Lelio La Porta

 

I momenti della vita turbolenta e tempestosa di György Lukács sono stati segnati da passaggi fondamentali del suo pensiero. Questo nesso stretto tra vita e pensiero viene colto e realizzato nella forma di una ponderosa biografia intellettuale da Antonino Infranca al culmine di una meritoria e convinta ricerca pluridecennale[1]. Il nodo teoretico che l’autore individua come centrale è quello costituito da etica e politica.

            Il libro è introdotto da Miguel Vedda[2] che ne mette in evidenza una delle linee di sviluppo centrali ossia «la valutazione retrospettiva del pensiero staliniano» che consente «una rivalutazione della biografia, della figura e della fisionomia politica di Lenin»[3]. Inoltre, prendendo lo spunto da un’affermazione dello stesso filosofo ungherese il quale, nella sua Autobiografia[4], fa presente la continuità di sviluppo del suo pensiero all’interno del quale non vi sarebbero elementi di discontinuità, la sottolineatura della quale da parte di molti suoi lettori ha prodotto la distinzione fra un giovane Lukács e un Lukács maturo, lo studioso argentino fornisce a chi leggerà il volume di Infranca l’individuazione del metodo di ricerca e della modalità di applicazione alla materia del materiale documentale.

            Il libro di Infranca si sviluppa lungo undici capitoli il primo dei quali è intitolato La ricerca della luce nel quale viene preso in considerazione il periodo giovanile. L’estraneità del filosofo all’ambiente sociale e familiare di appartenenza gli consente la realizzazione di opere di notevole caratura letteraria ed estetica in cui, secondo l’autore, è predominante l’etica e la riflessione su di essa. A questo periodo risalgono i suoi primi libri (La forma drammatica, 1909; Metodologia della storia letteraria, 1910; Cultura estetica, 1911; Storia dell’evoluzione del dramma moderno, 2 voll., 1912) mentre la sua prima raccolta di saggi in tedesco (L’anima e le forme) era apparsa nel 1911. In questo stesso periodo prepara un libro sull’estetica (non portato a termine) e uno su Dostoevskij (non pubblicato di cui rimangono gli appunti)[5]. Fra il 1914 e il 1915 scrive La teoria del romanzo. L’attenzione di Infranca si concentra sul mai pubblicato libro sul grande autore russo e Teoria del romanzo nei quali già emerge la centralità dell’etica in rapporto alla politica tanto che Lukács considera l’azione rivoluzionaria alla stregua di un peccato poiché la violenza invade la sfera dell’Altro. Sembra che l’azione rivoluzionaria, ossia politica, agisca autonomamente rispetto all’etica e l’autore ne evince, sotto forma di domanda, quanto segue:

            Pare proprio che un’azione politica non possa essere necessariamente etica, è un ridimensionamento dell’onnipotenza dell’etica, come scrive nella Teoria del romanzo?[6]

            Il secondo capitolo (L’adesione al comunismo), il terzo (Storia e coscienza di classe) e il quarto (Dopo Storia e coscienza di classe) affrontano la breve esperienza della Repubblica ungherese dei Consigli, nella quale Lukács fu commissario del popolo all’istruzione e commissario politico della quinta divisione. Conclusasi l’esperienza consiliare, dovette fuggire a Vienna dove, arrestato, scampò all’estradizione richiesta dal governo ungherese grazie all’intervento di un gruppo di intellettuali fra cui Thomas Mann. Sono gli anni in cui vive fra Vienna e Berlino e produce, fra gli altri, i saggi che comporranno nel 1923 Storia e coscienza di classe. Il quarto capitolo, in modo particolare, affronta il dibattito intorno al libro lukácsiano del 1923, le polemiche che ne seguirono la pubblicazione e ripercorre tutta la vicenda del filosofo fino alle Tesi di Blum del 1929. Il nesso stretto fra etica e politica emerge in modo chiaro soprattutto nello scritto Tattica e etica del quale Infranca coglie il passaggio più significativo che riporta e commenta; scrive Lukács:

            …l’azione del singolo, determinata da motivi esclusivamente etici, trapassa nel campo della politica, la sua giustezza o erroneità oggettiva (dal punto di vista della filosofia della storia) non può essere indifferente nemmeno a livello etico[7].

