problemi più urgenti da risolvere non sono quelli che riguardano il mondo quanto piuttosto quelli interni, legati alla vita di tutti i giorni; e collega questi problemi alla democratizzazione:
Secondo la mia opinione, dal punto di vista della democratizzazione attuale, non è determinante la decisione su grandi questioni, piuttosto in merito a questioni quotidiane! Sono convinto di ciò: non c’è molto interesse che la politica estera ungherese sostenga l’Egitto contro Israele, al contrario sarebbe estremamente interessante capire ciò che avviene sul tram, nei mercati coperti, nei consigli, nelle aziende ecc. Cioè ciò che è in strettissima relazione con la vita quotidiana degli uomini. Se a questo livello sorge la democrazia, si estende lentamente verso l’alto, e lentamente verso l’alto farà valere la propria influenza, purché sopra ci siano coloro che vogliono assumere questo punto di vista. Secondo la mia opinione, questo è il punto controverso per il nostro sviluppo economico e politico (p. 93).
Può sembrare quasi una forzatura da parte dell’intervistatore Fehér sottoporre al filosofo, inizialmente, domande su Togliatti per andare a parare alla democratizzazione in una società come quella ungherese del tempo. In realtà, non si tratta di forzatura se Togliatti è chiamato in causa a partire da un editoriale di Rinascita dell’11 luglio del 1964 intitolato Capitalismo e riforme di struttura. A rileggere il testo del Segretario del Pci, si nota come esso sia, in realtà, la molla che spinge Lukács ad una riflessione così articolata sui rapporti fra struttura e sovrastruttura. Scrive Togliatti:
…se la sostanza democratica del regime conquistato con la vittoria della Resistenza non ha potuto essere intaccata, nonostante i ripetuti tentativi di limitarla o annullarla (offensiva scelbiana, legge truffa, leggi capestro proposte da De Gasperi, tentativo tambroniano ecc.) e nonostante i propositi e le minacce anche del giorno d’oggi, il piano di riforme della struttura economica è rimasto sino ad ora quasi esclusivamente un piano. Si è così creato nella società italiana uno squilibrio, diventato oggi evidente più che nel passato. È uno squilibrio non solo tra un piano costituzionale e una realtà, ma tra questa realtà e le aspirazioni delle grandi masse lavoratrici.[2]
A me pare che Togliatti denunci un deficit di democrazia, anzi di democratizzazione, e Lukács riprenda il tema nella sua intervista. Di certo il filosofo non si limita a questo e affronta anche la questione del policentrismo come manifestazione tipica del Togliatti “grandissimo tattico” (p. 67). Pur manifestando qualche perplessità sul policentrismo, non va, però, dimenticato quanto Lukács sosteneva a tal proposito qualche anno prima quando la sua riflessione si proiettava nel solco delle vie nazionali al socialismo e richiamava da molto vicino l’elaborazione togliattiana[3]. La questione, a ben vedere, è una: come deve presentarsi la democrazia in un sistema socialista? La risposta di Lukács è nella proposta della democrazia della vita quotidiana e, mi sembra, coglie così in pieno la sintesi di democrazia socialista e di democrazia politica individuando non tanto quell’insieme di norme e di regole che garantiscono il potere di intervento dei cittadini nella vita politica quanto piuttosto il rapporto vivo e attivo che ognuno intrattiene con la società entro la quale vive e che ha il suo elemento distintivo nel contenuto umano rappresentato da ogni singolo individuo che fa parte di quella specifica formazione economico sociale. La stessa socialità, riempita di contenuti democratici, non sarà più il presentarsi dell’uomo all’uomo in una forma estranea:
La democrazia socialista – basata sull’uomo attivo com’egli è davvero, come è costretto a manifestarsi nella sua pratica quotidiana – nel suo massimo e più intimo esprimersi tramuta i prodotti cui gli uomini giungono inconsapevolmente (o con una falsa coscienza) in oggetti fatti consapevolmente per l’uomo stesso, la cui produzione perciò fornisce all’attività soggettiva un senso, una soddisfazione, che trasforma la presenza dell’altro, da limite della nostra prassi, in cooperazione ed aiuto indispensabile e quindi bene accolti[4].
