Alexander Höbel
Col suo ultimo libro[1] Paolo Ciofi contribuisce a rimettere in circolazione, fin dal titolo, due termini quasi spariti dal dibattito politico, anche nella sinistra “di alternativa”, ossia rivoluzione e socialismo. Naturalmente quella che l’Autore delinea è “la rivoluzione del nostro tempo”; non dunque la riedizione di altre, pur straordinarie, esperienze, ma il cambiamento radicale dello stato di cose presente possibile e necessario nelle condizioni del mondo di oggi. L’obiettivo è quello di un “nuovo socialismo”, strettamente legato alla teoria e alla pratica della “via italiana”, alla strategia gramsciana e togliattiana, al progetto di società delineato nella Costituzione: un patrimonio di elaborazione e di esperienze che da un lato viene aggiornato, dall’altro è concepito come possibile ispirazione non solo per l’Italia, ma anche per altri paesi a capitalismo avanzato.
Si tratta, in sostanza, di tornare a riflettere sul tema del socialismo nei punti alti dello sviluppo capitalistico, che invece sono i più arretrati sul piano politico; di tornare a porre, nelle forme adeguate a un contesto del tutto nuovo, il problema della rivoluzione in Occidente.
Nel contribuire a questo sforzo, Ciofi ha il merito di utilizzare parole e concetti che paiono in disuso – capitale come rapporto sociale, sfruttamento, rapporti di proprietà, lotta di classe – con una operazione di “igiene linguistica” quanto mai necessaria in questa fase di confusione e azzeramento di un lessico che per tanti anni è stato uno strumento di orientamento decisivo per larghe masse.
L’Autore parte dall’idea che la crisi attuale sia il sintomo di una “crisi generale” del sistema capitalistico, il quale vive una fase di netta involuzione e aperto declino nonostante lo straordinario sviluppo tecnologico e scientifico pure in atto. Marxianamente, è il conflitto classico tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione che «diventa sempre più appariscente e profondo». Il sistema finisce per avvitarsi su sé stesso, molte forze produttive diventano forze distruttive, non solo nei confronti della forza-lavoro condannata alla disoccupazione tecnologica, ma anche nei riguardi dell’ambiente, sottoposto a devastazione e degrado con rischi globali enormi, e della stessa convivenza pacifica tra popoli e Stati.
Il sistema inoltre si fa sempre più iniquo, nella distribuzione dei redditi e del potere ma più in generale dei vantaggi dello sviluppo. Le ricerche di studiosi anche non marxisti come Piketty lo confermano, e tuttavia omettono un dato fondamentale, ossia che «la distribuzione del reddito e quella della ricchezza dipendono in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà». È questo dunque il tema che bisogna tornare a porre al centro dell’attenzione. Ciofi affronta così il «convitato di pietra» dei tanti dibattiti a sinistra, la questione proprietaria: chi detiene, controlla e gestisce i mezzi di produzione e le leve finanziarie. Senza mettere in discussione questo aspetto, ogni dibattito risulta sterile. Tanto più che nel mondo la percentuale di lavoratori salariati è cresciuta enormemente, e la polarizzazione rispetto alla “classe capitalistica transnazionale” (per usare la definizione di Luciano Gallino) che detiene proprietà dei mezzi di produzione e controllo della finanza, e dunque ricchezza e potere, è diventata insostenibile.
Un altro aspetto per il quale Ciofi attualizza l’analisi di Marx è la vituperata legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: l’aumento della quota di capitale fisso (investimenti in macchinari e tecnologie) rispetto a quella di capitale variabile (costi per la forza-lavoro, dalla quale viene estratto il profitto capitalistico) tende a far diminuire non i profitti in assoluto ma il saggio di profitto. Anche per questo il capitale da un lato attacca costantemente il lavoro riducendo ulteriormente i salari, dall’altro cerca altre vie per la propria valorizzazione: la finanza, gli investimenti speculativi, i fondi-pensione; una sorta di roulette del capitale globale che finisce per coinvolgere anche gli Stati e i loro bilanci, ormai di fatto – ed è un dato estremamente allarmante – «privatizzati».
Questa pervasività del capitale ha fatto sì che la politica tornasse in larghissima parte a essere appannaggio delle classi dominanti, rovesciando un processo storico iniziato almeno dal primo dopoguerra se non dal 1848. Si è tornati cioè a sistemi politici “monoclasse”, in cui i lavoratori sono privati di rappresentanza e possibilità di incidere. Ma «la privatizzazione della politica – scrive giustamente Ciofi – ha spalancato le porte alla crisi della democrazia», che diventa un non secondario «aspetto della crisi del sistema».
In questo quadro, il caso italiano è emblematico, col mutamento avviato con la liquidazione del Pci, la crisi della “Repubblica dei partiti”, l’ascesa di Berlusconi, la stagione dei “tecnici” e delle privatizzazioni, fino a quella che Colin Crouch definisce “post-democrazia”.