            Infranca fa riferimento, seppure in maniera rapsodica in alcuni momenti del suo lavoro, ad un possibile rapporto fra il filosofo ungherese e Antonio Gramsci. È possibile azzardare qualche accostamento. Per entrambi la Rivoluzione del 1917 fu un evento decisivo ed entrambi, proprio a partire da quella svolta epocale, svolsero un’attività politica diretta; Gramsci nei Consigli di fabbrica del biennio rosso, e poi nel neonato Pcd’I, Lukács nella Repubblica ungherese dei Soviet. Proprio in quanto attori politici attivi in quelle due esperienze, entrambi ebbero modo di riflettere, seppure in epoche diverse, sugli esiti negativi, sulla fine di quella stagione rivoluzionaria.

Quando si passa dalla guerra manovrata alla guerra di posizione, ossia, fuor di metafora, quando si esaurisce la spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre e, perciò, quando si pone la necessità di un ripensamento della strategia rivoluzionaria in Occidente? Gramsci risponde nel modo seguente:

Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo (Q10 I, 9, 1229, Testo C)[8].

           

Leggendo la nota si evince che Gramsci riconduca al marzo del 1921 la conclusione della guerra di movimento iniziata con la rivoluzione del 1917; si è sostenuto che, indicando il marzo del 1921, volesse riferirsi ai fatti di Kronstadt, «rivelando così uno sguardo pessimista sull’Urss»[9]. Mentre si può convenire sul fatto che Gramsci in carcere avesse maturato «uno sguardo pessimista sull’Urss», sorge qualche dubbio circa il riferimento esclusivo a Kronstadt come culmine della guerra di movimento iniziata nel 1917. Scrivendo su L’Ordine Nuovo nel marzo del 1921 due articoli (Russia e Germania, 10 marzo e Inghilterra e Russia, 18 marzo) in cui riporta la notizia di Kronstadt, Gramsci, in entrambi i casi, definisce l’evento come «un tentativo di insurrezione controrivoluzionaria … inscenata dalla reazione internazionale»[10] e scrive ancora che, nonostante ciò, la «rivoluzione mondiale» è ancora possibile. Può anche darsi che Gramsci avesse maturato in carcere un diverso giudizio, ma tracce tangibili non ce ne sono a meno che non ci si voglia avviare, anche in questo caso, lungo i sentieri che conducono alle illazioni in mancanza di documenti (peraltro lo stesso lemma «controrivoluzione» compare nei Quaderni del carcere tante volte quante sono le dita di una mano). Per cui, più verosimilmente da un punto di vista storico e nella prospettiva della rivoluzione intesa come «processo dialettico di sviluppo storico», il riferimento al marzo del 1921 come esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre potrebbe essere, da un lato, al Trattato di Riga del 18 marzo[11] con cui veniva a chiudersi la guerra sovietico-polacca e, dall’altro lato, al fallimento del tentativo di sciopero generale organizzato dai minatori tedeschi di Mansfeld in Sassonia a cui lo stesso Gramsci dedicò un articolo il 30 marzo[12] e che avrebbe potuto rappresentare, in caso di successo, l’allargamento della rivoluzione in Europa, la sua espansione continentale. A supporto dell’ipotesi qui proposta giunge in soccorso proprio Lukács che, nella sua Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, scriveva quanto segue:

Avvenimenti come il putsch di Kapp, l’occupazione delle fabbriche in Italia, la guerra sovietico-polacca ed infine l’azione di marzo, rafforzarono la convinzione del rapido approssimarsi della rivoluzione mondiale, di una vicina e totale trasformazione dell’intero mondo civile[13].