Lukács nota che il socialismo che nasce dalla democrazia della vita quotidiana ha bisogno di strumenti ad hoc che vengono individuati nell’autogestione delle masse (si veda l’intervista del 1970, Il sistema dei Soviet è inevitabile, pp. 161-176). Mentre l’evoluzione del capitalismo ha partorito le due figure contrapposte del borghese e del cittadino (Lukács sulla sua vita e la sua opera, pp.132-146), tutta la storia del socialismo, dalla Comune di Parigi alle due rivoluzioni russe, si è mossa nell’ottica della democrazia consiliare (“Credo che nella Comune di Parigi e nella Rivoluzione russa, nei consigli operai realmente eletti, si sia trovata una forma geniale della democrazia diretta”, p. 95) la quale altro non è che la democrazia della vita quotidiana. Avendo come referente Marx, nel modo seguente si esprime il filosofo:
… Marx ha dimostrato molto chiaramente, nei suoi scritti giovanili, che nella democrazia borghese esiste un dualismo fra il cittadino e il borghese, e il materialismo borghese, secondo l’espressione di Marx, regna sempre sull’idealismo democratico del cittadino; e la lotta dei cittadini borghesi nella rivoluzione francese è diventata una semplice caricatura in tutti i Paesi capitalistici. Per questo motivo, non credo che ritornare a questo tipo di democrazia sia una soluzione; per un reale cambiamento, è necessaria una vera e propria democrazia proletaria; con ciò, intendo solamente la democrazia dei Soviet del 1917. E non credo che, senza una sorta di ritorno ai Soviet del 1917, sia possibile compiere delle reali riforme (L’ultima intervista, p. 185).
L’autorganizzazione e l’autogestione vanno estese fino al livello della vita quotidiana per essere di lì nuovamente diffuse in maniera che sia il popolo a prendere le decisioni essenziali sui problemi più importanti. Una risposta che mette in evidenza la necessità per il rinnovamento del socialismo di una dose sempre maggiore di cultura che è la bussola attraverso la quale è possibile orientarsi nella vita al fine di capire «se questo o quel fenomeno corrispondono alla propria concezione della vita»[5].
Intorno a questi temi, Lukács discuteva con Abendroth riferendosi all’importanza della nascita e dello sviluppo di movimenti di intellettuali e di studenti che, nei paesi industrialmente avanzati, specialmente negli Stati Uniti e nella Germania federale, lottassero in favore dell’acquisizione dei diritti e dell’affermazione della democrazia contro la manipolazione. Lukács si esprimeva nel modo seguente:
Il compito di questo movimento contro la manipolazione è ora da sottolineare con forza, tanto più che la borghesia, specialmente quella tedesca ma anche quella americana, con la parola d’ordine “La patria è in pericolo”, tende a trasformare situazioni in cui non corre nessun pericolo in periodi di oppressione. Quando (…) parlavo della prassi giuridica bisogna notare che non si tratta tanto di stabilire come realmente si sono svolti i fatti quanto di saggiare la saldezza dell’autorità della corte. Qui affiorano di nuovo problemi con i quali, attraverso una trattazione storicamente concreta, possiamo avvicinarci alle questioni degli uomini[6].
Il tema è riproposto nell’Intervista sconosciuta (1968):
I movimenti sono in tutto il mondo, e qui si tratta di una rivolta spontanea, e noi possiamo dire che la parte più evoluta degli studenti non vuole essere presa per idiota: questa è la mia concezione; sente che l’educazione, che riceve nell’università, la fa diventare idiota, e non vuole esserlo, e contro di ciò, anche senza un programma e senza una strada, si ribella (p. 69).
Emergono qui due temi di notevole importanza nella prassi della teoria politica del marxismo: lo spontaneismo e l’educazione, quindi la cultura, a cui già si è fatto riferimento poco prima. Di fatto tutte le interviste affrontano la prima questione nella prospettiva di una sua possibile soluzione nei termini della democrazia della vita quotidiana. Allo stesso modo tutte le interviste sono ricche di riferimenti alla centralità dell’educazione e della cultura, con particolare riguardo al ruolo della letteratura. Pur manifestando qualche perplessità intorno allo spessore specifico della letteratura a lui contemporanea, Lukács è convinto che essa occupi un ruolo di primo piano nella lotta per “la conservazione e lo sviluppo dei valori umani” nell’epoca della manipolazione. In questa prospettiva, quindi, “la letteratura può sostenere più di quanto abbia mai fatto” (Il dialogo nella corrente, p. 155).