Sullo sfondo c’è naturalmente la dimensione europea. Ciofi non concentra la sua attenzione sull’euro in quanto tale, ma osserva che, «fissata con la moneta unica la rigidità dei cambi, imprese e Paesi non possono più competere attraverso la svalutazione della moneta», ma solo «mediante la svalorizzazione del lavoro». E tuttavia il livello continentale è quello al quale il movimento dei lavoratori non può sottrarsi. Per l’Autore andrebbe costruita una piattaforma unitaria tra le forze del movimento operaio europeo, della quale egli delinea i punti centrali:
– un piano per l’occupazione e la qualificazione del lavoro, rivolto in particolare alla tutela dei beni ambientali e culturali, alla messa in sicurezza del territorio e al risanamento delle periferie urbane;
– la promozione programmata dell’innovazione scientifica e tecnologica correlata alla riduzione dei tempi di lavoro e all’elevamento culturale dei cittadini, assicurando l’istruzione gratuita per tutti fino al livello superiore e per i meritevoli fino all’università;
– l’aumento dei salari e degli stipendi, tale da garantire una vita dignitosa a tutti i residenti a parità di condizioni tra uomini e donne per pari lavoro, eliminando contratti a termine e ogni forma di lavoro precario;
– la fissazione di standard comuni per le tutele sanitarie e previdenziali e per la tutela della maternità, corredati di adeguati servizi rivolti a elevare i livelli di vita e a contrastare il calo delle nascite e la mortalità infantile;
– il riordino del sistema fiscale secondo i seguenti criteri: progressività delle imposte in base al principio che chi più ha più paga; introduzione dell’imposta patrimoniale sui grandi patrimoni a partire dall’esonero della casa per abitazione; lotta efficace all’evasione e all’elusione fiscale; eliminazione dei paradisi fiscali, controllo sui movimenti dei capitali e separazione delle banche commerciali dalle banche d’investimento a tutela del risparmio.
Il tutto ordinato al fine della coesistenza pacifica tra i popoli e al disarmo generale, e quindi al ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali[2].
Si tratta insomma di costruire un’alternativa credibile alla politica delle destre, e al tempo stesso di recuperare uno sguardo globale, quei «pensieri lunghi sul futuro dell’umanità» che furono già propri di Togliatti e di Berlinguer. Per l’Autore, occorre «prendere atto che un intero ciclo storico della sinistra […] si è definitivamente concluso. Non solo il ciclo del movimento operaio novecentesco», ma anche quello delle varie sinistre post-1989. E tuttavia, in questo quadro dissestato, alcuni punti fermi restano, e tra questi Ciofi individua in primo luogo la Costituzione repubblicana, intesa come progetto di trasformazione sociale e politica, con le sue acquisizioni sulla molteplicità delle forme di proprietà, sull’economia mista, sul ruolo dello Stato e della proprietà pubblica, sulla democrazia partecipata e di massa. Il rapporto Stato/mercato, del resto, è al centro delle poche esperienze positive che le forze progressive hanno messo in campo in questi anni, dalla Cina all’America latina.
D’altra parte, Ciofi sottolinea che il progetto delineato dalla Costituzione, già colpito e in parte svuotato, è destinato a rimanere lettera morta se non ha le gambe su cui camminare, lo strumento che consenta di attuarlo, ossia il partito politico delle classi lavoratrici, il gramsciano “moderno Principe”. È un punto che rimanda al danno immenso procurato ai lavoratori dalla liquidazione del Pci, ma anche ai tanti errori compiuti nel percorso della “rifondazione comunista”, che troppo poco e troppo superficialmente si è misurata con il patrimonio e la cultura politica del comunismo italiano, segnando anzi spesso inutili cesure che non hanno prodotto risultati brillanti.
Il volume si conclude quindi ponendo un problema: «Come si possa costruire il partito delle classi lavoratrici nell’epoca della rivoluzione digitale dominata dal capitale»; come cioè si possa «organizzare e portare sul terreno del conflitto politico tutti coloro che […] in qualsiasi modalità […] sono sfruttati», sulla base di una chiara piattaforma anticapitalistica e con l’obiettivo della costruzione di un altro sistema sociale e politico, più umano, giusto e avanzato; ponendo cioè a prospettiva di un nuovo socialismo.
Il tema del partito politico rimane dunque centrale: per Ciofi occorre un partito «rivoluzionario, popolare e di massa», che superi modalità di fare politica autoreferenziali e torni a unire il politico e il sociale. È un obiettivo difficile ma imprescindibile, che apre un ulteriore terreno di discussione, di sperimentazione e di ricerca; merito dell’Autore averlo posto con forza all’attenzione di tutti.
[1] P. Ciofi, La rivoluzione del nostro tempo. Manifesto per un nuovo socialismo, Roma, Editori Riuniti, 2018.
[2] Ivi, pp. 49-50.