           

L’intellettuale marxista, emigrato a Vienna, come già ricordato, dopo il fallimento dell’esperienza rivoluzionaria ungherese, scrisse, all’epoca dei fatti, due articoli sull’«azione di marzo»: Spontaneità delle masse, attività del partito e Problemi organizzativi dell’iniziativa rivoluzionaria, entrambi pubblicati su Die Internationale del 1921 (precisamente sui numeri 6 e 8), in cui metteva in evidenza come il fallimento dell’«azione di marzo» dovesse essere ricondotto all’incapacità del Partito di organizzare le masse[14]. Per maggior chiarezza: nel marzo 1921 sembrò offrirsi un’occasione di lotta con sviluppi imprevedibili. In seguito a piccoli conflitti locali il governo prussiano inviò rinforzi di polizia nella regione mineraria di Mansfeld, nella Germania centrale, sede allora di un proletariato particolarmente radicale e risoluto. I minatori considerarono l’intervento della polizia di Stato come una provocazione e presero le armi. La centrale del KPD, ossia del Partito comunista, non aveva promosso la rivolta di Mansfeld. Tuttavia la direzione del Partito credette di dover sostenere la rivolta degli operai di Mansfeld invitando allo sciopero generale tutto il proletariato tedesco sperando di poter attrarre nel movimento anche gli operai socialdemocratici. L’attesa grande sollevazione del proletariato tedesco tuttavia mancò. Gli organizzati del KPD fecero tutti gli sforzi per eseguire le parole d’ordine della direzione del partito, ma la massa del proletariato rimase indifferente di fronte agli avvenimenti non vedendo in questo conflitto locale un motivo per sollevarsi ed iniziare la lotta decisiva contro il capitalismo. Così lo sciopero generale fallì completamente e andarono perdute anche le speranze che la riuscita dello sciopero potesse essere l’inizio di una rivoluzione su scala europea.

            La voce di Lukács si unisce a quella di Gramsci ed entrambi sembrano propendere nell’individuazione, in quest’insieme di avvenimenti, della fine della fase di guerra manovrata nel marzo del 1921; il che non esclude a priori Kronstadt ma suggerisce una cautela maggiore prima di pronunciarsi in maniera definitiva.

Il quinto capitolo del libro di Infranca (Critica letteraria e lotta politica) e il sesto (La critica alla filosofia borghese) affrontano le problematiche legate al periodo moscovita. Infatti all’avvento del nazismo al potere in Germania, Lukács si trasferisce a Mosca dove rimarrà fino alla fine della seconda guerra mondiale studiando e ricercando presso l’Istituto Marx-Engels-Lenin. È costretto, come ricorda l’autore, a condurre una sorta di «guerriglia dissimulata»[15] contro l’estetica dominante stalinista e anche contro le avanguardie letterarie che, a suo dire, condividevano gli stessi canoni estetici dello stalinismo. Si ritrovò nella paradossale situazione di essere accusato di stalinismo, nel momento in cui criticava la filosofia borghese e le avanguardie letterarie, e di essere, al contrario, indicato come marxista autentico quando si opponeva all’uso propagandistico dell’arte da parte dello stalinismo. «Guerriglia dissimulata», scrive l’autore. Può la «guerriglia dissimulata» lukácsiana essere accostata in qualche modo all’onesta dissimulazione di Croce nei confronti del fascismo? Il filosofo ungherese, rispetto a quello italiano che godette di una certa libertà di movimento da parte del regime fascista (ad esempio non gli fu impedito di recarsi ad Oxford per il Congresso di filosofia che si tenne dal 1 al 6 dicembre del 1930), fu sottoposto ad interrogatorio dalla polizia sovietica nel 1941. E a proposito del rapporto con lo stalinismo, davanti ad una critica nei confronti di un suo scritto sulla letteratura e la democrazia (1947), Lukács si ritirò dalla vita politica tornando sulla scena pubblica nel 1949 con Esistenzialismo o marxismo? Il 29 giugno del 1951 tenne all’Accademia Ungherese delle Scienze una conferenza sulla linguistica[16], o meglio, «sui contributi staliniani ai problemi della linguistica»[17]. Nella Premessa all’edizione italiana del 1957 del volume edito da Feltrinelli, Lukács si espresse nel modo seguente:

Per ciò che concerne il modo tenuto nell’esposizione, è doveroso ammettere che un autore marxista, nei tempi trascorsi, più di una volta si trovò nella necessità di venire a compromessi, per potere in generale pubblicare le proprie opere ed esercitare una influenza. (…) Questi compromessi si concentravano sulla persona e sull’operato di Stalin. (…) L’ultimo saggio di questa raccolta tratta dello scritto di Stalin sulla linguistica. Il lettore attento non avrà difficoltà a notare che la mia conferenza confuta senz’altro, - o per lo meno sostanzialmente corregge - in due punti importanti le affermazioni di Stalin[18].

Dopo aver sottolineato i punti del suo dissenso da Stalin, Lukács conclude così:

Date le circostanze in cui la conferenza fu tenuta e pubblicata, questa polemica contro Stalin non poteva essere espressa altrimenti che sotto forma di interpretazione. E posso anche dire che è stata una fortuna che la mia forzata mimetizzazione teorica sia riuscita e la critica nascosta non sia stata svelata come tale[19].

            La critica alla filosofia borghese si sintetizza, a ben vedere, nell’opera forse più controversa di Lukács, quello che ancora oggi da più parti è etichettato come il libro più stalinista della sua intera produzione, cioè La distruzione della ragione (1954), mentre Infranca scrive che «rappresenta probabilmente un passo ulteriore verso l’allontanamento dallo stalinismo»[20]. Per due motivi: 1) la distanza più che evidente dai canoni del Diamat; 2) la considerazione dell’irrazionalismo come tendenza che non soltanto spinge all’imbarbarimento ma addirittura lo promuove e il nazismo ne è l’esito in quanto nega sistematicamente ogni presupposto razionalista e illuminista. Di fronte alla distruzione della ragione che si realizza lungo l’asse filosofico Schelling/Schopenhauer/Kierkegaard per poi muoversi in direzione di Nietzsche/Spengler/Heidegger per approdare sui lidi in cui si incontrano in modo tutt’altro che casuale darwinismo sociale e razzismo, Lukács individua come unica alternativa praticabile la strada della dialettica che da Hegel si indirizza verso la pratica rivoluzionaria teorizzata da Marx.

                Il settimo capitolo (Realismo e politica nell’Ungheria socialista) e l’ottavo (Contro Stalin) affrontano il ritorno del filosofo nel suo paese natale dopo il soggiorno a Mosca, il suo ritiro a vita privata come esito del cosiddetto “Dibattito Lukács”, il ripresentarsi in pubblico con prese di posizione etiche e politiche, la partecipazione alla rivoluzione del 1956. Durante gli eventi rivoluzionari di quell’anno in Ungheria è nominato ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Nagy; deportato in Romania a seguito dell’intervento sovietico, rientra in Ungheria nell’aprile del 1957 ritirandosi definitivamente a vita privata, nonostante la riammissione nel partito nel 1967, fino alla morte sopraggiunta il 4 giugno del 1971.

