Viviana Fabbri*
A distanza di cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre si è da poco conclusa la “Conferenza di Roma sul comunismo”, evento attesissimo dal titolo eloquente quanto generico. E proprio questa genericità è stata rivendicata come punto di forza dagli organizzatori, i quali hanno sottolineato la presenza di una grande «varietà di tradizioni teoriche», descrivendo la conferenza come «un evento che rompe la consuetudine di movimento di organizzare incontri tra simili, interni a correnti politiche omogenee» (1).
Nel tentativo di tracciare un bilancio tempestivo di questi cinque giorni di intenso dibattito culturale ciò che emerge in primo luogo è invece la sensazione di essersi trovati davanti a un pluralismo soltanto apparente: i relatori, tutti (o quasi) più o meno vicini alle istanze della sinistra di movimento, hanno mostrato una certa conformità di fondo nel modo di porre i problemi e nelle tematiche affrontate. L’impressione generale è che il risultato – più o meno intenzionale – di questa conferenza sia stato quello di svuotare di senso il concetto stesso di comunismo, e di traghettarlo verso una nuova (e radicalmente diversa) prospettiva politica: quella del neomunicipalismo e della democrazia diretta. Attraverso una rilettura selettiva di Marx e Lenin viene giustificata la necessità di impegnarsi nella lotta per l’«autogoverno dei beni comuni», come affermano Dardot e Laval, sempre naturalmente al di fuori e contro lo Stato. E mentre Marramao propone l’ideale di una «democrazia federativa costituita dalla rete di municipalità fatta di contesti territoriali urbani» nel tentativo di immaginare una «territorialità non euclidea» entro cui organizzare la lotta (senza dubbio una questione improrogabile), anche Marcelo Exposito, uno dei pochi rappresentanti politici presenti all’iniziativa, conferma che il comune si costituisce solo al di fuori delle istituzioni.
«Questa sinistra è indifferente alla questione del potere», dice Enzo Traverso, il che non è esattamente vero: essa rifiuta, disprezza esplicitamente il potere, lo respinge, ed è per questo che rimane minoritaria. Le questioni che emergono, in fin dei conti, si iscrivono tutte all’interno di «un’agenda tematica angusta», come l’ha definita Barbara Carnevali (2), costituita da alcuni paradigmi ricorrenti: noi desiderante, contropotere, collettivo, movimenti, territori, soggettività costituenti, bios, moltitudini, capitale. Si tratta insomma di una koinè intellettuale adeguatamente sintetizzata dal motto (ben visibile al lato del palco) “Sputiamo su Hegel” – e sembra legittimo domandarsi: ma quanti hanno davvero letto Hegel senza filtri lonziani di sorta?
Lungi dal costituirsi come occasione di ricomposizione della frammentaria galassia del “comunismo”, la conferenza ha piuttosto dato voce e spazio a prospettive che suonavano perlopiù all’unisono; chi invece non si riconosce nel coro in questione rischia irrimediabilmente di trovarsi nella “lista dei non-comunisti” stilata da Negri (fra i quali risultano anche quanti non demonizzano l’esperienza del socialismo reale).
Per chi non è nuovo al dibattito della cosiddetta estrema sinistra di ispirazione foucaultiana, questo tipo di argomenti è familiare: quasi tutti i problemi della società contemporanea vengono ricondotti allo Stato e al suo «monopolio della violenza legittima», per usare una nota espressione di Weber. E così, la più grande esperienza di rivoluzione comunista conosciuta dalla storia – per quanto ormai conclusa - paga la colpa di essersi data un’organizzazione politica con la damnatio memoriae dei moderni. Si è dunque trattato di una cattiva pratica intellettuale, perché al posto di mettere in discussione o esplicitare le premesse della propria narrazione, queste sono state passate sotto silenzio, tanto da presentare Marx come il teorico della “differenza” (Maria Luisa Boccia) e i soviet come il modello per le nuove “istituzioni del comune” (Toni Negri).
Ma cosa significa davvero questo comune e in cosa esso sarebbe preferibile al pubblico, e perché la forma partito deve essere superata in favore dell’”impresa” (sic) Toni Negri non lo dice. Però adesso abbiamo un nuovo traguardo difficile da comprendere e impossibile da mettere in pratica: se ne sentiva effettivamente il bisogno. Non che siano mancate, a dire il vero, alcune voci fuori dal coro, così da avere almeno una parvenza di pluralismo. Il primo giorno si è distinto l’intervento di Luciana Castellina, che ha avuto persino l’ardire di citare Togliatti senza alcuna denigrazione, mentre Bellofiore e Finelli hanno tenuto a precisare la loro distanza dall’impostazione della conferenza. Quest’ultimo in particolare ha rilevato la necessità di non appiattirsi sulle tematiche del desiderio e del bisogno, poichè da sole esse sono «concezioni signorili, basate sul disprezzo del lavoro».
Infine Jodi Dean, una studiosa americana, in un intervento molto critico che suonava come una smentita radicale delle posizioni prevalenti, ha sostenuto la necessità della lotta non fuori ma all’interno dello Stato, e quella di riprendere in mano gli strumenti del partito e del sindacato. Il convitato di pietra era naturalmente la riflessione sulla sconfitta epocale della sinistra e del comunismo stesso; eppure questa presa d’atto, dolorosa quanto necessaria, è condizione per qualsiasi azione concreta. Ma d’altro canto, da una sinistra che non si pone nemmeno il problema del proprio settarismo politico e culturale (e che afferma con disinvoltura che «il comunismo è inevitabile») non ci si può certo aspettare la volontà di incidere nel mondo: al contrario, questo radicalismo intellettuale non fa altro che dissimulare una reale subalternità politica.
Il comunismo in effetti, per i reduci italiani della sinistra extraparlamentare, non è «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» ma, come ha sostenuto Franco Piperno in un’intervista a margine del convegno, «una attitudine». Così, l’interrogazione radicale sulle ragioni della propria sconfitta non è questione all’ordine del giorno; e piuttosto che affrontare la realtà, si preferisce indugiare nelle questioni più improbabili, come l’ipotesi di Franco Berardi ‘Bifo’ di occupare la Silicon Valley o quella di un attivista intervistato che propone lo “sciopero dei generi”. Allo stesso modo, è passata sotto silenzio la storia dei comunisti – con la significativa eccezione di Luciana Castellina -, i quali, a dire il vero, in alcuni momenti hanno combattuto anche per la sovranità nazionale e la democrazia rappresentativa. In Italia per esempio, il PCI – che in questi ambienti viene di solito superficialmente liquidato per la sua presunta natura repressiva - è stato molto diverso dal comunismo sovietico anche per le sue radici gramsciane. In conclusione, ripercorrendo a grandi linee il filo del discorso tessuto in questa cinque giorni romana, non si è voluto condurre l’ennesima polemica contro la gauche da salotto, attività prediletta da una certa destra che ha in orrore gli intellettuali. Al contrario: si auspica che in futuro molti altri possano prendere la parola su un questione essenziale come quella del comunismo, magari cercando di oltrepassare l’ormai stantìa e inadeguata ortodossia movimentista e postmoderna.
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* Testo tratto dal sito www.controlacrisi.org (http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2017/1/26/48720-comunismo-avanguardie-e-raggiri-intellettuali-appunti-di/).
1 http://www.dinamopress.it/news/c17-la-conferenza-di-roma-sul-comunismo
2 http://www.leparoleelecose.it/?p=24320