Fra gli elementi più interessanti delle interviste si propone la critica dello stalinismo. Lukács la affronta a partire dall’analisi del metodo di Stalin:
Secondo la mia opinione esiste (…) un metodo staliniano il cui fondamento e il cui punto culminante è la subordinazione di ogni questione al punto di vista tattico. Stalin rovesciò ciò che Engels pose in modo corretto: che c’è una teoria e dalla teoria ne consegue una strategia e dalla strategia ne consegue una tattica. In Stalin il processo è rovesciato e la tattica rovesciata, in quanto tale, crea una teoria (Intervista sconosciuta, p. 85).
Seguono, a supporto dell’affermazione, tutta una serie di esempi tratti dalla storia di diversi Partiti comunisti per pervenire alla conclusione, che ha generato problemi di notevole spessore politico, ma anche sociale, nel socialismo, che “Stalin voleva fare in modo che il segretario del partito fosse il custode e lo sviluppatore ulteriore del marxismo. Questo è stato un completo fallimento dappertutto…” (Intervista sconosciuta, p. 103). D’altronde già nella prima intervista contenuta nel volume, risalente al 1963, il filosofo ungherese ricorda il compito prioritario per tutti i marxisti:
… dobbiamo dimostrare al mondo ciò che differenzia il marxismo dallo stalinismo. Sia in Occidente che in Oriente troviamo dei teorici comunisti che non vogliono rompere con lo stalinismo. D’altro lato, l’ala di estrema destra dell’Occidente si sforza di portare la prova che Stalin non ha fatto altro che continuare conseguentemente la teoria di Lenin. È nostro dovere dimostrare la continuità tra Marx, Engels e Lenin, di portare le prove che tutti e tre si sono serviti degli stessi metodi, mentre Stalin, in molti punti del metodo e della sua applicazione, ha rotto col marxismo (…), si è incamminato per un’altra via (A proposito di letteratura e di marxismo creativo, p. 36).
Con il rischio di ripetere cose già qui scritte, nel loro insieme queste dieci interviste propongono, a chi ne affronti la lettura, un Lukács a tutto tondo, pronto alla risposta ma altrettanto deciso nel presentarsi agli interlocutori non nelle vesti del politico (“Non sono un politico” afferma in Il dialogo nella corrente, p. 148; “Io stesso, dal 1930, non sono più un attivista politico e tento adesso, come ideologo, di portare alla superficie quello che costituisce l’essenziale nel marxismo” dice in Il sistema dei Soviet è inevitabile, p. 175) quanto in quelle dell’ideologo nel senso marxiano del termine, come sottolinea quando afferma che Marx
ha detto che lo sviluppo economico, soprattutto la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione, in ogni momento, ci pongono problemi. Il mezzo con il quale questi problemi diventano coscienti e sono affrontati è l’ideologia (Il sistema dei Soviet è inevitabile, p. 167).
Per concludere, una questione per nulla peregrina di carattere bibliografico e biografico: quando Lukács rilascia la prima intervista nel 1963 è stata appena pubblicata la sua Estetica; i contenuti di tutte le interviste poggiano, a ben vedere, sul chiarimento logico e storico di quelli che saranno i temi della grande opera a cui sta lavorando, ossia l’Ontologia dell’essere sociale.
[1] G. Lukács, L’uomo e la democrazia, a cura di A. Scarponi, Lucarini, Roma 1987; ora anche G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, manifestolibri, Roma 2013.
[2] P. Togliatti, Capitalismo e riforme di struttura in Togliatti editorialista. 1962-1964, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 307-308.
[3] Si veda l’intervista concessa da Togliatti alla rivista «Nuovi argomenti» diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci. Nel numero 20 del maggio-giugno 1956 la rivista aveva rivolto a diverse personalità della cultura e della politica «9 domande sullo stalinismo». Il testo integrale in P. Togliatti, Sul movimento operaio internazionale, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 231-265. La risposta di Lukács fu pubblicata nel n. 57-58 del 1962 e si può leggere con il titolo Lettera al sig. Carocci in G. Lukács, Marxismo e politica culturale. Socialismo e libertà, il Saggiatore, Milano 1972, pp. 143-169.
[4] G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., pp. 97-98.
[5] G. Lukács, Cultura e potere, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 93.
[6] Abendroth, Holz, Kofler, Conversazioni con Lukács, a cura di C. Pianciola, Laterza, Bari, 1968, p. 132. Dal punto di vista lukácsiano le “questioni degli uomini” sono costituite dal problema del diritto come limite, “il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso” (K. Marx, Sulla questione ebraica in Marx-Engels, Opere, v. III, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 176). Ed il concetto di tale limite, per Lukács, era già stato espresso: “Hobbes espresse con brutalità tale stato di cose parlando di homo homini lupus” (G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 44).