La rivoluzione ungherese del 1956 rappresenta un momento particolarmente significativo nel rapporto etica-politica in Lukács. Infatti il filosofo fu uno degli animatori del Circolo Petöfi che si poneva in un’ottica di esplicita opposizione, in chiave apertamente antistalinista. Proprio negli interventi del filosofo durante le riunioni del circolo è possibile rintracciare lo spirito che animò il ’56 ungherese. Non si va lontano dal vero sostenendo che le sue parole furono la molla che diede vita alla grande assemblea studentesca del Politecnico della capitale magiara il 22 ottobre. Ancora prima, il 28 giugno 1956, nel clima del movimento popolare contro la dittatura staliniana di Rákosi, il filosofo tenne a Budapest una conferenza[21] la cui tesi centrale è costituita dalla critica contro lo stalinismo quale deformazione dogmatica del marxismo. La realtà non è fatta soltanto delle grandi contraddizioni di fondo (capitalismo e socialismo, guerra e pace), ma di una molteplice serie di contraddizioni minori o interne alle contrapposizioni essenziali. Lo stalinismo ignora questa seconda serie di contraddizioni e prospetta un mondo tutto in bianco e nero, con il risultato di rendere astratte e dogmatiche tutte le definizioni. Su questo terreno nasce e fiorisce il settarismo cosiddetto di sinistra, che isterilisce il movimento operaio, e, dove esso è al potere, giustifica le concezioni burocratiche facilitando il distacco dalla realtà. Lukács rifiuta ogni interpretazione limitativa delle conseguenze del XX Congresso e cerca piuttosto di prendere coscienza non già degli «errori», ma della degenerazione ideologica dello stalinismo, mettendone a nudo le radici e ristabilendo i valori critici del pensiero marxista. Scrive Lukács:

Il tentativo della borghesia di utilizzare contro di noi i risultati del XX Congresso del PCUS non avrà alcun successo. Tuttavia la possibilità che i risultati del XX Congresso divengano realmente efficaci si fonda sulla loro esatta comprensione da parte nostra… Dobbiamo cioè fare definitivamente i conti col settarismo e col dogmatismo…[22]

Il campo del progresso implicava il coinvolgimento, al fine di creare un grande movimento, di forze esterne al comunismo, come militanti socialdemocratici, la Chiesa, alcuni strati della borghesia. Il farmaco per guarire dalla degenerazione staliniana, condannata dal XX Congresso, doveva essere un’alleanza dei comunisti con tutti i progressisti, a qualunque ideologia facessero riferimento, per cooperare sul terreno comune della lotta per la pace[23].

Gli ultimi tre capitoli del libro di Infranca (Etica e politica nella grande Estetica, La politica e l’etica nell’Ontologia dell’essere sociale, La concezione politica dell’ultimo Lukács) sono dedicati alle grandi opere che il filosofo ungherese scrisse nel corso degli ultimi venti anni della sua vita. Se portate a termine, ne sarebbe sortito un poderoso sistema filosofico. Prima un’estetica seguita da un’etica. L’Estetica la conosciamo: un vero monumento di 1600 pagine a cui avrebbe dovuto fare seguito un secondo volume. Accingendosi a scrivere l’Etica, Lukács si rese conto che ad essa mancava il soggetto; dalla presa di coscienza di questa assenza nacque l’Ontologia dell’essere sociale, della quale sono noti anche i Prolegomeni. Purtroppo la morte, sopraggiunta nel mese di giugno del 1971, impedì a Lukács di portare a termine il suo progetto sistematico. Le grandi opere dell’ultimo Lukács, in specie proprio l’Estetica e l’Ontologia dell’essere sociale (anche se, più correttamente, il titolo è Per l’ontologia dell’essere sociale), sono il documento esplicito di cosa il filosofo intendesse con il nesso democrazia-socialismo e rappresentano, specialmente la seconda, come ricorda Infranca, «il fondamento di una teoria socialista»[24]. Originale, e più che mai antistaliniano, il concetto di democrazia della vita quotidiana secondo il quale la democrazia ha il suo nucleo originario nel rapporto stretto che lega gli uomini fra loro in un riconoscimento reciproco (politica) che nasce da un atteggiamento etico di solidarietà e di disponibilità di tutti verso tutti (il contrario dell’hobbesiano bellum omnium contra omnes) che conduce al socialismo.

Ancora a livello della grande Ontologia lukácsiana è possibile rinvenire una possibile coincidenza con Gramsci. Infatti un incontro fra i due sul concetto di ideologia avviene quando entrambi non la definiscono esclusivamente una «falsa coscienza» in quanto la considerano un elemento che ha un ruolo nella costruzione della vita sociale; di più, il carattere ontologico-sociale dell’ideologia la vincola in modo decisivo alla prassi politica intesa come agire degli uomini fra loro nella costruzione della «vita d’insieme che sola è la forza sociale» (Q4, 33, 452, Testo A e Q11, 67, 1506, Testo C), da cui si crea il blocco storico. E Lukács:

L’ideologia per l’appunto, pur essendo una forma della coscienza, non è affatto in tutto e per tutto identica alla coscienza della realtà, essa in quanto mezzo per combattere i conflitti sociali è qualcosa di eminentemente diretto alla prassi e quindi – naturalmente nel quadro della sua specificità – partecipa anche del carattere peculiare di ogni prassi, e cioè quello di essere orientata su una realtà da trasformare (dove […] la difesa della realtà data contro i tentativi di cambiamento ha la medesima struttura pratica).[25]

Chiosa Carlos Nelson Coutinho:

Gramsci (e Lukács) analizzano l’ideologia come forza reale, come fatto ontologico che altera e modifica la vita umana, anche quando i suoi contenuti cognitivi non corrispondono adeguatamente alla riproduzione della realtà.[26]

            Entrambi ostili alla sociologia e ai suoi processi manipolatori; entrambi antipositivisti e antipragmatisti, seppure con alcune sfumature di divergenza; entrambi convinti che il senso comune, come livello ingenuo di coscienza «spontanea» (Q8, 204, 1063, Testo A; Q11, 12, 1375, Testo C)[27], risulti essere necessario ad integrare e alimentare la cultura superiore.

Alla sua notevole, per mole e per contenuti, monografia Infranca aggiunge, in altro volume, la cura e la traduzione di due saggi lukácsiani pubblicati nel 1982 dall’Archivio Lukács di Budapest e poi, nel 1989, dalla casa editrice dell’allora Repubblica democratica tedesca Aufbau Verlag[28]. Il primo dei due saggi lukácsiani tradotti da Infranca si intitola Come la filosofia fascista si è sviluppata in Germania?[29] e risale al 1933, nel clima del socialfascismo deciso dal VI Congresso dell’Internazionale, tollerato dal filosofo che si era già pronunciato, con le Tesi di Blum del 1928, in controtendenza con quelle che saranno poi le posizioni dell’Internazionale. In questo primo saggio del volume Lukács dimostra come, a suo parere, l’ideologia nazista non sia il semplice frutto di un movimento nato in una birreria di Monaco di Baviera quanto piuttosto l’esito di un progressivo atteggiamento della borghesia tedesca che, sotto il possibile verificarsi di una rivoluzione proletaria, si collocò sul terreno del nazismo accettandone i presupposti ideologici in quanto molto prossimi ai suoi. In questo la responsabilità degli intellettuali fu decisiva, come decisivo fu l’articolo 148 della Costituzione di Weimar che nascondeva le tradizioni democratiche tedesche dietro espressioni come «spirito del germanesimo» e «riconciliazione dei popoli», favorendo, di fatto, la crescita di un’educazione che spacciava per ordinamento democratico ciò che della democrazia era il contrario, ossia una struttura gerarchica piramidale nella quale un Capo, un Führer dà ordini ai suoi seguaci. Questo, per il filosofo, è il risultato raggiunto da quello che definisce «l’irrazionalismo in Realpolitik»[30] identificato come padre filosofico e politico del socialfascismo.

            Il secondo saggio, Come la Germania è diventata il centro della filosofia reazionaria?[31], fu scritto nell’inverno del 1941-42 a Taskent, dove il filosofo ungherese era stato evacuato per timore di una resa di Mosca. Alcune delle argomentazioni qui svolte confluirono nel primo capitolo de La distruzione della ragione (1954) e, così come sarà in questo grande e discusso libro, il bersaglio filosofico di Lukács è Nietzsche. Il filosofo di Röcken rappresenta il vessillifero della tradizione della borghesia tedesca che si adagia sul proprio stato di autocompiacimento e a lui Lukács contrappone Goethe e Hegel, ossia i rappresentanti dell’umanesimo classico tedesco che diventano le stelle comete del percorso politico e intellettuale lukácsiano.

L’ideologia nazista è l’esatto opposto e Lukács ne coglie la specificità quando essa pretende di spiegare la storia come esito di una manovra ebraica, il prodotto della lotta fra le razze o l’effetto di una loro mescolanza facendo della razza un mito, o meglio, rendendo un mito la superiorità di una razza, quella ariana, che diventa «il criterio di tutte le azioni, di tutta l’esistenza dell’essere umano»[32].                                        

Lukács può essere ricondotto a quanto Gramsci scriveva del filosofo democratico, ossia un nuovo tipo di filosofo convinto che «la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale»?[33] Franco Fortini dedicò al filosofo una poesia:

Le scarpe pesanti il gomito sui libri / il sigaro spento non per il dubbio / ma per il dubbio e la certezza / nell’ultima foto / dall’altra parte del vero / occhi smarriti guardandoci. / Alle sue spalle guardiamo i libri deperiti / i tappeti il legno gotico / del San Martino a cavallo / che si taglia il mantello / per darne metà al mendicante. / Gli uomini sono esseri mirabili[34].

Il commento fortiniano dei suoi stessi versi si propone come possibile risposta alla precedente domanda cruciale posta sulla scorta di Gramsci:

…la mia breve poesia si conclude con una citazione greca, con una situazione di tipo umanistico: «L’uomo è l’essere più mirabile che vi sia, molte sono le cose mirabili in questo mondo e l’uomo è la cosa più mirabile», mi pare che dica il primo coro dell’Antigone. Forse in quel sigaro spento è contenuta una piccola allegoria: è la diversità del dubbio e dell’amarezza che ci ha impedito di mantenere acceso il nostro sigaro[35].

La monografia di Infranca e la traduzione dei due saggi di Lukács forniscono del filosofo un ritratto per molti versi originale e di notevole spessore che molto corrisponde alla descrizione gramsciana del filosofo democratico. In questo modo Lukács diventa uno dei protagonisti della scena intellettuale, culturale e politica del secolo scorso e i suoi atti e le sue parole, attraverso il testo di Infranca, mettono in evidenza come dalle particolari prese di posizione sortisca un’immagine di coerenza e di compiuta consapevolezza dei destini dell’umanità e del socialismo come orizzonte ultimo di una necessaria convivenza in cui ciascuno sia un San Martino per chi chiede accoglienza e inclusione.

 

[1] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, introduzione di Miguel Vedda, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2024, pp. 517.

[2] Miguel Vedda è docente di Letteratura tedesca presso la Università di Buenos Aires, traduttore del Faust di Goethe, di Eichendorff, Marx, Storm, Kafka, Kracauer, studioso di Lukács sul quale ha scritto diversi saggi oltre ad averne tradotto in spagnolo alcune opere.

[3] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 17.

[4] G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo. Intervista di I. Eörsi, tad. di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 104.

[5] G. Lukács, Dostojewski. Notizen und Entwürfe, Akadémiai Kiadó, Budapest, 1985; traduzione italiana G. Lukács, Dostoevskij, a cura di M. Cometa, SE, Milano, 20122.

[6] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 70.

[7] G. Lukács, Tattica e etica in Id., Scritti politici giovanili (1919-1928), introduzione di P. Manganaro, Laterza, Bari, 1972, p. 10 (cfr. A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., pp. 83-84).

[8] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975 (per l’opera gramsciana si cita e si citerà da questa edizione indicando il Quaderno, la nota e la pagina): Q8, 236, 1089, Testo A. È interessante mettere in evidenza che la seconda stesura è completamente nuova rispetto alla prima nella quale non comparivano tutti i riferimenti cronologici, soprattutto quello relativo al marzo del 1921. Gerratana distinse le note gramsciane in Testi A di prima stesura, Testi B di stesura unica, Testi C di seconda stesura.

[9] C. Spagnolo, Fascismo in G. Liguori e P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci, Roma, 2009, p. 297. Torna sulla questione Roberto Carocci nel saggio Kronstadt 1921. La fine della rivoluzione («MicroMega», 2017, n. 7, pp. 67-77) risolvendola nei termini facilmente intuibili dal titolo del suo scritto nel quale, peraltro, non ci sono riferimenti a Gramsci.

[10] A. Gramsci, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Einaudi, Torino, 1974, pp. 98-99 e p. 109.

[11] Non si dimentichi che con il Trattato di Riga la Russia, perdendo parte dell’Ucraina e della Bielorussia, doveva di fatto rinunciare all’idea di potersi collegare direttamente con i movimenti operai europei.

[12] «Intorno alla Germania gravita l’Europa intera, gravita l’Europa borghese, cui le persistenti gelosie nazionalistiche e le mal celate brame di conquista impediscono di tornare a collaborare col più operoso dei paesi industriali, e gravita l’Europa proletaria, legata alle sorti della massa più larga, più profonda, capace di decidere con un suo movimento le sorti di alcuni Stati e di spostare completamente il centro della politica europea» (A. Gramsci, La rivoluzione in Germania in Id., Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, cit., pp. 120-122).

[13] G. Lukács, Prefazione a Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano, 1974, p. XII.

[14] G. Lukács, Spontaneität der Massen, Aktivität der Partei e Organisatorische Fragen der revolutionären Initiative; in italiano, Spontaneità delle masse, attività del partito e Problemi organizzativi dell’iniziativa rivoluzionaria in id., Scritti politici giovanili 1919-1928, cit., pp. 137-165. Si vedano, ai fini della comparazione con Lukács, le riflessioni gramsciane sul tema in Q3, 48, 328-332.

[15] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 28.

[16] Il testo è in G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano, 19753, con il titolo Il carattere soprastrutturale dell’arte e della letteratura, pp. 461-490.

[17] Ivi, p. 461.

[18] Ivi, p. 8.

[19] Ibidem (cfr. A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 241).

[20] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 295. Nella lunga ma necessaria nota a pie’ di pagina l’autore critica quanti hanno definito stalinista l’opera di Lukács.

[21] G. Lukács, La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi in Id., Marxismo e politica culturale. Socialismo e libertà, il Saggiatore, Milano, 1972.

[22] Ivi, p. 139. Infranca affronta la conferenza di Lukács alle pp. 343-349 del suo lavoro.

[23] Questa riflessione sulla conferenza di Lukács ha come punto di riferimento Lucio Libertini, Progresso e reazione nella cultura d’oggi in «Risorgimento Socialista», Anno VII, n. 7, febbraio 1957.

[24] A. Infranca, Etica e politica in Lukács, cit., p. 395.

[25] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 500.

[26] C. N. Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Unicopli, Milano, 2006, p. 91.

[27] Cfr. G. Prestipino, Su Lukács. Frammenti di un discorso etico-politico, a cura di L. La Porta, Appendice di V. Abati, Editori Riuniti, Roma, 2020, p. 91.

[28] G. Lukács, Critica dell’ideologia fascista, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2024.

[29] Ivi, pp. 17-193.

[30] Ivi, p. 131.

[31] Ivi, pp. 194-324.

[32] Ivi, p. 302.

[33] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, Q10 II, 44, p. 1332.

[34] Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano, 2015, p. 406.

[35] R. Musillami (a cura di), Filosofia e prassi. Attualità e rilettura critica di György Lukács e Ernst Bloch, Cooperativa Diffusioni ’84, Milano, 1989, p. 25.

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